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di Matteo Gibellini 8 Giugno 2025
Le grandi potenze sono in corsa per accaparrarsi le terre rare, approfittando dell’instabilità geopolitica, dall’Ucraina alla Repubblica Democratica del Congo. Sono tutte alla sfrenata ricerca dell’oro del Terzo millennio, nessuno escluso. Proprio come Charlot, protagonista del film La febbre dell’oro, del 1925, un capolavoro che di questi tempi vale la pena di rivedere.
A 100 anni dalla sua uscita, il film è stato proiettato in versione restaurata al 78° Festival di Cannes, aprendo la sezione Classici. Interpretato magistralmente da Charlie Chaplin, un cercatore d’oro che si avventura nelle terre del Klondike, regione remota tra Canada e Alaska, è una critica al capitalismo dell’America degli Anni ruggenti, alla vigilia della Grande depressione del 1929.
Eppure La febbre dell’oro parla anche al nostro tempo. Perché, oggi come allora, in un mondo dove si combatte a colpi di dazi e si stringono accordi su minerali strategici, è sempre il più debole a pagare il prezzo più alto: l’uomo comune.
Charlot ne rappresenta l’archetipo. Solo, affamato, costretto ad affrontare una bufera di neve nel profondo Nord, si ritrova in una baracca con due energumeni: un delinquente evaso dalla prigione e un altro cercatore d’oro.
Fra disumanizzazione e sopraffazione, Chaplin riesce a raccontare il dramma dei diseredati con comicità, ma senza deriderli. Fra scarponi bolliti e panini danzanti, Charlot non perde mai la dignità. È questa la cifra del cinema di Charlie Chaplin: fare ironia senza scadere nel cinismo, denunciare senza mettersi in cattedra.
Nel finale, il potere dell’amore e della compassione prevale. La collaborazione tra i due cercatori d’oro, fatta di intenti e sguardi, chiusi dentro un capanno sull’orlo del precipizio, li salva dalla catastrofe. È un messaggio semplice ma potente: anche nei tempi più bui, esiste una via d’uscita. E, sebbene i finali felici non siano abituali nei film di Chaplin, qui sembra auspicare che le parti in conflitto possano tornare a danzare insieme, resistendo alla violenza di un mondo sull’orlo del baratro.
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Autore
Matteo Gibellini Nato a Bergamo l’8 aprile 1995, ha una laurea triennale conseguita in Scienze politiche ed economiche presso l’Università degli studi di Milano e una laurea magistrale in giornalismo presso l’Università di Parma con una tesi di ricerca sulla canzone politica e cronachistica, con focus sulla resistenza di alcuni artisti perseguitati nelle varie dittature del mondo. Ha collaborato con alcune testate web come redattore e reporter freelance, occupandosi principalmente di tematiche culturali, sociali e ambientali. Lavora come operatore didattico e ha collaborato in alcune produzioni documentaristiche/cinematografiche.