Benessere su prescrizione

Dal blog https://www.iltascabile.com

Anna Paola Lacatena / Edvard Munch, Malinconia, 1893, particolare, Munchmuseet, Oslo. 3.6.2025

Negli ultimi anni l’uso di psicofarmaci è aumentato notevolmente, in particolare tra le donne e i giovani, questo anche per una strategia che punta a separare il benessere dalla salute.

L’ Organizzazione mondiale della sanità definisce il concetto di salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non semplicemente assenza di malattia o infermità”. Una definizione che inizia a risultare problematica, in un mondo in cui i concetti di benessere e salute sono sempre meno sovrapponibili. Se nell’immaginario collettivo, infatti, per “salute” si indica l’assenza di una malattia con terminologia e nosografia specifici, il termine “benessere” si configura invece come una condizione dai contorni meno definibili, che apre alla prospettiva di un miglioramento illimitato e suggerisce l’idea, come ha scritto Marcia Angell nel saggio The truth about the drug companies (2005), che esistano “due soli tipi di persone: quelle che soffrono di patologie che richiedono una cura farmacologica e quelle che ancora non sono consapevoli di soffrirne”.

Tutto ciò sta comportando un allargamento del ventaglio dei possibili fastidi da riclassificare come malattie e, dunque, anche dei corrispettivi rimedi. A cornice di una società sempre più medicalizzata, che mette a disposizione di un crescente numero di persone farmaci per ogni esigenza, più che una promessa di cura, questi rimedi finiscono per tradursi nel disincanto di un miglioramento a tempo per malesseri sempre nuovi e che richiedono nuove cure. Come scrivono Aldo Bonomi ed Eugenio Borgna in Elogio della depressione (2015), “è difficile non sentirsi cronicamente in stato di malattia a bassa intensità e spinti alla continua ricerca di dispositivi per la riduzione dell’incertezza dal rischio di inadeguatezza del proprio stato di salute”.

Il rischio più immediato, come vedremo, è quello di cadere in un eccesso di prescrizione, con alcune fasce di popolazione più esposte di altre. Non è un caso che l’aumento di prescrizioni di medicinali negli ultimi anni riguardi soprattutto patologie psicosociali, spesso cadenzate da tappe fisiologiche dell’esistenza umana. Si tratta del cosiddetto disease mongering (traducibile in italiano come “mercificazione della malattia”), ossia la tendenza a trattare ciò che non è nosograficamente riconosciuto come patologico (calvizie, menopausa, adolescenza, gravidanza ecc.) come se in realtà lo fosse.

L’aumento di prescrizioni di medicinali negli ultimi anni riguarda soprattutto patologie psicosociali, con una chiara tendenza a trattare ciò che non è  riconosciuto come patologico come se in realtà lo fosse

Da una recente indagine dell’Eurispes è emerso che nell’ultimo anno quasi il 20% degli italiani ha assunto ansiolitici o antidepressivi.

Se è vero che l’uso di questi psicofarmaci è più diffuso tra le donne (21,2%) rispetto agli uomini (16,7%) e tende ad aumentare con l’età e il disagio sociale, specialmente tra le persone di oltre 65 anni, è altrettanto vero che dopo l’epidemia da Covid-19 il consumo da parte dei giovani ha registrato incrementi significativi, in concomitanza con un aumento delle diagnosi di disturbi come ansia, depressione, ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) e disturbi del comportamento alimentare. L’ultima Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia ha evidenziato che circa 440.000 studenti (il 18% del campione) hanno segnalato l’utilizzo, nel corso della loro vita, di almeno una tipologia di psicofarmaci senza prescrizione medica (SPM). Un dato rilevante è che tra le ragazze l’incidenza è doppia, e se si osservano i consumi di benzodiazepine e anoressizzanti, le quote femminili diventano addirittura triple rispetto a quelle dei coetanei maschi. È il bollettino di quella che ogni anno di più assume i connotati di un’emergenza sociale: la forbice tra salute e benessere non è mai stata così ampia, soprattutto in alcune fasce di popolazione.

Psicofarmaci per il male di vivere
Si definiscono “psicofarmaci” quei medicinali che agiscono sulla regolazione dei neurotrasmettitori del sistema nervoso centrale, ovvero sulla modulazione dei segnali chimici con cui i neuroni comunicano tra di loro, inducendo cambiamenti a livello di umore, pensiero e comportamento. Le benzodiazepine, gli antidepressivi e gli antipsicotici risultano tra i più prescritti, questo nonostante dal 2008 a oggi la prevalenza di sintomi depressivi in Italia si sia in realtà ridotta. Un discorso diverso vale però per le donne e i giovani di età compresa fra i 18 e i 34 anni, in questo caso il trend negli ultimi anni è addirittura in aumento.

In Italia 1 giovane su 5 conferma di aver fatto uso di psicofarmaci. Tra le femmine l’incidenza è doppia, e se si osservano i consumi di benzodiazepine e anoressizzanti, diventa addirittura tripla.

Questi dati sembrano suggerire la diffusione di un malessere profondo che colpisce la società tutta, ma in particolar modo le fasce di popolazione dalla personalità ancora poco strutturata come adolescenti e giovanissimi. Questa condizione spesso trae la sua origine da vissuti complessi, che vanno dalle problematiche relazionali, a quelle economiche, occupazionali e abitative. Parliamo di una sofferenza che non può essere assegnata frettolosamente all’area della depressione psicotica, ma che andrebbe piuttosto ricondotta ad altre forme depressive quali quelle esistenziali, motivate o reattive risultanti da situazioni traumatiche. La depressione esistenziale, non essendo causata da inneschi fisici o da traumi psichici pregressi, può essere considerata più vicina alla tristezza o al “male di vivere” che a una patologia nella sua accezione più comune. La depressione motivata o reattiva è invece un disturbo dell’umore, che mostra un ampio spettro di effetti, da un’amarezza sconsolata alla vera e propria disperazione, solitamente legata a un evento traumatico o stressante, e può dunque essere vista anche come un naturale tentativo della mente di adattarsi ed elaborare quanto vissuto (ad esempio la perdita di una persona cara, o la rottura di una relazione amorosa).

“Sono, queste ultime, le depressioni che oggi dilagano sulla scia di molteplici cause psicologiche e sociali, e che si costituiscono come forme di sofferenza psichica che fanno parte della normalità, e, quando ne escono, non se ne allontanano nella loro fenomenologia”, scrivono Bonomi e Borgna: “La depressione-malattia è qualitativamente diversa dalle depressioni esistenziali e motivate, e nondimeno in queste e in quella riemergono comuni sorgenti di sensibilità e di fragilità, di dignità umana e di gentilezza, che è necessario riconoscere e rispettare nei loro bagliori, e che meno facilmente si osservano nella nostra vita quotidiana: nella vita normale”. Il fatto che le depressioni reattive ed esistenziali vengano sempre più spesso trattate come depressioni patologiche non è imputabile unicamente a errori di valutazione professionali o a un trend sociale figlio dei tempi, c’è anche in gioco una strategia commerciale a lungo termine.

Si potrebbe sempre stare meglio
Il sociologo polacco Zygmunt Bauman nel suo libro Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido (2012; ed. or. 2010) ricorda quanto dichiarato dal direttore di produzione Barry Brand a proposito della paroxetina: “il sogno di ogni operatore di marketing è quello di trovare un mercato non ancora identificato o conosciuto, e di svilupparlo. Con il disturbo da ansia sociale siamo riusciti a fare esattamente questo”. La società odierna sta osservando una crescente precarizzazione della vita privata e pubblica, in particolare delle fasce di popolazione più vulnerabili come anziani, donne e giovani: affrontare questa condizione richiederebbe un’attenzione e una formazione socio-psico-culturale più articolata e strategie di intervento più complesse della semplice prescrizione di un farmaco.

Il fatto che le depressioni reattive ed esistenziali vengano sempre più spesso trattate come depressioni patologiche non è imputabile unicamente a errori di valutazione professionali, c’è anche in gioco una strategia commerciale.

Il punto è che le forme di cura non farmacologiche, quali la psicoterapia o la mindfulness, spesso risultano molto più dispendiose di una confezione di pillole. Come dimostrano i dati, però, è altrettanto vero che questa spesa si riduce solo nel breve periodo. Secondo il Rapporto 2023 dell’Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali (OsMed), in Italia i farmaci del sistema nervoso centrale, infatti, si posizionano al quarto posto in termini di consumi (97,8 dosi giornaliere per 1.000 abitanti) e al sesto in termini di spesa farmaceutica pubblica complessiva (2.061 milioni di euro). I dati rivelano inoltre che in Italia ogni anno vengano venduti 49 milioni di confezioni di farmaci per la cura della depressione e della stabilizzazione dell’umore, con un costo complessivo di 525 milioni di euro. Ancora una volta, sono soprattutto le fasce più giovani quelle dove si registrano aumenti delle vendite, pari a circa il 10% in un anno.

Tra i consumatori che versano in condizioni di discreta salute ma sono comunque sospinti verso un’amplificazione del benessere, infatti, gli psicofarmaci che fanno registrare fenomeni di abuso più significativi sono le benzodiazepine. Ma c’è una tipologia di consumatori che risulta particolarmente esposta, a prescindere dall’età, ed è quella femminile. Basti pensare che in Italia, stando agli ultimi dati OsMed, il 67% delle donne ha ricevuto almeno una prescrizione contro il 58% degli uomini.

Il target femminile
La storia della pubblicità ci mostra che è almeno dagli anni Quaranta che le donne sono considerate target market e testimonial d’elezione per medicinali soggetti a prescrizione e psicofarmaci.

I dati mostrano che alle donne vengono diagnosticati più spesso disturbi e prescritti più facilmente farmaci, il che è indice lampante di una eccessiva medicalizzazione della salute mentale femminile.

Nella società degli anni Settanta il concetto di ansia cominciò ad attecchire ben oltre il contesto della medicina, e le persone si ritrovarono a fronteggiare pressioni familiari, sociali e lavorative sempre più ansiogene.

In loro soccorso accorse un nuovo prodotto noto con il nome di Valium (il principio attivo è il diazepam, una benzodiazepina).

Nel 1987 venne introdotto un farmaco di maggior appeal, il Prozac (fluoxetina), ribattezzato “pillola della felicità” e prescritto ben al di fuori del contesto psicoterapeutico.

Subito dopo, arrivarono sul mercato gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI, Selective Serotonin Reuptake Inhibitors), con una comunicazione che si fece sempre più trasversale. In Italia rimaneva il divieto di pubblicità, ma di Prozac ne scrissero i principali quotidiani, forse sottovalutando l’effetto che una simile esposizione avrebbe avuto sui consumi.

I dati odierni ci dicono che alle donne, in Italia come altrove, vengono diagnosticati più spesso disturbi e prescritti più facilmente farmaci, e diversi studi dimostrano che questo scarto è un chiaro indice di una eccessiva medicalizzazione della salute mentale femminile. Rimane però il fatto che ancora si investe poco in strategie gender oriented, e rimane scarsa l’offerta di cura in alternativa allo psicofarmaco per contrastare disagi strettamente legati alla specifica fisiologia ed emotività femminile. Il benessere può essere mercificato molto più facilmente della salute, non stupisce dunque che questa venga messa in secondo piano; nelle donne, come nei giovani.

I giovani sono bersagli facili
Abbiamo visto come in Italia il mercato dei farmaci per la cura della depressione e per la stabilizzazione dell’umore sia in crescita soprattutto nelle fasce più giovani (25-34 anni). Non è un caso, probabilmente, che si tratti anche della fascia demografica che trascorre più tempo on-line. Nel processo di trasformazione del concetto di salute in un benessere perfezionabile all’infinito, l’accesso alla rete ha un ruolo sempre più determinante e, per contro, sempre meno riconoscibile. Secondo alcuni studi, la gestione di un sito, la sponsorizzazione, il finanziamento di attività, i forum di discussione, l’impatto del messaggio di un influencer sono solo alcune modalità utilizzate a sostegno della medicalizzazione e dell’e-pharmacy, che in alcuni casi comporta anche pericolose forme di normalizzazione (è il caso di anoressia e bulimia).

Per Bauman, questo processo di medicalizzazione non aiuta realisticamente a contenere ansia, irrequietezza e depressione. Cerchiamo di compensare la paura dell’insignificanza sociale, della fragilità delle relazioni, di non farcela di fronte alle prove della vita, di essere considerati vite di scarto, con la quantità delle connessioni che la rete ci consente di tracciare. Paradossalmente, per il sociologo polacco, condividiamo una condizione di vulnerabilità reciprocamente assicurata.

Nel processo di trasformazione del concetto di salute in un benessere perfezionabile all’infinito, l’accesso alla rete ha un ruolo sempre più determinante.

Se può essere utile che un personaggio con un numero di follower significativo sposti l’attenzione su problematiche poco discusse, questo diventa pericoloso quando nel fare ciò si arriva anche a formulare classifiche, attribuendo voti a farmaci e psicofarmaci e dispensando consigli di assunzione. Una tendenza che, peraltro, sembra emergere anche nei testi di musica rap e trap, dove ansiolitici, antidepressivi, antipsicotici vengono frequentemente richiamati, osannati, promossi anche per calmare, rilassare, offrire un’alternativa all’agonia e alla tristezza esistenziale.

Se una volta le “pasticche” raccontate nella musica servivano alla ricerca dell’illuminazione, o dell’amplificazione degli stati di coscienza, oggi sembra che l’obiettivo sia la regolazione istantanea delle emozioni spiacevoli, l’attenuazione, il restringimento sino alla completa sottrazione del sentire profondo, della possibilità stessa di avvicinarsi ai propri nuclei dolorosi come a quelli altrui.

Non c’è il tempo per l’ascolto del dolore.

Che sia fisico o esistenziale, va estirpato e alla svelta.

Poco importa quale sia realmente la sua origine e quanto continuerà ad agire nella vita della persona non essendo mai stato realmente visto, interpretato, razionalizzato, rielaborato.

Ci penserà un farmaco a farlo tacere.

Sul medio e lungo termine, però, lo scarto tra benessere e salute non potrà che manifestarsi, con conseguenze potenzialmente drammatiche.

Come suggerisce Elsa Morante in La Storia: “i conforti chimici si comportano come certe lampadine elettriche in uso negli alberghi: le quali sono regolate per durare accese giusto il tempo di salire la scala dal pianterreno al piano di sopra. Ma succede a volte che si spengono a metà scala, e uno si trova là come un balordo, che annaspa allo scuro”.

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