Fana: “Sul posto di lavoro diventeremo tutti precari

Marta Fana è appena tornata a Parigi, dove è ricercatrice in Economia presso l’istituto di studi politici di Sciences Po. Da pochi giorni ha portato a termine un lungo tour in molte città italiane per presentare il suo libro “Non è lavoro, è sfruttamento” (edito per i tipi della Laterza). Il libro (un successo editoriale nel campo della saggistica) è diventato in breve tempo anche un manifesto politico contro la precarietà del mondo del lavoro, nonchè del suo impoverimento. Non solo nel campo dei diritti faticosamente conquistati a partire dal Dopoguerra. Perchè le aziende hanno ottenuto quello che volevano e di cui – secondo la prevalente tesi liberista – avevano bisogno per continuare a essere profittevoli, ma i lavoratori hanno ottenuto in cambio poco o nulla. Anzi: sono dominuiti i salari e le protezioni sociali per chi è rimasto senza lavoro. Soprattutto in Italia, dove le garanzie di tipo “scandinavo” sono rimaste nel libro dei sogni.

Il libro descrive una realtà in cui ci sono sempre meno diritti, stipendi medi sempre più bassi, precarietà in aumento e licenziamenti facili senza contropartite “sociali”. Ma è una denuncia oppure una fotografia della realtà?

“E’ il risultato di quanto abbiamo ottenuto con vent’anni di riforme del lavoro, che ora coinvolge la maggior parte della popolazione italiana. Una situazione che è peggiorata negli ultimi anni con la recessione, ma il cui declino è iniziato molto prima. Ma non è solo la realtà dei fatti, il libro vuole anche essere una denuncia perché andare avanti così non è più possibile”.

a riforma di punta del governo Renzi, il Jobs act aveva garantito che con l’abolizione dell’articolo 18 il lavoratore avrebbe avuto in cambio le tutele crescenti, con la trasformazione nel tempo dei contratti da precari in stabili. Anche gli ultimi dati Istat dicono che non è così, ma sono aumentati solo i contratti a tempo determinato. Possiamo già decretarne il fallimento?

“Non solo l’obiettivo non è stato minimamente raggiunto, ma le serie storiche dei dati ci dicono che l’aumento dei contratti a tempo determinato non è un elemento provvisorio nel mercato del lavoro, ma è diventato strutturale. Mi spiego: se prima si accettava il fatto di avere contratti precari e retribuzioni più basse come passaggio necessario per arrivare a contratti stabili e stipendi adeguati, ora ci si è rassegnati a non essere mai più stabilizzati. Anche i governi a guida Pd hanno proseguito nelle scelte che hanno portato il lavoro a essere sempre più precario per mantenere le condizioni favorevoli alle imprese e ai profitti”

Quando le condizioni di vita sono difficile ci si aspetterebbe una reazione, una protesta: invece cresce sempre di più la “solitudine” anche sul luogo di lavoro. Come mai?

“La colpa è del processo di flessibilizzazione, che ha come conseguenza una individualizzazione dei rapporti e una maggiore vulnerabilità da parte dei lavoratori. I quali vivono nella perenne attesa di una chiamata e non hanno modo di organizzarsi. Soprattutto quando non ci sono soggetti politici e sindacali che li rappresentano. Ma è anche vero che negli ultimi tempi assistiamo, anche se non in maniera massiccia, alle prime forme di riorganizzazione collettiva, soprattutto nei settori dei lavori a cottimo o contro le finte cooperative”.

Lo sfruttamento non riguarda solo i meno tutelati. L’iperliberismo ha fatto danni anche alla testa di chi aspira a lavori di fascia medio-alta: tutti sperano di far parte della ristretta cerchia di chi guadagna bene e accettano di tutto pur di emergere.

“Vivere nell’economia della promessa significa sottostare a qualsiasi cosa pur di entrare a far parte di coloro che chiamerei i lavoratori funzionali alle elite. Una possibilità che riguarda, però, solo una fascia ristretta di persone. Non solo: con la crisi la promessa di una promozione professionale a livelli di retribuzione più elevata è stata infranta: prima si era disponibili a un periodo di “formazione” da sottopagati e precari perché si intravedeva la possibilità di far parte di un livello professionale superiore e più garantito. Ma ora non è più così, questa certezza non c’è più. La narrazione dominante ci impone sempre un “nemico esterno”: non si è fatto abbastanza per la flessibilità necessaria alle imprese per investire, non possiamo alzare i salari perché ci sono le pensioni da salvaguardare. Così si accettano stage o finti tirocini per 400 euro al mese. Una prassi che dalle professioni si è allargata ai lavori usuranti: un tempo operai e manovali non erano disposti ad accettare uno stipendio basso o in nero, ora lo sono anche loro”.

Eppure, dalla Bce al Fondo monetario tutti avvertono che non ci sarà ripresa se non aumenteranno le retribuzioni: hanno capito che senza soldi non si consuma?

“C’è una forte dicotomia tra quello che si scrive nelle ricerche e l’approccio politico di queste istituzioni. Il Fondo Monetario sostiene da anni che c’è troppa disuguaglianza, che un sindacato meno forte in realtà è un freno allo sviluppo e che con i salari troppi bassi non si innesca nuova crescita. Ma le dichiarazioni politiche vanno poi in un’altra direzione: si sostiene che riforme come il Jobs sono state positive e che è necessario mantenere la parità di bilancio, oppure di pensare a tagliare il debito pubblico ora che c’è ripresa. Il cambio di direzione politica non è all’orizzonte e non si pongono minimamente il problema di una Italia in cui is alari calano e ci sono 18 milioni di persone sotto la soglia della povertà”.

Perché l’opinione pubblica ha solidarizzato con i precari di Amazon, ma quando scioperano i metalmeccanici o gli autisti dell’autobus ne è infastiditi?

“Perché da un lato si pensa che i lavoratori metalmeccanici hanno già avuto e sono già stati abbastanza garantiti. Ma dall’altra si percepisce come Amazon proponga un modello che fa paura a tutti e fa emergere la consapevolezza che sia uno strumento per tenere buona la fascia sociale che si può permettere di consumare soltanto grazie a forti sconti. Così come ha fatto emergere come Amazon possa sembrare una novità interessante ma che in realtà nasconde ben altra realtà. Esempi come Amazon hanno portato alla luce il fatto che un tempo una volta espulsi dalla fabbrica o dal terziario c’era la possibilità di trasformarsi in partita iva o finire in un servizio esternalizzato. Ora non è più così, esiste solo la precarizzazione, che riguarda tutti ed una realtà a cui non si sfugge”.

(Repubblica)

2 Comments

  1. In buona parte è vero e credo sia in questa miseria attuale e di possibilità di futuro che si può leggere un voto del 47% in Sicilia ed in generale nel sud , qui al nord cadono ancora briciole , lì proprio nulla

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