La legge del più forte 

Dal blog https://jacobinitalia.it/

Salvatore Cannavò 20 Giugno 2025

A differenza dell’invasione russa dell’Ucraina, che è stata considerata illegittima, le operazioni militari di Israele si pongono l’obiettivo esplicito di scardinare il diritto internazionale all’insegna del «Make the West Great Again»

Nell’ultimo numero di Jacobin Italia Alessandro Vanoli spiega come un filo conduttore di quello che chiamiamo Occidente sia la sua storia di dominio. Questa lettura è oggi interpretata sul campo in forma esemplare dallo Stato di Israele. Che non si limita solo a esercitare un dominio che appare per lo più incontrollato, ma che ha deciso di divellere, molto più di quanto abbia fatto la Russia in Ucraina, ogni regola del diritto internazionale riaffermando in modo brutale la legge del più forte.

Suona ironico, infatti, sentire Benjamin Netanyahu che minaccia l’Iran – «pagherete un prezzo alto» – dopo il bombardamento iraniano dell’ospedale di Soroka. Proprio Israele, dei 36 ospedali operativi a Gaza prima della guerra, ne ha lasciati parzialmente funzionanti solo 17, e parliamo di dati forniti da Medicine sans frontiere alla fine dello scorso anno. Ma resta l’arroganza di chi, evidentemente, si ritiene legibus solutus, irresponsabile di fronte a qualsiasi corte, tribunale o semplicemente di fronte alla dignità del diritto internazionale. Per cui, dopo aver attaccato per primo l’Iran, Israele si ritiene lo Stato aggredito depositario di qualsiasi reazione. Anche di uccidere impunemente i vertici dello Stato persiano, financo il suo leader supremo, l’Ayatollah Khamenei. La scomparsa del regime degli ayatollah sarebbe certamente un’acquisizione per il popolo iraniano e per l’umanità in generale, ma qui siamo di fronte alla sovversione di una norma chiave del diritto internazionale sancita dalla Carta delle Nazioni unite che stabilisce la «soluzione pacifica» delle controversie internazionali e quando autorizza la legittima difesa lo fa «nel caso in cui abbia luogo un attacco armato» e l’Onu non abbia ancora messo a punto la sua reazione (art. 51). 

Sappiamo bene che l’Onu è diventato da tempo – almeno dalla guerra in Afghanistan e poi in Iraq – un soggetto privo di credibilità e forza, ma qui si vuole sovvertire il principio centrale che regola i rapporti tra gli Stati, quel principio scolpito nella Costituzione italiana secondo cui la guerra non è il mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. E invece la guerra è diventata quel mezzo principale, e la si vuole imporre come strada obbligata e al tempo stesso legittima. 

Questo fa la differenza tra Israele e la Russia. Nel caso dell’invasione dell’Ucraina, infatti, nessuno ha sostenuto la legittimità dell’attacco ordinato da Vladimir Putin, la Russia è stata indicata come l’attore che ha leso il diritto internazionale e per questo sanzionata e messa all’indice. Israele invece può violare qualsiasi regola, a Gaza, ma prima in Libano e oggi in Iran, in nome di una presupposta minaccia alla sua esistenza. I fatti di questi giorni dimostrano che nell’area mediorientale nessuno è in grado di minacciare l’esistenza di Israele, nemmeno l’attacco del 7 ottobre, inquadrabile, ad anni di distanza, come una delle tanti azioni militari possibili – in quel caso macchiate da crimini di guerra – ma certamente non suscettibile di provocare l’annientamento dello Stato israeliano che oggi è più forte che mai.

Israele ha sempre sostenuto che la propria azione militare è finalizzata alla propria legittima difesa, ma contestualmente ha anche affermato che la guerra a Gaza è una «guerra di civiltà» combattuta anche per difendere i valori occidentali. Il contrario di una guerra di difesa. 

L’insistenza di rappresentare valori condivisi in Occidente ha sempre tradito il colonialismo israeliano – ben tutelato dal progetto sionista, del resto – in guerra contro la «giungla» rappresentata dal mondo arabo in difesa della «villa» ebraica, unico avamposto di luce e di civiltà in una zona popolata da selvaggi. Oggi questo approccio viene disvelato senza più alcuna remora e l’attacco all’Iran manifesta la volontà di sradicare ipocrisie, di liberarsi da freni e vincoli, di agire senza alcuna ritrosia per affermare una politica di dominio coloniale e di egemonia territoriale. L’ipotesi sullo sfondo è che i rapporti dell’area vengano ridefiniti totalmente, sotto una precisa egemonia occidentale che comprende anche i regimi arabi quali l’Arabia Saudita, l’Egitto, il Qatar, gli Emirati arabi fino a comprendere paesi riottosi e infedeli come il Libano e la Siria, in via di normalizzazione. Unica anomalia l’Iran, che viene condotto a buoni consigli a suon di bombe, sempre che l’operazione riesca. Che tutto questo possa essere spacciato per una guerra giusta, legittima, una doverosa azione da parte di un paese minacciato, fa parte dei capolavori della propaganda occidentale e dei suoi principali organi di comunicazione mai come oggi coperti di vergogna. 

Questa operazione è una prova di forza occidentale, ma allo stesso tempo ne rappresenta anche la spia di una crisi di fondo, una crisi di egemonia, di prospettiva e di tenuta del fronte. «Make the West Great Again» proponeva Giorgia Meloni a Donald Trump durante il loro incontro alla Casa Bianca di qualche mese fa. Quel «West» è invece quanto mai diviso o confuso come dimostra il fallimento, l’ennesimo, del G7 in Canada dove i capi di Stato e di governo più forti del pianeta – ma la Cina? – hanno dovuto subire lo smacco del presidente statunitense che ha abbandonato i lavori per decidere in casa propria se e come entrare direttamente nella guerra contro l’Iran. Decisione che la Germania del popolare Friedrich Merz saluterebbe con favore, che Emmanuel Macron teme fortemente così come la teme Giorgia Meloni e il suo entourage anche se, a differenza del presidente francese, non lo può dire apertamente. 

Anche le oscillazioni di Trump segnalano uno stato di confusione e di debolezza che la forza militare può certamente nascondere, ma che invece resta visibile sotto pelle. Confusione che si riflette non tanto sulle scelte del gruppo di comando che oggi governa dalla Casa Bianca, ma nella divisione politica che riguarda il fronte trumpiano in cui le promesse non interventiste e isolazioniste fatte dal presidente avevano galvanizzato la base del suo movimento, il Make America Great Again (Maga), oggi diviso in due parti. Divisione che si è riflessa anche nelle stanze dei bottoni dove la responsabile dell’intelligence, Tulsi Gabbard, già deputata del Partito democratico e riferimento di alcuni movimenti anti-sistema, ha negato la possibilità di una minaccia atomica da parte iraniana scontrandosi con lo stesso Trump. Divisioni che qualche mese fa non sarebbero state immaginabili come non lo sarebbe stata la profonda spaccatura che ha visto contrapposti ancora Trump e il suo pupillo imprenditoriale, Elon Musk, finiti ai ferri corti. Si possono derubricare queste dinamiche conflittuali a scontri personalistici, ma è più probabile che rivelino differenze ideologiche e progettuali, il cui risvolto è visibile in queste giornate di grande confusione.

L’Occidente, come racconta esaurientemente il numero 27 di Jacobin Italia, è in crisi di prospettive economiche, geopolitiche, culturali. E, come è spesso avvenuto nella storia, si affida alla guerra, alla potenza militare, per sopperire alle proprie difficoltà. In questo senso l’Unione europea cerca di avere una voce nel panorama internazionale investendo sul riarmo europeo con un piano che sostanzialmente accetta la soluzione sempre avversata negli ultimi trent’anni di vita dell’Ue dopo Maastricht, per intenderci): quella del ricorso al debito. L’ipocrisia europea che ha affermato la più ottusa austerity durante gli anni della grande crisi finanziaria, quelli in cui la Grecia è stata letteralmente affamata, e che oggi accetta di finanziare con un debito di circa 800 miliardi un nuovo piano di riarmo europeo, è ciò che giustamente induce una figura come Luciana Castellina a «vergognarsi» di essere occidentale. 

Va detto che questa mossa disperata rappresenta anche l’unica strada che l’Ue ha saputo trovare, ispirata in questo dal piano Draghi, per dare uno slancio nuovo alla propria economia sommersa da una stagnazione che dura ormai da diversi anni. Eppure, solo qualche anno fa, l’emergenza Covid aveva sospinto diversi governi a mettere in agenda, proficuamente, il tema dell’emergenza climatica come vettore di crescita e di trasformazione interna alimentato da un debito comune che con il NextGenerationEu (Ngeu) per la prima volta vedeva la luce in Europa. Oggi il Ngeu è quasi esaurito, il Parlamento europeo ha votato per la sua proroga, che però contiene la norma che consente di trasformare progetti non completati in progetti militari. Un’involuzione sociale, culturale e anche economica perché non sarà certamente la via militare a ridare smalto economico ai paesi europei.

La guerra, quindi, in questo tornante storico, torna a essere la strada scelta da un capitalismo privo di prospettive luminose per affrontare il futuro. Israele fa da apripista per un’ipotesi che affascina tutte e due le sponde dell’Atlantico, il vero mare «occidentale» che vede come una minaccia la crescita tumultuosa dei due mar cinesi o della rotta nordica che, causa scioglimento dei ghiacciai, potrebbe vedere fiorire il traffico mercantile nelle acque del nord polare. 

La guerra come prospettiva di civilizzazione si porta dietro ovviamente un di più di razzismo e di repressione. E l’avanzata delle destre in tutto l’Occidente, così come progetti di controllo sociale – dal Dl Sicurezza ai controlli spionistici di Paragon – confermano questa prospettiva. Il quadro è di grande preoccupazione ed esigerebbe una capacità unitaria, su proposte radicali, delle varie forme di opposizione, politica, sociale, culturale, che a oggi non si intravede ancora. Per questo è benvenuta la manifestazione del 21 giugno che, unendo centinaia di sigle e di varie forme di resistenza sociale, ha saputo mettere proprio il No al riarmo europeo al centro dell’iniziativa. Oggi quella manifestazione si nutre anche del no alla guerra contro l’Iran, contro Gaza, alla guerra russa contro l’Ucraina e ai progetti espansionistici della Nato (le due guerre sul fronte orientale di cui abbiamo già parlato su Jacobin), sapendo che questa opposizione alla guerra riassume anche un contesto generale in cui spiccano ancora la crisi economica e sociale, la xenofobia, una gestione patriarcale della società, la crisi ecologica. 

La guerra, come sempre è accaduto nella storia, riassume le varie crisi e le squaderna nella forma più odiosa e distruttiva. Dire no alla guerra e al riarmo oggi significa dire sì a un’altra ipotesi di società. Da costruire e immaginare, ma oltremodo necessaria.

*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.