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di Giuseppe Aiello23 Maggio 2025

Manifesto del tredicesimo anniversario della rivoluzione del settembre 1969. Il volto di Gheddafi campeggia su una banconota da 200 dirham, simbolo del culto personale costruito negli anni del suo potere. Foto Public Domai
Un ex deputato di Washington accusa gli Stati Uniti di aver voluto la morte dell’uomo forte della Libia.
Nel 2011 Muʿammar Gheddafi offrì le dimissioni pur di evitare la guerra. A ribadirlo è l’ex vicepresidente della Commissione difesa della Camera dei rappresentanti Curt Weldon, intervistato da Tucker Carlson. Gheddafi, un personaggio ambiguo che però era stato promotore di una moneta panafricana, era disposto a lasciare il potere e andare in esilio, chiedendo solo garanzie per la propria incolumità e una transizione politica guidata dai libici. Weldon racconta di essersi fatto portavoce della proposta dopo un viaggio a Tripoli nel marzo 2011, volto a negoziare una soluzione diplomatica per evitare un’escalation militare. Ma l’offerta di Gheddafi fu respinta dall’amministrazione Obama, che assieme a Francia e Regno Unito premeva per un intervento Nato. Con la fine del regime, si aprì la corsa per l’immensa ricchezza della Libia, destabilizzando il Mediterraneo. E svanì il sogno del dinaro d’oro.
Ascolta l’articolo, letto da Giulio Bellotto:
«Siamo stati noi a causare la morte di Gheddafi». Con queste laconiche parole, l’ex deputato repubblicano statunitense Curt Weldon ha sganciato una bomba sulla politica estera americana. Lo ha fatto il 14 aprile 2025, durante un’intervista con il giornalista statunitense Tucker Carlson. Ex vicepresidente della Commissione difesa della Camera dei rappresentanti, Weldon ha fornito una testimonianza sulla controversa fine del rais libico, che riaccende interrogativi sulle reali motivazioni dell’intervento in Libia. «Io mi sono recato lì durante la guerra» ha aggiunto. «Gheddafi mi aveva chiesto di andare».
L’ex deputato ha riferito di aver recapitato, nel 2011, una lettera del rais in cui quest’ultimo si dichiarava pronto a rassegnare le dimissioni. Tuttavia, ha spiegato, «gli Stati Uniti non volevano che si dimettesse. Volevano ucciderlo». Secondo Weldon, Gheddafi mirava a unificare il continente africano sotto una valuta ancorata all’oro, mettendo così in discussione l’egemonia finanziaria occidentale. Ma non solo. «Volevano il controllo del suo petrolio e del suo fondo sovrano» ha aggiunto.
Affermazioni eclatanti, ma senza riscontri ufficiali. La narrazione delle cancellerie occidentali è ben diversa. L’intervento Nato in Libia, avviato nel marzo 2011 e autorizzato dalla Risoluzione 1973 dell’Onu, fu presentato come un’operazione umanitaria fondata sulla «Responsibility to Protect»1, per evitare il presunto genocidio a Bengasi. Promosso da Stati Uniti, Francia e Regno Unito, fu quindi giustificato dalla necessità di proteggere i civili.
Eppure, le parole di Curt Weldon si inseriscono in un contesto segnato da opacità, omissioni e contraddizioni. Anni dopo, lo stesso Barack Obama ammise l’assenza di una strategia per il «dopo Gheddafi», descrivendo l’intervento come «il peggior errore» della sua presidenza. Questa lacuna lasciò spazio a milizie, potenze straniere e traffici illeciti. Nel 2014 lo Stato Islamico occupò Sirte, approfittando del vuoto di potere. La ricchezza petrolifera alimentò le ingerenze esterne e le lotte per il controllo del territorio. La caduta di Gheddafi destabilizzò l’intero Mediterraneo, spalancando il principale corridoio migratorio verso l’Italia e alimentando un’economia fondata su tratta umana, estorsione e violenza.
Alla luce della testimonianza dell’ex deputato Usa, Krisis riapre il dossier libico. Che Stato era la Libia prima del 2011? Chi ha realmente determinato il destino di Gheddafi? Perché si è preferita la sua eliminazione a una soluzione negoziale?
La Repubblica delle masse
Muʿammar Gheddafi salì al potere in Libia il primo settembre 1969, guidando un colpo di Stato incruento promosso da giovani ufficiali noti come «liberi ufficiali unionisti»2, ispirati al nasserismo e all’anticolonialismo arabo.

Il Paese era stato retto dal 1951 da re Idris I, sostenuto dal Regno Unito come figura anti-italiana in Cirenaica e poi come alleato durante la Guerra fredda. Londra ne aveva favorito l’ascesa al trono, offrendogli basi militari e protezione. Durante la crisi di Suez del 1956, il re si era opposto a Nasser, rompendo il fronte arabo. Successivamente, aveva ottenuto anche il sostegno degli Stati Uniti, che vi avevano installato la base aeronautica di Wheelus Field. Idris era quindi appoggiato dalle potenze atlantiche. Dopo la sua deposizione, fu proclamata la Repubblica araba libica.
Gheddafi accentrò gradualmente il potere pur rinunciando formalmente a cariche istituzionali a partire dal 1979, quando assunse il titolo di Guida della rivoluzione. Il nuovo sistema si fondava sulla «terza teoria universale», esposta nel Libro verde3, che fondeva socialismo, nazionalismo e islam, in alternativa a capitalismo e marxismo.
Nel 1977 fu proclamata la «Gran Jamahiriyya araba libica popolare socialista», uno Stato delle masse basato su congressi e comitati popolari. Tuttavia, il potere fu concretamente concentrato nei Comitati rivoluzionari, fedeli al leader, che reprimevano il dissenso, celando un regime personalistico dietro una facciata assembleare.
Il welfare state di Gheddafi
Nel periodo della Jamahiriyya (1977–2011), la Libia mise in atto un vasto programma di politiche pubbliche fondato sulla redistribuzione della «rendita petrolifera»4. L’istruzione divenne gratuita a tutti i livelli e fu estesa alle aree rurali e desertiche, con la costruzione di nuove scuole e la formazione statale degli insegnanti.
L’università fu potenziata nei settori scientifico, tecnico e giuridico, con un sistema di borse per l’estero assegnate secondo criteri ideologici. La sanità fu riformata con servizi gratuiti, ospedali periferici e formazione locale, pur con parziale ricorso a medici stranieri. Sul piano sociale, il regime garantì sussidi per beni primari e proclamò il diritto alla casa. Gli alloggi, di proprietà statale, vennero distribuiti attraverso un sistema centralizzato.
Dal 1978 furono espropriate abitazioni sfitte o speculative. Seguirono nuovi quartieri e l’abolizione della tassazione diretta, sostituita da «dividendi rivoluzionari» finanziati con la rendita petrolifera. Tra i principali progetti infrastrutturali, si distinse «Il grande fiume artificiale»5, ideato per convogliare acque fossili del deserto verso la costa, migliorando l’approvvigionamento idrico. L’attività economica privata fu drasticamente ridimensionata: botteghe chiuse o trasformate in cooperative, commercio statalizzato e importazioni rese monopolio pubblico.
La Libia diventa Stato rentier
Nel 2006 nacque la Libyan Investment Authority (LIA), fondo sovrano da oltre 60 miliardi di dollari, istituito per acquisire asset finanziari in Europa. Le riserve auree della Banca centrale (144 tonnellate) costituivano la base di una certa solidità finanziaria. Tuttavia, la ricchezza risultava distribuita in modo diseguale: le tribù della Tripolitania, in particolare i «Gheddadfa» (i fedelissimi della tribù beduina di origine araba a cui apparteneva il rais), godevano di privilegi, mentre la Cirenaica veniva emarginata.
Durante la Jamahiriyya, la Libia divenne uno Stato rentier: oltre il 95% delle entrate statali derivava da petrolio e gas. Subito dopo la rivoluzione del 1969, Gheddafi attuò ampie nazionalizzazioni, che culminarono con il controllo della National Oil Corporation (NOC)6. Lo Stato libico garantiva gratuitamente, o quasi, beni essenziali: sanità, istruzione, acqua, energia, abitazioni. Tuttavia, l’economia non seguiva un modello socialista coerente, ma attuava una redistribuzione paternalistica legata alla fedeltà politica e tribale.

Nel 2011, la guerra civile interruppe il flusso di rendite: l’intero impianto economico e politico collassò, rivelando l’assenza di legittimità istituzionale. La Jamahiriyya costituì un potente sistema di redistribuzione delle risorse, ma mancò di diversificazione economica e di rappresentanza politica. Tale struttura non resse al collasso del modello di «état rentier»: un sistema economicamente solido nel breve periodo, ma strutturalmente fragile nel lungo termine.
La cinica svolta ideologica su Israele
Durante la Guerra fredda, l’ostilità verso Israele costituì una costante ideologica della politica estera di Muʿammar Gheddafi e della Jamāhīriyya libica. Israele venne rappresentato come emblema dell’imperialismo e della colonizzazione occidentale. Fin dagli anni Settanta, Gheddafi invocò una guerra popolare contro lo Stato ebraico e sostenne attivamente la causa palestinese, finanziando movimenti armati come l’Olp e Abu Nidal, fondatore del gruppo Fatah, mediante un apposito «Fondo per la Jihād»7.
Il suo antisionismo assunse tratti militanti e globali in cui Israele incarnava l’oppressore da eliminare. Tra gli anni Settanta e Ottanta, il leader libico persuase diciassette Stati africani a interrompere i rapporti diplomatici con Tel Aviv, proclamando provocatoriamente di aver «relegato Israele al rango di Taiwan»8. Gheddafi si oppose strenuamente agli Accordi di Camp David (1978), nonché agli Accordi di Oslo (1993), che interpretò come strumenti d’erosione dell’unità palestinese. In alternativa, nei primi anni Duemila, avanzò la proposta di uno Stato unico, «Isratina»9, in cui arabi ed ebrei convivessero come cittadini eguali, superando la logica della spartizione territoriale.
Collegò tale approccio alla Risoluzione 194 dell’ONU dell’11 dicembre 1948, che riconobbe ai profughi palestinesi il diritto di tornare nelle proprie case nell’attuale Israele o di ricevere un risarcimento.
In questa prospettiva, il Rais non esitò a negare eventi storicamente comprovati, come il massacro di Deir Yassin del 1948. Nel Libro Bianco del 2003, Gheddafi sostenne che l’eccidio «non ebbe luogo», attribuendo l’esodo arabo-palestinese non a violenze o espulsioni, bensì al panico generato da «voci spaventose e infondate». Tale posizione, apertamente in contrasto con quanto dimostrato fin da subito dalla Croce rossa, si inserì in una strategia narrativa volta a dimostrare che il ritorno dei profughi palestinesi in Israele non incontrava ostacoli oggettivi se non la loro stessa paura. Per tali affermazioni, Gheddafi fu accusato da numerosi esponenti arabi di aver tradito la causa palestinese, negandone il trauma fondativo.
In realtà questa cinica inversione di rotta faceva parte di una strategia geopolitica volta a ridefinire il proprio ruolo internazionale, nel post Guerra Fredda. Presentandosi come figura terza nel conflitto, Gheddafi ambiva a essere l’unico leader arabo credibile a livello diplomatico. Nel post-11 settembre puntava a trasformarsi da emarginato a interlocutore dell’Occidente, sfruttando il fallimento degli Accordi di Oslo.
Il dinaro d’oro africano
Nel pieno della crisi finanziaria del 2008, con l’Occidente scosso dal collasso dei mercati e dalla spirale del debito sovrano, Muʿammar Gheddafi rilanciò una vecchia proposta dell’Unione Africana: introdurre una «moneta»10 panafricana ancorata all’oro. Il progetto del cosiddetto «dinaro aureo» puntava a sostituire il dollaro negli scambi intra-africani e nelle esportazioni di petrolio e materie prime, con l’obiettivo di emancipare il continente dall’egemonia valutaria occidentale.

Il piano prevedeva tre istituzioni: un Fondo monetario africano a Yaoundé11, una Banca centrale ad Abuja 12e, infine, una Banca africana di investimenti a Tripoli13. La valuta garantita da riserve auree avrebbe posto limiti alla creazione arbitraria di moneta, frenato l’espansione del debito e reso più difficile la speculazione. L’ipotesi di vendere petrolio in cambio di dinari aurei avrebbe compromesso la preminenza globale del dollaro.
L’iniziativa sarebbe stata una forma di sovversione verso l’ordine mondiale imposto dal Fmi. Nel Libro Verde, manifesto della Terza Teoria Universale, Gheddafi non parlò esplicitamente di moneta, ma affermò che ogni attività economica sarebbe stata giustificata solo se fosse servita a soddisfare i bisogni reali. L’accumulo eccedente, scrisse, sarebbe stato da considerare «un diritto sottratto agli altri»14.
Secondo un documento riservato diffuso da Wikileaks, i servizi segreti francesi considerarono il progetto una minaccia strategica. Non solo. Un promemoria del 2 aprile 2011, indirizzato a Hillary Clinton, riferì che Gheddafi aveva accumulato 143 tonnellate d’oro per sostenere il dinaro aureo. A fronte di questo, alcuni analisti sostengono che l’intervento della Nato si potrebbe configurare come una guerra preventiva contro un’alternativa monetaria panafricana.
Il Risiko delle grandi potenze
Alla vigilia della caduta di Gheddafi, la Libia fu al centro del confronto tra le potenze occidentali, tutte interessate a influenzarne il futuro per motivi energetici, migratori e strategici. L’Italia, legata storicamente al Paese del Maghreb, fu tra i protagonisti: il Trattato di amicizia del 2008, firmato a Bengasi, aveva rappresentato una svolta15. Roma riconobbe i crimini coloniali e promise 5 miliardi di dollari in investimenti. In cambio, Tripoli garantì una stretta collaborazione nel blocco dei flussi migratori, nella sicurezza dei confini e nell’accesso privilegiato al petrolio, rafforzando il ruolo dell’ENI come primo operatore. Intanto, Gheddafi, attraverso il fondo d’investimento Lia, acquisiva progressivamente quote azionarie di aziende italiane come Unicredit, Fiat, Finmeccanica e Juventus Football Club.

La nuova intesa italo-libica allarmò la Francia, che percepì l’Eni come un concorrente diretto e sempre più incisivo nei confronti di Total, la compagnia petrolifera di bandiera francese. L’espansione dell’Eni in Libia minò gli equilibri energetici nel Mediterraneo e ridimensionò l’influenza economica di Parigi. A preoccupare ulteriormente l’Eliseo fu il progetto di Gheddafi per una moneta unica africana, alternativa al franco Cfa, cardine del controllo monetario francese su 14 Paesi dell’Africa subsahariana.
Anche il Regno Unito cercò spazi: nel 2007 la British Petroleum firmò un accordo miliardario per lo sfruttamento di giacimenti offshore e desertici. Tuttavia, l’Eni rimase dominante. Durante la storica visita a Tripoli del 25 marzo 2004, Blair affermò che lui e Gheddafi avevano «una causa comune nella guerra contro il terrore». In quella occasione, il primo ministro britannico dichiarò che Gheddafi, un tempo definito «il cane pazzo del Medio Oriente», sarebbe potuto diventare un partner dell’Occidente nella lotta contro il terrorismo e l’estremismo islamico.
Più ambigua la posizione degli Stati Uniti. Dopo il misterioso disastro aereo di Ustica, avvenuto il 27 giugno 1980 e attribuito – secondo la tesi istruttoria del giudice Rosario Priore 16– a un possibile attacco legato alla presenza di Gheddafi nei cieli italiani a bordo di un jet privato in volo da Varsavia a Tripoli, i rapporti tra Libia e Stati Uniti si erano incrinati progressivamente. L’attentato alla discoteca La Belle di Berlino Ovest (1986), che aveva causato la morte di due militari statunitensi e il ferimento di 230 persone, aveva innescato la rappresaglia americana. L’operazione El Dorado Canyon aveva scatenato i bombardamenti su Tripoli e Bengasi, in cui morì anche Hana, la figlia adottiva di Gheddafi che aveva 15 mesi.
Due anni dopo, il volo Pan Am 103 – in rotta da Londra a New York – era esploso nei cieli sopra Lockerbie. Vi erano morte 270 persone. L’attentato era stato attribuito al regime libico. In questo clima di sospetto e isolamento, Gheddafi era divenuto il simbolo dell’antagonismo antioccidentale nel Mediterraneo.
Dopo l’11 settembre, nel 2003 Washington riaprì i rapporti: in cambio della rinuncia di Gheddafi alle armi di distruzione di massa, le sanzioni furono revocate. La Libia divenne partner nella sicurezza globale: consegnò liste di jihadisti ai servizi d’intelligence occidentali e collaborò con la Cia nelle operazioni di rendition. Per un periodo, Gheddafi fu persino considerato da George W. Bush un alleato nella lotta al terrorismo.
La controversa fine del rais
La deposizione di Muʿammar Gheddafi, il 20 ottobre 2011, fu la detonazione di un equilibrio precario. Il rais aveva innalzato il proprio potere su due pilastri: sorveglianza capillare e culto della rivoluzione permanente. Per evitare golpe, aveva smantellato l’esercito e l’aveva sostituito con milizie tribali e battaglioni personali. Alla fragilità militare si era aggiunta una debolezza istituzionale: l’economia rentier, priva di borghesia autonoma, impediva lo sviluppo di una società civile in grado di reggere il vuoto politico.

Le tribù della Cirenaica, escluse dalla distribuzione delle risorse, alimentarono la rivolta. L’intervento Nato, promosso da Francia, Regno Unito e Stati Uniti, fu autorizzato in base alla Risoluzione 1973 Onu con l’obiettivo di proteggere i civili17. Le operazioni si trasformarono rapidamente in una campagna per il rovesciamento del regime. Russia e Cina, pur astenendosi, denunciarono l’abuso del principio della «responsabilità di proteggere».
Nel 2008 l’Italia aveva sottoscritto con la Libia un trattato di amicizia, eppure nel 2011 autorizzò l’uso delle basi Nato contro Gheddafi, che interpretò l’atto come un tradimento. Nello stesso anno, il governo Berlusconi fu travolto dalla crisi del debito: spread oltre 570, rating declassati, dimissioni il 12 novembre. Un mese dopo la morte del rais, guarda caso.
Muʿammar Gheddafi non fu un autocrate convenzionale. Emarginato dal mondo arabo, cercò di rifondare la propria legittimità su scala panafricana, proponendo un’unione politica dotata di esercito federale, moneta unica e passaporto comune18. Un progetto ambizioso che suscitò forte allarme tra le ex potenze coloniali, preoccupate per la perdita d’influenza strategica sul continente. Dopo la revoca delle sanzioni internazionali, la Libia tornò protagonista di iniziative tese a ridefinire gli assetti regionali.
La sua figura, ambigua e provocatoria, lo rese un attore difficilmente controllabile. Come dichiarato da Curt Weldon, gli USA «volevano ucciderlo». Un’ipotesi che trova sostegno nei documenti riservati pubblicati da Wikileaks: la Libyan Investment Authority, con i suoi investimenti in grandi gruppi europei e partecipazioni in settori strategici – dall’energia alla difesa – costituiva un perno troppo sensibile per essere lasciato nelle mani di un attore imprevedibile come Gheddafi.
La sua rimozione ha generato un vuoto sistemico che, più di un decennio dopo, continua a produrre instabilità e frammentazione. E gli Stati Uniti hanno delle responsabilità. Come ha denunciato l’ex deputato Usa Weldon, «laggiù Hillary Clinton ha giocato una partita».
- Thakur, Ramesh. Libya and the Responsibility to Protect: Between Opportunistic Humanitarianism and Value-Free Pragmatism. Security Challenges, vol. 7, no. 4, 2011, pp. 13–25. JSTOR, http://www.jstor.org/stable/26467113. ↩︎
- Bellodi, Leonardo. L’ombra di Gheddafi. Rizzoli, 2021, p.40. ePub ↩︎
- Al-Qadhafi, Muammar, and Diederik J. Vandewalle. The green book. Garnet Publishing Limited, 2022. https://urru.org/papers/El_Libro_Verde_de_Kadaffy.pdf . ↩︎
- Del Boca, Angelo. Gheddafi: una sfida dal deserto. Gius. Laterza & Figli Spa, 2014, p.142. ePub. ↩︎
- Kuwairi, Adam. Water mining: the great man-made river, Libya. Proceedings of the Institution of Civil Engineers-Civil Engineering. Vol. 159. No. 5. Thomas Telford Ltd, 2006. ↩︎
- Del Boca, Angelo. Gheddafi: una sfida dal deserto. Gius. Laterza & Figli Spa, 2014, p.75. ePub ↩︎
- Bellodi, Leonardo. L’ombra di Gheddafi. Rizzoli, 2021, p.137. ePub. ↩︎
- Del Boca, Angelo. Gheddafi: una sfida dal deserto. Gius. Laterza & Figli Spa, 2014, p.83. ePub. ↩︎
- Gheddafi, Muʿammar. Libro Bianco. Tradotto e pubblicato da M★48. Libia: Pionieri, 2003, p.26. ↩︎
- Vandewalle, Dirk. A history of modern Libya. Cambridge University Press, 2012, p.198. ↩︎
- African Union. Protocol on the African Monetary Fund. Yaoundé, Cameroon. ↩︎
- African Union Commission and Association of African Central Banks. The Joint Strategy for the Establishment of the African Central Bank (ACB). Abuja, Nigeria, 22 giugno 2013. ↩︎
- African Union. Statute of the African Investment Bank. Tripoli, Libyan Arab Jamahiriya. ↩︎
- al-Gaddafi, Muammar. The Green Book. CreateSpace Independent Publishing Platform, 2016, p.58. ↩︎
- Istituto Affari Internazionali (IAI). Politica internazionale. N. 108, aprile 2024.
https://www.iai.it/sites/default/files/pi_a_c_108.pdf. ↩︎ - Fasanella, Giovanni, Priore Rosario. Intrigo internazionale: Perché la guerra in Italia. Le verità che non si sono mai potute dire. Chiarelettere, 2010, p.149.ePub ↩︎
- Res, S. C. UN Doc. S/RES/1973 (Mar. 17, 2011), 1973. Ultimo accesso 5 maggio 2025.
https://undocs.org/S/RES/1973(2011) ↩︎ - Vandewalle, Dirk. A history of modern Libya. Cambridge University Press, 2012, p.198. ↩︎
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