I segreti del nucleare israeliano: dai legami con il Sudafrica alla sfida con l’Iran

Dal blog krisisinfo@substack.com

Krisis.info
lug 7 di Giacomo Gabellini

Graffito ispirato a «Guernica» di Picasso, in segno di protesta contro il massacro commesso da Hamas il 7 ottobre 2023. I caratteri ebraici recitano: «Se tolleri questo». Kiryat Hamelacha, Tel Aviv. Artisti: The Missk e אש826. Foto di Nizzan Cohen. Licenza CC BY 4.0.

Il regime dell’apartheid, gli Stati Uniti post-Kennedy e il rapimento dello scienziato Mordechai Vanunu segnano la seconda puntata del viaggio di Krisis nella storia dell’unica potenza nucleare non dichiarata del Medio Oriente. Un giallo internazionale, in cui compare persino Otto Skorzeny, il liberatore di Benito Mussolini sul Gran Sasso. Israele non ha mai confermato ufficialmente il possesso di armi atomiche, ma il suo arsenale condiziona da decenni gli equilibri regionali e globali. Un intreccio di cooperazioni opache, deterrenza silenziosa e manovre che sfuggono ai controlli internazionali.

SECONDA PUNTATA

Ascolta l’articolo, letto da Giulio Bellotto:

Negli Stati Uniti, l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy consacrò l’ascesa del suo vice Lyndon Johnson, senatore texano da sempre molto sensibile alla causa israeliana. E infatti fu il primo presidente statunitense a inaugurare una sinagoga.

Negli anni Trenta, quand’era congressista, Lyndon Johnson era favorevole all’accoglienza in Texas di un cospicuo numero di ebrei in fuga dal vecchio continente, aggirando la normativa che proibiva di accordare il permesso di soggiorno ai profughi europei negli Stati Uniti. È un dato di fatto che sotto l’amministrazione Johnson, gli Stati Uniti aumentarono l’assistenza militare a Israele, fornendo a Israele 200 carri armati M-48. Secondo alcune fonti, Washington avrebbe anche fornito i vettori in grado di trasportare le testate atomiche che venivano fabbricate a Dimona, come i caccia Skyhawk e Phantom.

Seymour Hersh, il celebre giornalista investigativo statunitense, ha rilevato a questo proposito che «i forti legami emotivi tra Johnson e Israele, e la sua convinzione che le armi sovietiche stessero alterando l’equilibrio di potere nel Medio Oriente, lo indussero a diventare il primo presidente americano ad avere rifornito Israele di armi offensive e il primo ad aver coinvolto pubblicamente l’America in sua difesa».

L'impianto di Dimona nel 1967. Foto di Gianni Moretti. Tutti i diritti riservati.
L’impianto di Dimona nel 1967. Foto di Giovanni Moretti. Tutti i diritti riservati.

Nel luglio 1967, a un mese dalla Guerra dei sei giorni, sono andato a lavorare in un kibbutz in Israele. Al mio arrivo, non avevo dubbi di essere dalla parte giusta della storia. Avevo appena compiuto 19 anni. Il contatto diretto con la complicata vicenda israelo-palestinese mi ha fatto poi capire che torto e ragione non si tagliano a metà. Ma a quasi 60 anni di distanza, la situazione appare capovolta, con i palestinesi tenuti in un campo di concentramento all’aperto. Il tragico massacro del 7 ottobre è stato seguito da una reazione devastante. Un altro massacro di decine di migliaia di bambini innocenti e una dichiarata volontà di pulizia etnica hanno trasformato le vittime dell’Olocausto in carnefici. Non possiamo tacere di fronte al doppio standard occidentale nel trattare la guerra nel Vicino Oriente. Ho ripescato questa foto, che ho scattato allora nel deserto del Negev durante un viaggio verso il Mar Rosso e che ho sempre tenuto riservata. Ho deciso di renderla pubblica perché è giusto dare un’immagine di quello che si cerca di tenere nascosto.

Giovanni Moretti

Non stupisce quindi che, una volta messo al corrente dal direttore della Cia Richard Helms che Israele si era dotato di armi nucleari e aveva anche effettuato esercitazioni aeree per mettere a punto adeguate tecniche di sganciamento, Johnson comunicò a Golda Meir l’intenzione di mantenere questa scoperta segreta. Anche per evitare che il Trattato di non proliferazione appena approvato dalle Nazioni Unite venisse rigettato dai Paesi arabi nemici dello Stato ebraico.

Skorzeny in missione al Cairo

Questo salto di qualità nelle relazioni israelo-statunitensi nacque soprattutto dalla necessità di Washington di controbilanciare la fornitura di armi sovietiche all’Egitto di Nasser. Fiutata l’aria che tirava, il presidente egiziano aveva cercato a sua volta di dotarsi di armi atomiche rivolgendosi a Mosca. L’Urss però aveva detto di no, in conformità all’obiettivo di evitare di favorire una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente.

L’Egitto si rivolse allora a scienziati tedeschi che avevano lavorato al programma missilistico varato dai nazisti, riuscendo a reclutare il tedesco Heinz Krug, che aveva svolto un ruolo di primo piano nella messa a punto dei micidiali missili V-1 e V-2. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, Krug si mise alle dipendenze di Nasser, dopo aver declinato l’offerta del suo ex eminente collega Werner Von Braun di lavorare per gli Stati Uniti. E riuscì a mettere insieme una squadra di tecnici (come Wolfgang Pilz e Hans Kleinwachter) con cui aveva lavorato in precedenza al fine di realizzare un moderno programma missilistico per conto dell’Egitto.

Venuto a conoscenza delle manovre di Nasser, il Mossad inviò al Cairo, con l’incarico di scoprire l’identità degli scienziati tedeschi, un commando formato da Yitzhak Shamir, Zvi Malkin e nientemeno che Otto Skorzeny, l’ex pupillo di Hitler che aveva svolto molte operazioni segrete dietro ordine esplicito del Führer, come la liberazione di Benito Mussolini sul Gran Sasso.

Lo Sturmbannführer delle SS Otto Skorzeny consegna al vicecapo dell’amministrazione militare Helmut Körner la Croce di Cavaliere della Croce al Merito di Guerra. Foto Scherl Bilderdienst, Schwahn, 3 ottobre 1943. Licenza: Bundesarchiv, Bild 183-J08001 / CC-BY-SA 3.0.
Lo Sturmbannführer delle SS Otto Skorzeny consegna al vicecapo dell’amministrazione militare Helmut Körner la Croce di Cavaliere della Croce al Merito di Guerra. Foto Scherl Bilderdienst, Schwahn, 3 ottobre 1943. Licenza: Bundesarchiv, Bild 183-J08001 / CC-BY-SA 3.0.

Alcune fonti1 sostengono che Skorzeny era passato alle dipendenze degli israeliani per vedere il proprio nome depennato dalla lista di Simon Wiesenthal ed evitare così di incorrere nello stesso destino toccato ad Adolf Eichmann.  Secondo un’inchiesta realizzata da The Forward , una testata giornalistica ebraica americana fondata nel 1897, Skorzeny e la sua unità non solo rapirono e uccisero Krug nell’estate 1962.

In base a testimonianze di ex agenti del Mossad, The Forward sostiene che consegnarono anche al Mossad la lista completa di tutti i tecnici implicati nel programma nucleare egiziano, puntualmente eliminati da sicari israeliani nell’ambito dell’Operazione Damocles. Alcuni dei tecnici che lavoravano al progetto furono uccisi dallo stesso Skorzeny, attraverso un pacco bomba recapitato presso il sito militare noto come Factory-333.

Avvicinamento al Sudafrica

Una volta sabotato il programma egiziano, il primo ministro Golda Meir e il ministro della Difesa Moshe Dayan concordarono di schierare missili Jericho-1 e di tenere pronti al decollo i bombardieri strategici consegnati dagli Stati Uniti per colpire con non meno di 13 testate atomiche da 20 kilotoni l’Egitto e la Siria in caso di un eventuale peggioramento del complicato scenario bellico del 1973.

La Guerra dello Yom Kippur favorì l’accelerazione del programma nucleare di Israele, che nel giro di pochi anni riuscì a mettere a punto una molto più rapida procedura di arricchimento dell’uranio e a sfornare testate miniaturizzate adattabili ai cannoni da 175 e 203 mm messi a disposizione dagli Usa.

Una svolta resa possibile dai legami strategici che Israele aveva intessuto nel corso degli anni precedenti con il Sudafrica, che nel 1969 aveva lanciato un proprio programma nucleare, rifiutandosi al pari di Israele di sottoscrivere il Trattato di non proliferazione. Il processo di avvicinamento al regime di Pretoria, motivato dall’esigenza di rompere l’isolamento internazionale in cui Israele era piombato in seguito alla Guerra dello Yom Kippur, culminò nel 1976.

Il presidente Zalman Shazar, David Ben Gurion, la moglie di Shazar e il primo ministro Golda Meir all'aeroporto di Lod al ritorno di Ben Gurion dal funerale di De Gaulle il 13 novembre 1970. Foto Ufficio stampa del governo israeliano. Licenza CC BY-SA 3.0.
Il presidente Zalman Shazar, David Ben Gurion, la moglie di Shazar e il primo ministro Golda Meir all’aeroporto di Lod al ritorno di Ben Gurion dal funerale di De Gaulle il 13 novembre 1970. Foto Ufficio stampa del governo israeliano. Licenza CC BY-SA 3.0.

Il 10 aprile di quell’anno, il primo ministro laburista Yitzhak Rabin ricevette a Gerusalemme il premier sudafricano John Vorster passando con grande disinvoltura sul comprovato passato filo-nazista di quest’ultimo. La visita di Vorster, che aveva ricevuto un invito formale da Tel Aviv, spianò il terreno per una proficua collaborazione, in base alla quale gli scienziati israeliani fornivano assistenza tecnica ai loro colleghi sudafricani per la realizzazione di armi nucleari in cambio della consegna di qualcosa come 600 tonnellate di uranio allo Stato ebraico. La cooperazione sottobanco proseguì senza intoppi, portando Tel Aviv persino a riconoscere di fatto (sebbene non ufficialmente) l’indipendenza del bantustan del Bophuthatswana. Lo Stato di Israele permise anche ai suoi rappresentanti di aprire una sorta di ambasciata a Tel Aviv: più precisamente un ufficio commerciale con uno status diplomatico vago e non ufficiale.

Oltre all’appoggio israeliano, il regime dell’apartheid poteva contare su un ambiguo  supporto degli Usa e – nonostante l’uscita di Pretoria dal Commonwealth decisa nel 1961 – del Regno Unito. Washington e Londra intrattennero rapporti economici e militari indiretti, tollerando una complessa triangolazione che consentì a Pretoria di aggirare l’embargo sulle forniture militari imposto dall’Onu nel 1977 e di ricevere materiale e assistenza di tipo bellico da tecnici israeliani.

Test nucleare nell’Oceano indiano

Nel 1975, il Sudafrica avviò i preparativi per un esperimento nucleare sotto la superficie del deserto del Kalahari, si sospetta in collaborazione con Israele, ma l’esperimento fu bloccato prima dell’esecuzione. Non solo. Il 22 settembre 1979, un satellite statunitense della serie Vela rilevò un doppio lampo caratteristico di una detonazione nucleare atmosferica nell’Oceano Indiano meridionale, vicino alle Isole del Principe Edoardo. Sebbene ufficialmente l’origine resti «non confermata», diversi esperti, tra cui il matematico ed esperto di fisica atomica Leonard Weiss, all’epoca consulente del Senato Usa, interpretarono l’evento come il risultato di un test atomico segreto condotto congiuntamente da Israele e Sudafrica.

Sia l’amministrazione Carter sia quelle successive guidate da Reagan si mobilitarono per impedire a Weiss di rendere pubbliche le sue conclusioni riguardo all’episodio, in quanto ciò «avrebbe creato un gravissimo problema di politica estera per gli Stati Uniti». Ad ogni modo, una conseguenza diretta del proficuo lavoro svolto in maniera congiunta tra i tecnici israeliani e sudafricani fu il ragguardevole potenziamento dell’arsenale nucleare dello Stato ebraico e l’entrata di Pretoria nel club atomico, da cui però il Sudafrica sarebbe uscito nel 1990, dopo la caduta del regime dell’apartheid.

Nel 2010, il Guardian pubblicò, suscitando forti proteste israeliane, alcuni documenti declassificati dal governo di Nelson Mandela negli anni Novanta che dimostrano i frequenti incontri tenutisi tra i rappresentanti dei due Paesi per tutti gli anni Settanta. Dalla massa di materiale declassificato è saltato fuori, grazie al lavoro di archivio del ricercatore statunitense Sasha Polakow-Suransky, un documento di particolare interesse che fa riferimento a un vertice del 21 marzo 1975, nel corso del quale il comandante delle forze armate sudafricane Raymond Fullarton Armstrong aveva manifestato interesse per i missili Jericho-1.

L’interessamento pose le basi per un colloquio faccia a faccia, tenutosi il 4 giugno 1975, tra il ministro della Difesa israeliano Shimon Peres e il suo omologo sudafricano Pieter Willem Botha, durante il quale venne elaborato il Progetto Chalet, che prevedeva la vendita al Sud Africa di alcuni Jericho-1 e delle relative testate di tipologia sia convenzionale, che chimica che nucleare. Ma la vendita non andò in porto, a causa di divergenze sui costi.

Il parlamentare Shimon Peres e il comandante della Marina Aluf Shlomo Harel durante un pranzo organizzato dalla Commissione Affari esteri e sicurezza della Knesset a Gerusalemme il primo agosto 1967. Foto Ufficio stampa del Governo di Israele. Licenza CC BY-SA 3.0.
Il parlamentare Shimon Peres e il comandante della Marina Aluf Shlomo Harel durante un pranzo organizzato dalla Commissione Affari esteri e sicurezza della Knesset a Gerusalemme il primo agosto 1967. Foto Ufficio stampa del Governo di Israele. Licenza CC BY-SA 3.0.

Il fallimento dell’affare non guastò tuttavia le relazioni bilaterali, che rimasero sufficientemente solide da portare i due ministri a firmare, nel medesimo periodo, un’intesa che sanciva un cospicuo allargamento della collaborazione militare. I rapporti con il Sud Africa cominciarono a deteriorarsi con il nuovo corso imposto dall’African National Congress (Anc), il partito di Mandela represso per decenni dal regime boero alleato di Israele, legato all’Olp e sostenitore della campagna di boicottaggio e sanzioni contro lo Stato ebraico.

Mordechai Vanunu, lo scienziato rapito a Roma

Un altro duro colpo al «muro di gomma» eretto da Tel Aviv fu assestato nel 1986 dal tecnico israeliano Mordechai Vanunu, che dopo essere scappato dalla centrale di Dimona in cui lavorava rivelò al Sunday Times che Israele era ormai da tempo in possesso di un arsenale nucleare segreto, nonostante le autorità israeliane avessero ripetutamente smentito le voci che circolavano a questo riguardo.

I redattori del giornale britannico, consapevoli di avere tra le mani uno scoop esplosivo destinato a suscitare l’ira di Tel Aviv, si erano cautelati consultando i più autorevoli esperti in materia. Avevano quindi chiesto a Frank Barnaby, fisico nucleare britannico e consulente esperto di armi nucleari, e a Theodore Taylor, fisico statunitense di grande esperienza nel settore nucleare, di parlare con lo scienziato israeliano per verificare l’attendibilità tecnico-scientifica del resoconto di Vanunu.

Dopo un lungo colloquio, i due scienziati scrissero un rapporto in cui confermarono la validità della versione fornita dal tecnico israeliano. A quel punto, il Sunday Times ritenne a quel punto di aver raccolto sufficienti conferme per pubblicare tutta la storia. Nel rapporto citato dal giornale britannico, Barnaby definì la testimonianza di Vanunu «assolutamente convincente», mentre Taylor osservò che «il programma nucleare israeliano è molto più avanzato di quanto suggerito da qualsiasi rapporto precedente».

Il Mossad, che nel frattempo era venuto a conoscenza delle intenzioni dell’ex tecnico di Dimona, decise di anticipare l’uscita dell’articolo del Sunday Times organizzando ed eseguendo il sequestro di Vanunu a Roma, il 30 agosto del 1986. Dopo la sua cattura, Vanunu fu trasferito in un carcere israeliano dove rimase rinchiuso per i successivi 18 anni.

L'incontro fra Mordechai Vanunu e il vescovo Riah Abu Assal a Gerusalemme nel 2005. Foto Ali Kazak. Foto Wikimedia Commons.
L’incontro fra Mordechai Vanunu e il vescovo Riah Abu Assal a Gerusalemme nel 2005. Foto Ali Kazak. Foto Wikimedia Commons.

Nel corso di un’intervista rilasciata alla giornalista svizzera Silvia Cattori, Vanunu dichiarò: «Da nove anni lavoravo al centro di ricerche in armamenti di Dimona, nella regione di Beer Sheva. Poco prima di lasciare quel lavoro, nel 1986, avevo scattato delle fotografie all’interno dell’impianto per mostrare al mondo che Israele nascondeva un segreto nucleare. Il mio lavoro a Dimona consisteva nel produrre elementi radioattivi utilizzabili per fabbricare bombe atomiche. Sapevo esattamente quali quantità di materia fissile venivano prodotte, quali materiali erano utilizzati e quali tipi di bombe venivano fabbricate». Lo scienziato aggiunse: «Le autorità israeliane mentivano. Ripetevano che i responsabili politici israeliani non avevano nessuna intenzione di dotarsi di armi nucleari. In realtà, producevano molte sostanze radioattive che potevano servire a un solo fine: fabbricare bombe nucleari. Si trattava di quantità importanti: ho calcolato che all’epoca – nel 1986! – avevano già 200 bombe atomiche. Avevano anche cominciato a produrre bombe all’idrogeno».

«Israele deve apparire come un cane rabbioso troppo pericoloso da provocare»

Quella di Vanunu non è una voce isolata. Secondo il docente israeliano di storia militare Martin Van Creveld, la potenza dell’arsenale nucleare israeliano sarebbe di molto superiore rispetto a quanto suggeriscano le analisi più accreditate. «Noi possediamo centinaia di testate atomiche e razzi, e possiamo lanciarli su bersagli in ogni direzione, magari anche su Roma» rivelò Van Creveld in un’inquietante intervista all’Observer. «La maggior parte delle capitali europee è tenuta sotto tiro dalle nostre forze armate. Come diceva il generale Moshe Dayan, Israele deve apparire come un cane rabbioso troppo pericoloso da provocare. Abbiamo la capacità di trascinare giù il mondo con noi. E a Tel Aviv possono assicurarvi che ciò accadrebbe di certo prima dell’eventuale caduta di Israele».

Nel 2006, Robert Gates, che stava per diventare segretario alla Difesa Usa, rivelò l’esistenza dell’arsenale nucleare israeliano durante un intervento di fronte al Senato, avallando in tal modo le esternazioni di Van Creveld. Pochi giorni dopo, il primo ministro israeliano Ehud Olmert confermò indirettamente la notizia, durante una trasmissione andata in onda sul canale televisivo tedesco Zdf. Una gaffe clamorosa, che istigò i partiti israeliani di opposizione a chiedere le sue dimissioni immediate.

Nel marzo 2015, il governo Usa autorizzò la declassificazione di un documento top secret del Pentagono risalente al 1987 e composto da 386 pagine. All’interno del rapporto, reso di pubblico dominio previa autorizzazione delle autorità israeliane ormai consapevoli che quello che si ostinavano a proteggere era diventato il segreto di Pulcinella, si valutava che «i laboratori nucleari di Israele sono l’equivalente dei centri statunitensi di Los Alamos, Lawrence Livermore e Oak Ridge».

È interessante notare inoltre come già nel 1987 gli specialisti Usa fossero al corrente del progresso compiuto in campo atomico dallo Stato ebraico negli anni Settanta e Ottanta, come si evince chiaramente dalla sezione del documento in cui si legge che gli scienziati israeliani erano in grado di «sviluppare la tecnologia necessaria a realizzare bombe all’idrogeno».

Incontro tra il Primo ministro israeliano Levi Eshkol e il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson (il primo a destra), a Washington, primo giugno 1964. Foto di Moshe Frieden, Ufficio stampa del Governo Israeliano, tratta dal sito web della Fondazione Levi Eshkol. Public Domain.
Incontro tra il Primo ministro israeliano Levi Eshkol e il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson (il primo a destra), a Washington, primo giugno 1964. Foto di Moshe Frieden, Ufficio stampa del Governo Israeliano, tratta dal sito web della Fondazione Levi Eshkol. Public Domain.

Jane’s Defense Weekly: 400 testate nel 2000

Intorno al 2000, l’autorevole rivista militare britannica Jane’s Defense Weekly scese ulteriormente nei dettagli, stimando che Israele avesse accumulato fino a quel momento circa 400 testate nucleari, trasportabili con tutta una serie di vettori estremamente funzionali. Il più rilevante di essi è il missile balistico a medio raggio Jericho-2, dotato di motore a propellente solido, capace di coprire quasi 3.000 km di gittata e lanciabile da veicoli in movimento oltre che da appositi silos.

La punta di lancia è però rappresentata dal missile Shavit (sviluppato sulla base tecnica del Jericho-2), che pur essendo stato utilizzato da Tel Aviv per lanciare in orbita i satelliti Ofeq potrebbe essere impiegato per trasportare testate nucleari a una gittata compresa tra i 6000 e i 7000 km, il che ne fa un vettore strategico in grado di estendere la capacità offensiva di Israele a vaste zone di Europa e Africa, oltre che all’intera macroregione mediorientale.

Il Popeye è invece un missile aria-superficie di precisione, installato sui caccia F-151 Ra’am e F-161 Sufa, in dotazione all’aeronautica israeliana, da cui è stato sviluppato il Popeye Turbo, missile da crociera a testata nucleare dotato di sistema di guida a infrarossi e capace di coprire una distanza compresa tra i 200 e i 350 km. Tale missile è stato inoltre adattato ai lanciasiluri da 650 mm di cui sono dotati i Dolphin, sottomarini lunghi quasi 58 metri con 1.900 tonnellate di dislocamento in immersione capaci di raggiungere i 20 nodi di velocità e di coprire un raggio d’azione di 4.500 km.

Tali sommergibili sono prodotti «secondo le specifiche israeliane» dalla società tedesca Hdw, nel quadro accordi specifici con il governo di Berlino – in  base ai quali la Germania copre il 30% della spesa. Sono proprio i sottomarini Dolphin, massimo risultato del rapporto speciale instaurato tra Israele e Germania, a garantire a Tel Aviv la possibilità di presidiare costantemente la porzione (strategicamente cruciale) di Golfo Persico che lambisce le acque territoriali iraniane.

«200 bombe atomiche pronte al lancio su Teheran»

Secondo il Sipri, il prestigioso Stockholm International Peace Research Institute, la Germania ha fornito a Israele, oltre ai Dolphin, corvette Sa’ar e più di 1.000 motori per carri armati Merkava-4 e veicoli corazzati Namer ed Eitan. Zain Hussain, ricercatore del Sipri, ha specificato che «la Germania ha finanziato parte degli acquisti israeliani di sottomarini e corvette come forma di aiuto militare a Israele, per sostenere il Paese nella sua difesa e in una sorta di compensazione per i crimini nazisti».

La prassi indicata da Hussain si è applicata anche in riferimento all’Arrow-3, un sistema anti-missilistico sviluppato da Boeing in collaborazione con Israel Aerospace Industries che attualmente la Germania si sta preparando a trasferire in Israele, previa autorizzazione degli Stati Uniti e approvazione delle commissioni Bilancio e Difesa del Bundestag. Si tratta di un’operazione da circa 4 miliardi di euro, finanziata integralmente dalla Germania attraverso il fondo speciale di 100 miliardi approvato dal governo di Olaf Scholz in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino.

Nel 2023, l’ex ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha parlato di una «decisione significativa» dagli effetti positivi anche per l’economia di Israele. L’Arrow-3, ha quindi spiegato Gallant, integrerà l’Iron Dome rafforzando in maniera decisiva le capacità militari di Israele, trattandosi di un «sistema innovativo, il più avanzato al mondo nel suo genere, un moltiplicatore di forze per le difese aeree israeliane». Naturalmente, anche l’Italia fornisce il suo contributo, conformemente al Memorandum di cooperazione militare Italia-Israele siglato nel 2005 e rinnovato automaticamente di anno in anno.

Un’ennesima riprova del fatto che la potenza militare israeliana è stata realizzata in larga misura grazie ai solidi e altolocati agganci internazionali che le classi dirigenti di Tel Aviv sono state in grado di costruire nel corso dei decenni. Agganci che pongono attualmente Israele nelle condizioni di tenere «200 bombe atomiche pronte al lancio su Teheran», come confidato dall’ex segretario di Stato Colin Powell al suo partner d’affari e grande finanziatore del Partito Democratico Jeffrey Leeds in una e-mail scovata e pubblicata dal sito DcLeaks.

Stime basate sulla produzione di plutonio nel reattore di Dimona (circa 800–870 kg entro gli anni Novanta) e sui dati del Sipri indicano un potenziale arsenale da 180 a 270 testate. Secondo alcune stime, Israele sarebbe nelle condizioni di produrre plutonio in quantità sufficienti a sviluppare ogni anno dalle 10 alle 15 bombe di potenza analoga a quella sganciata dalle forze aeree statunitensi su Nagasaki. Di ufficiale però non c’è niente: nessuna conferma, nessuna smentita. Solo il mistero di un programma atomico mai dichiarato, ma sempre più arduo da negare.

  1. https://www.timesofisrael.com/story-of-mossads-ties-with-high-ranking-nazi-to-become-tv-show/ https://www.thejc.com/news/world/ss-officer-who-was-close-to-hitler-became-mossad-assassin-after-the-war-jwj1wpda ↩︎

Licenza Creative Commons CC BY-NC-ND Ver. 4.0 Internazionale

Leggi la prima parte dell’articolo «Il mistero dell’atomica di Israele: storia di un’arma mai riconosciuta».

Leggi anche la testimonianza del dottor Giovanni Moretti: https://krisis.info/it/2024/10/aree/medio_oriente/israele/io-volontario-in-un-kibbutz-nel-1967-oggi-condanno-la-pulizia-etnica-di-israele/

Autore

  • Giacomo GabelliniGiacomo Gabellini Analista geopolitico ed economico, è autore di numerosi saggi, tra cui Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense (2021), Ucraina. Il mondo al bivio (2022), Dottrina Monroe. L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale (2022), Taiwan. L’isola nello scacchiere asiatico e mondiale (2022), Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana (2023). Ha all’attivo numerose collaborazioni con testate sia italiane che straniere.

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