L’unità non basta

Dal blog https://jacobinitalia.it/

Giuliano Santoro 27 Giugno 2024

Tra le ultime elezioni e le prime mobilitazioni contro autonomia differenziata e premierato, i partiti d’opposione hanno battuto un colpo. Ma un salto di qualità può avvenire a partire dalla presa d’atto dei loro limiti

Citato qua e là, en passent, non si è analizzato abbastanza il complesso di inferiorità della destra al governo in Italia e le sue implicazioni politiche. La stessa prossemica della presidente del consiglio Giorgia Meloni, un alternarsi di faccette buffe-passivoaggressive e posture volitive, esprime l’ossimoro che alla lunga corrode dall’interno ogni potente: ho il comando ma non ho davvero il controllo della situazione. 

L’egoismo proprietario della destra

Le ultime elezioni, quelle per il parlamento europeo e le amministrative, hanno dimostrato plasticamente, con la forza dei numeri, questa inferiorità: la destra al governo non ha la maggioranza assoluta e Meloni non conosce il boom che tutti gli inquilini di Palazzo Chigi avevano conosciuto alle europee degli ultimi 25 anni. Ancora, la destra si agita con provvedimenti spot e sparate propagandistiche ma non sembra avere grandissimi riscontri nel paese. Il nervosismo con il quale affronta la minima contestazione o il presentarsi ciclico della questione dell’antifascismo evidenzia la sindrome da accerchiamento. I tentativi, affidati dentro e fuori dalle istituzioni a personaggi vieppiù improbabili, di costruire un’egemonia culturale di destra si sono mostrati finora goffi quando non patetici. 

Sia chiaro, ciò non significa che questa destra non sia pericolosa. Al contrario: la violenza più minacciosa è quella che proviene da chi si trova ai margini. A proposito di violenza, peraltro, non ci sono dubbi sul fatto che (comunque la si pensi sui conflitti bellici in corso) questa destra abbia tratto legittimità dal regime di guerra vigente: senza guerre, difficilmente avrebbe avuto le necessarie garanzie dal punto di vista della credibilità internazionale.

Le riforme dell’autonomia differenziata e del premierato possono essere lette anche da questo punto di vista: sono il tentativo di scardinare equilibri costituzionali e far saltare bilanciamenti tra poteri per creare a tavolino una situazione più favorevole. Per trarre legittimità anche sul piano interno.

Circolano in questi giorni diversi video che ritraggono una Giorgia Meloni di qualche anno fa impegnarsi per «la fine del regionalismo». L’auspicio della leader di Fratelli d’Italia, con tutta evidenza, cozza con l’approvazione a opera della sua maggioranza dell’autonomia differenziata. Va tuttavia notato che questa di Meloni non è soltanto l’ennesima inversione a u, dalla propaganda di opposizione alla realpolitik di governo (era successo anche, solo per dirne alcune, con la promessa di abolire le accise e con le posizioni critiche verso l’establishment europeo). Unita alla verticalizzazione antidemocratica rappresentata dal premierato, la riforma che smantella gli equilibri nazionali e consegna la solidarietà tra territori agli specifici contesti locali è la quadratura del cerchio dell’egoismo proprietario che informa la destra: dimostra ancora una volta che il sovranismo non è un argine al neoliberismo ma una sua articolazione, un modello di disciplinamento ai dettami del mercato in tempo di crisi. 

La spinta all’opposizione unitaria

Di fronte a questo salto di qualità dell’azione di governo delle destre, le opposizioni hanno battuto un colpo. Le tensioni alla camera nel corso della discussione del ddl Calderoli hanno offerto l’occasione per la manifestazione unitaria del 18 giugno a piazza Santi Apostoli. Una location non enorme, pensata più per dare un segnale che per una presenza oceanica, si è rivelata comunque significativa. A eccezione di Carlo Calenda e Matteo Renzi c’erano tutti. C’era anche Rifondazione comunista, reduce dall’esperimento della lista Pace, terra e dignità, che ha rivendicato il dovere di esserci e di muoversi in maniera unitaria «quando si tratta di difendere la Costituzione». C’erano i partiti del cosiddetto campo largo, ognuno dei quali ha almeno un buon motivo per investire in questo processo. +Europa di Emma Bonino esce dalla fallimentare esperienza degli Stati uniti d’Europa con Matteo Renzi, che ha mostrato la difficoltà di agire lo spazio politico «liberale» in un quadro politico che vede molti dei sedicenti liberali cavalcare campagne e parole d’ordine affini a quelle della destra-destra di governo. Il Partito democratico, complice anche il ridimensionamento del Movimento 5 Stelle, ha interesse a presentarsi, con Elly Schlein, come il baricentro di una coalizione ampia in grado di battere la destra. Il M5S, a sua volta, deve fare i conti con il risultato elettorale negativo delle elezioni europee, in seguito al quale si sono fatti risentire i nostalgici dell’opzione «né di destra né di sinistra», che ormai anni fa grazie a una congiuntura favorevole, alla campagna stampa di sponda dei grandi media sulla Casta e al vuoto di potere da crisi della rappresentanza arrivò a gonfiare la bolla mediatica e rastrellare voti, appunto, sia a destra che a sinistra, per diventare il primo partito del paese. Al momento, pare che questo confronto interno tra pentastellati stia giocoforza spingendo Giuseppe Conte a rivendicare con forza l’esigenza di un M5S schierato senza ambiguità sul fronte progressista. E poi c’è Alleanza Verdi Sinistra (Avs), che ha scelto ormai da qualche tempo di presentarsi come la forza politica con posizioni riconoscibili (sulla guerra, sulla giustizia sociale e su quella ambientale) e che al tempo stesso assume lo schema bipolare e dunque si propone come pungolo per la costruzione di un’alleanza che possa battere le destre. Questo combinato disposto ha fatto in modo che ognuno dei leader politici abbia scelto di schierarsi per una campagna unitaria, la più larga possibile, contro le destre. Qualche giorno dopo tutte le forze di opposizione, da +Europa a Rifondazione e Potere al popolo, si sono ritrovate a discutere della «svolta autoritaria» in corso, convocati dal Forum Disuguaglianze e diversità di Fabrizio Barca. Se Riccardo Magi di +Europa ha negato ogni possibilità di costruire un terzo polo, Maurizio Acerbo di Rifondazione comunista ha negato ogni interesse verso «un nuovo centrosinistra» ma ha ammesso che in nome della difesa della Costituzione è disposto ad alleanze larghe.

I limiti dei partiti

Veniamo da quindici anni senza movimenti di massa diffusi e radicati. Ci è mancata la potenza formativa, pedagogica e terapeutica dell’azione collettiva. Ci hanno salvato le maree transfemministe, che ci hanno insegnato la cura delle relazioni e la politicità delle forme di vita, e il coraggio del nuovo attivismo ambientale, che ha sperimentato nuove forme di lotta. Il M5S delle origini si è rivelato un fenomeno temporaneo. Per puro caso non si è gettato sul fronte reazionario – visto che il laboratorio nazional-sociale del governo gialloverde crollò a causa della stupidaggine politica di Matteo Salvini più che per il rigetto del grillismo dell’epoca – e poi si è mostrato fugace come una travolgente e in fondo disperata risata pre-registrata di una sitcom in replica. Oggi il partito di Conte è già un’altra cosa, ed è lo stesso ex premier a doverlo rivendicare di fronte ai nostalgici del né di destra né di sinistra

La sinistra italiana, a differenza di quelle dei principali paesi europei, non ha mai conosciuto un avanzamento da bolla elettorale, ha anzi sofferto i fenomeni mediatici e le ondate da social media. Ciò è avvenuto perché (e sia chiaro, ciò non è sempre stato un bene) nuclei sparsi di militanti delle più diverse esperienze politiche e sociali hanno continuato a esistere e agitarsi, al di fuori dei radar dei grandi media, senza partito per scelta o perché di partiti non ce n’erano più, facendo da (spesso inconsapevole) contrappeso, quando non da freno, alla leggerezza tattica necessaria alla costruzione di partiti personali e spregiudicate operazioni da politica spettacolo. 

Dopo anni in cui gli esperimenti populisti si sono rivelati come forme estreme e fragili di riverniciare l’autonomia novecentesca del politico (delle sue verticalizzazioni e delle sue arroganti pretese di sufficienza) con qualche pennellata di digitale e di comunicazione smart, resta la crisi della rappresentanza, resta il nodo centrale del rapporto tra politica e società, laddove la prima resta ancora insufficiente e la seconda si mantiene vivace e creativa ma ha la difficoltà di costruire forme di aggregazione costituenti. 

Tuttavia, questa lettura non esaurisce la complessità della partita in corso e dei sommovimenti a sinistra. La composizione sociale e politica che si mobilita contro la tenaglia autonomia differenziata-premierato va oltre le forze politiche. In molti apprezzano, se non altro per motivi di pragmatismo, l’afflato unitario di chi si contrappone alla destra. Ma ciò che Meloni non riesce a cogliere, e che la fa sentire accerchiata, eccede le forze politiche in quanto tali. Non è una novità che la semplice sommatoria dei partiti di opposizione non basti a far saltare l’egemonia debole della destra. C’è di nuovo però che la politica dei partiti di sinistra, da un decennio talmente fragile da essersi spinta fin quasi alla propria stessa scomparsa, non può che percepirsi come insufficiente. Circola una certa consapevolezza, seppur dettata più da necessità che da convinzione, dei limiti delle forze che si contrappongono al disegno reazionario. A partire dalla presa d’atto di quei limiti si può provare a sperimentare forme nuove, radicali e conflittuali, di politicizzazione dal basso. 

Qualcosa di simile alla coalizione al governo in Spagna o al Nuovo Fronte Popolare, in Italia fatica a darsi perché manca una gamba: quella sinistra, qui molto più debole. Ma proprio la rarefazione delle forme organizzate, nell’intero campo democratico, dal M5S in crisi d’identità a un Pd che fatica ancora a digerire la sua stessa leadership e linea politica, per non parlare di Avs stretta tra un consenso crescente e una struttura ancora esile, fanno capire che molto dei destini di questa fase passano dalla capacità dell’opposizione sociale di attivarsi e dell’opposizione politica di entrarvi in relazione.

*Giuliano Santoro, giornalista, lavora al manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque Cervelli Sconnessi (Castelvecchi, 2012 e 2014), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo, 2015).

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.