Dal blog https://angolopsicologia.com/
C’era un tempo, non molto lontano, in cui un singolo gesto fungeva da manuale di condotta. Non c’era bisogno di alzare la voce, di fare un discorso correttivo o di ripetere la stessa cosa mille volte come un disco rotto. Bastava uno sguardo. SOLO UNO SGUARDO. E il bambino sapeva che era ora di smetterla di fare il birbantello, di stare seduto dritto, di lasciare cadere ciò che aveva raccolto o di smettere di infastidire l’altra persona.
Quelle erano generazioni educate con lo sguardo fisso. Quella attuale? Beh, nemmeno con un megafono o un altoparlante. I genitori urlano, cercano di trattare, li minacciano, li implorano di essere educati… ma il risultato è sempre lo stesso: nessuna reazione o, peggio ancora, uno sguardo di assoluto disprezzo.
Qualcosa è cambiato. E non solo nel modo in cui educhiamo, ma in ciò che intendiamo per rispetto, autorità e autocontrollo.
La pedagogia del silenzio: quando uno sguardo vale più di mille parole
In passato, le emozioni non venivano discusse molto nella maggior parte delle famiglie (non tutto nella vita è perfetto). Ma esisteva un codice visivo implicito. I bambini sapevano cosa significassero un sopracciglio alzato o degli occhi spalancati.
Esisteva un’intera grammatica non verbale che si imparava fin da piccoli senza bisogno di spiegazioni. Il repertorio era limitato ma efficace: lo sguardo ammonitore, il “ne riparleremo a casa“, il “non pensarci nemmeno” e, naturalmente, lo sguardo letale che ti immobilizzava, qualunque cosa stessi facendo.
Non c’era bisogno di punizioni o lunghi discorsi sulle conseguenze naturali, perché tutti le sentivamo. Il messaggio era chiaro: se ti rendevi ridicolo in pubblico o avevi commesso un errore, tua madre o tuo padre te lo dicevano con gli occhi. E tu sapevi cosa significava. Non serviva altro.
E no, non era paura. Era autorità. Basata su un legame costruito sull’affetto, ma anche sulla convinzione che ci siano regole da seguire. Sapevi che i tuoi genitori non stavano scherzando e che dovevi ascoltarli.
L’inflazione linguistica e il prezzo della sovraspiegazione
Oggi, molti genitori ripetono la stessa frase con frustrazione: “Gli dico le cose mille volte, ma non mi ascolta“. O peggio: “Mi guarda come se lo disturbassi“. Siamo passati da una generazione che reagiva a un cenno di sopracciglio a una che ignora persino il grido disperato di “Te lo dico per l’ultima volta!”.
Cosa è cambiato?
Per cominciare, l’autorità.
Nell’era della genitorialità rispettosa (che ha grandi virtù, ma è spesso mal applicata), ha preso piede una sorta di timore di porre limiti, per timore di traumatizzare il bambino. La fermezza viene confusa con la repressione, l’autorità con l’autoritarismo e le conseguenze con la punizione.
Prima, un semplice “Stai esagerando” era sufficiente. Ora, tutto deve essere spiegato, tutto giustificato e i sentimenti del bambino convalidati prima che smetta di fare ciò che sta sbagliando. In teoria, questo approccio è più empatico, educativo e stimolante per lo sviluppo. Ma in pratica, genera confusione, esaurimento e a una completa perdita di gerarchia.
Ovviamente, è importante che i bambini capiscano il “perché” di regole e norme. È anche importante promuovere il loro pensiero critico e la loro indipendenza, ma non tutto deve essere un TED Talk. In certe situazioni, un “no” o un sopracciglio alzato dovrebbero bastare.
Se tuo figlio è in pericolo, un “NO” è più efficace di una lunga spiegazione. Se sta facendo i capricci, un comando chiaro è tutto ciò che il suo cervello riesce a capire in quel momento. Se sta infastidendo un altro bambino, dovrebbe smettere immediatamente, non prima di aver sentito, interiorizzato e, si spera, compreso che si sta comportando male.
Inoltre, quando spieghiamo troppo, diamo al bambino un potere negoziale che non sempre sa come esercitare, semplicemente perché è troppo piccolo. L’autorità diventa quindi facoltativa. E se tutto è negoziabile, non c’è bisogno di ascoltare nulla. Per un bambino di 5 o 6 anni, questo equivale a pensare: “Obbedirò solo se voglio o se sono d’accordo“.
Questa non è libertà. È caos.
Il senso di colpa, il peso che i genitori portano
Molti genitori oggi mancano di un’autorità positiva. E quelli che ci provano si sentono intrappolati tra sensi di colpa, dubbi e paura di essere come i propri genitori, proprio quelli che potrebbero convincerti a comportarti bene con un solo sguardo.
Certo, non è tutta colpa loro. La società giudica madri e padri in modo particolarmente severo. Se sei fermo, sei controllante. Se sei flessibile, sei permissivo. Se usi l’opzione “no”, sei antiquato. Se ragioni troppo, sei debole.
Il risultato? Un modello genitoriale confuso e iperanalizzato che travolge i genitori, spingendoli al limite delle loro capacità di gestione. D’altra parte, ci sono bambini che non sanno cosa significhi un “avvertimento non verbale”.
Numerosi studi hanno dimostrato che uno stile autorevole (ma non autoritario) con regole e strutture chiare porta a migliori competenze sociali, maggiore autostima e migliori risultati accademici nei bambini e negli adolescenti. Al contrario, la permissività e la mancanza di limiti portano spesso a comportamenti problematici.
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Dobbiamo reimparare a educare con il NOSTRO SGUARDO?
Educare con lo sguardo non era un superpotere magico. Era il risultato di una struttura familiare chiara, in cui l’adulto rappresentava un modello fermo. Oggi, in molte famiglie, quel ruolo è venuto meno perché i genitori vogliono essere compagni, colleghi e amici con “buone vibrazioni”.
E il bambino è perso. Perché, anche se può non sembrare, i bambini hanno bisogno di limiti per sentirsi al sicuro. Hanno bisogno di sapere fin dove possono spingersi. Di conoscere le conseguenze delle loro azioni. E non per alimentare la paura, ma per creare un contesto di realtà e supporto.
Quando questo quadro non esiste o è troppo ambiguo, subentrano ansia, sfida costante e disconnessione emotiva. E allora, sì, non importa quante volte urli o implori, tuo figlio non risponderà.
Ovviamente, non si tratta di recuperare la paura del passato, né di un’educazione basata sulla sottomissione, ma piuttosto di sviluppare un’autorevolezza emotiva. Questa si conquista con coerenza, fermezza e rispetto, non con urla o minacce, ma nemmeno con una resa che sembra quasi sottomissione.
Educare con uno sguardo non è un gesto. È una relazione. Una relazione in cui l’adulto non ha bisogno di alzare la voce perché la sua presenza ha già un peso. Perché il bambino si fida e rispetta.
La generazione educata con lo sguardo fisso capiva che un sopracciglio alzato significava che c’era una linea rossa. La generazione di oggi ha bisogno di tre promemoria, una minaccia simbolica e, a volte, un dramma in piena regola per fermarla. E se da un lato l’evoluzione educativa ha portato conoscenze preziose, dall’altro abbiamo perso qualcosa di essenziale: la capacità di frenare attraverso l’autorità silenziosa, non attraverso urla disperate.
Ripristinare quell’equilibrio è possibile. Non con la punizione, ma con una presenza ferma. Non con la violenza, ma con la chiarezza. E, soprattutto, con l’esempio. Perché educare non significa essere gentili. Educare significa formare. Educare significa amare, ma anche contenere.
Riferimenti:
Luyckx, K. et. Al. (2011) Parenting and trajectories of children’s maladaptive behaviors: a 12-year prospective community study. J Clin Child Adolesc Psychol; 40(3): 468-478.
Grolnick, W. S. & Pomerantz, E. M. (2009) Issues and challenges in studying parental control: Toward a new conceptualization. Child Development Perspectives, 3(3): 165–170.
Baumrind, D.(1966) Effects of authoritative parental control on child behavior. Child Development; 37(4): 887–907.