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| lug 9 di Maria Pappini |
L’evento record di Zagabria, all’insegna del motto ustascia che equivale al nazista «Sieg Heil», accende il dibattito sul nazionalismo croato.
Slogan del passato regime filo-nazista, saluti romani, canzoni che glorificano il campo di concentramento di Jasenovac… Il concerto del cantante Thompson, bandito in diversi Paesi europei ma celebrato il 5 luglio da mezzo milione di persone a Zagabria, si è trasformato in una sfida alle istituzioni. Secondo la denuncia di una ong croata, l’evento è stato il «più massiccio attacco ai valori costituzionali della Croazia dalla fine degli anni Novanta e un attacco diretto ai valori fondamentali dell’Ue». Eppure vi hanno partecipato politici di primissimo piano. Lo storico dell’Università di Zagabria Hrvoje Klasić analizza la persistenza del nazionalismo croato, dalle radici nei crimini del regime ustascia durante la Seconda guerra mondiale, fino al mito nazionalista nato con la guerra d’indipendenza degli anni Novanta. Al centro della memoria collettiva rimane il campo di sterminio di Jasenovac, epicentro dell’orrore ustascia, che continua a rappresentare una ferita aperta. Su quella memoria collettiva mai veramente elaborata si innesta un nazionalismo che lo storico croato definisce «schizofrenico».
Ascolta l’articolo, letto da Giulio Bellotto:
«Non posso fare a meno di pensare a come si debbano sentire i serbi in Croazia, i serbi originari della Croazia, gli ebrei, i rom e molti croati quando un musicista noto per glorificare il campo di concentramento di Jasenovac nelle sue canzoni e per promuovere il revisionismo storico sulla Seconda guerra mondiale riceve (…) un simile sostegno». Questo il commento su X del ministro degli Esteri serbo Marko Đurić il 6 luglio, a proposito del controverso concerto di Marko Perković, in arte Thompson, tenutosi la sera precedente a Zagabria.
Il 5 luglio all’Ippodromo di Zagabria, città di 700.000 abitanti, si è radunata una folla enorme stimata tra 485.000 (biglietti venduti) e 504.000 persone (dati dello staff del concerto). Vale a dire il 13% di tutti gli abitanti della Croazia, che sono 3,8 milioni. Un’affluenza inaudita, che rapportata all’Italia, equivarrebbe a riunire tutti coloro che vivono Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze, Bologna, Bari, Verona, Padova e Parma insieme (7,7 milioni di persone). Non a caso il concerto è già entrato nel Guinnes dei primati come che il più grande che si sia mai tenuto al mondo.

La massa oceanica era presente per il concerto del cantante nazionalista Marko Perković Thompson, noto per i suoi riferimenti alla simbologia e alla retorica del regime ustascia di Ante Pavelić. Durante l’evento sono riemersi con forza i simboli del periodo più oscuro della storia croata: saluti romani, vessilli del regime ustascia e cori anti-serbi che hanno riecheggiato nell’aria, dimostrando come certi fantasmi del passato non siano mai stati davvero sepolti.
Lo Stato Indipendente di Croazia (1941-1945), guidato da Ante Pavelić e alleato di Hitler e Mussolini, non fu solo un governo fantoccio nazifascista, ma un regime che organizzò sistematicamente lo sterminio di serbi, ebrei e rom, con il sostegno attivo di parte del clero cattolico.
La Chiesa croata, attraverso figure come l’arcivescovo Alojzije Stepinac (poi beatificato da Giovanni Paolo II nel 1998), mantenne un rapporto ambiguo con il regime, oscillando tra collaborazione e silenzio complice di fronte alle atrocità. Questo passato tornò con violenza negli anni Novanta quando molti combattenti croati nella Guerra patriottica per l’indipendenza dalla Jugoslavia adottarono simboli e retorica ustascia, riscrivendo la storia per presentare il regime di Pavelić come precursore dell’indipendenza nazionale.
La persistenza di questi elementi nella sfera pubblica croata, unita alla mancata elaborazione critica del ruolo della Chiesa in quel periodo, continua a sollevare interrogativi sulla memoria storica del paese, soprattutto quando un artista come Thompson può radunare mezzo milione di persone evocando apertamente quel passato senza che questo susciti una netta condanna da parte delle istituzioni e della società civile.
La risonanza del concerto ha travalicato i confini nazionali, riaccendendo un dibattito già vivo a livello internazionale. Non a caso, Thompson è una figura controversa non solo in Croazia: Austria, Svizzera e Germania hanno vietato in passato i suoi concerti, considerando la sua musica potenzialmente incitatrice all’odio e alla glorificazione del regime ustascia. Anche in Slovenia e Serbia le sue esibizioni sono state bloccate o hanno suscitato proteste, mentre in Canada alcune comunità hanno espresso forte opposizione alla sua presenza.
Durante il concerto di Thompson a Zagabria, l’uso strumentale della religione è emerso con particolare forza: il palco è stato inondato di croci, icone mariane e simboli cattolici, mentre immagini sacre venivano proiettate sul cielo della città, trasformando l’evento in un’imbarazzante performance nazionalista a sfondo pseudo-religioso. Tuttavia, ben poco di quel messaggio richiamava i valori cristiani di umiltà e riconciliazione: la retorica dominante, invece, sembrava celebrare un’identità cattolica intesa come strumento di divisione, soprattutto verso la minoranza serba che, sebbene ridotta dal 12% del 1991 al 3% dell’ultimo censimento del 2020, ancora è presente nel Paese.

La presenza del primo ministro Andrej Plenković, che ha assistito alla prova generale del concerto insieme ai figli, ha aggiunto un ulteriore livello di ambiguità istituzionale. Sebbene il suo sia stato un gesto presentato come privato, la scelta di partecipare (seppur in anticipo) a un evento dove sono circolati saluti romani e simbologia legata al passato ustascia ha suscitato aspre polemiche. Al concerto erano invece ad esempio presente il presidente della Camera Gordan Jandroković e l’ex ministro della Finanze Zdravko Marić.
L’ex premier croata Jadranka Kosor non ha usato mezzi termini su X, definendo lo spettacolo una «vergogna nazionale» e criticando il mancato intervento delle autorità contro gli slogan e i gesti apertamente fascisti. Anche la garante croata per i diritti umani, Tena Šimonović Einwalter, ha espresso allarme per l’assenza di reazioni ufficiali.
Krisis ha parlato di questa vicenda con il professor Hrvoje Klasić, storico croato specializzato in storia jugoslava e docente all’Università di Zagabria. Noto per le sue critiche al revisionismo storico, Klasić si è opposto pubblicamente alla riabilitazione del regime ustascia e alla strumentalizzazione politica della memoria. «Il concerto di Thompson racconta molto della Croazia di oggi e rappresenta, in un certo senso, una situazione quasi schizofrenica» riflette Klasić. «Perché a un osservatore esterno potrebbe sembrare che, se 500.000 persone partecipano al concerto di un artista legato al regime fascista croato della Seconda guerra mondiale, questo significa che la Croazia è diventata un Paese di destra o pieno di estremisti. Ma la realtà è ben diversa».
Per Klasić la distinzione cruciale, che spesso sfugge agli osservatori internazionali, sta proprio nella complessa relazione tra passato e presente. «Può sembrare contraddittorio, assurdo persino, per chi non conosce la realtà croata, ma è così. Il motivo principale per cui la maggior parte delle persone segue Thompson non ha nulla a che vedere con la Seconda guerra mondiale: riguarda invece la guerra d’indipendenza degli anni Novanta, la cosiddetta Guerra patriottica per l’indipendenza dalla Jugoslavia».
Il professor Klasić continua: «È vero che durante quella guerra alcune formazioni paramilitari si ispiravano agli ustascia, ma i ragazzi che oggi vanno ai concerti di Thompson celebrano gli anni Novanta, la nascita della Croazia indipendente». E aggiunge: «Sì, esistono anche qui estremisti nazionalisti, forse persino simpatizzanti fascisti, ma rappresentano una minoranza assoluta nella società croata». Resta il fatto che, come osserva una fonte di Krisis che preferisce rimanere riservata, «il 13% della popolazione croata presente al concerto di certo non può essere descritta come una minoranza».
La guerra degli anni Novanta, con la sua retorica nazionalista e la riemersione di simboli ustascia, dimostra quanto il regime di Pavelić abbia continuato a influenzare l’immaginario politico croato anche dopo la caduta del comunismo. Molti volontari e formazioni paramilitari adottarono iconografie e slogan del passato fascista, trasformando la lotta per l’indipendenza in una riabilitazione distorta di quel periodo. Così, ciò che negli anni Quaranta fu un progetto genocidario, negli anni Novanta divenne un mito fondativo, riscritto nascondendo i suoi crimini più atroci, ma pur sempre legato alla stessa ideologia.
La guerra, in questo senso, non fu solo una secessione dalla Jugoslavia, ma anche il tentativo di riconnettere la Croazia moderna a un’identità costruita sul culto dello Stato indipendente di Pavelić, cancellando decenni di condanna ufficiale del collaborazionismo. E oggi, quando mezzo milione di persone canta le canzoni di Thompson, non celebra solo la vittoria negli anni Novanta. Celebra, consapevolmente o meno, anche quel filo rosso che lega due guerre, due epoche, e lo stesso pericoloso revisionismo.
La reazione dei media croati al concerto è stata variegata e complessa. «Ignorarlo sarebbe stato impossibile. È stato un evento enorme» ammette Klasić. «Per molti croati la cosa più importante era sottolineare che siamo finiti nel Guinness dei Primati: prima il record di biglietti venduti lo aveva Vasco Rossi, adesso è di Thompson. Per mesi non si è parlato d’altro, non solo sui media ma ovunque, nei bar, tra amici, nelle conversazioni quotidiane… Tutti si chiedevano come fosse possibile che mezzo milione di persone partecipassero a un solo concerto in una città che non arriva nemmeno al milione di abitanti». Poi ammette: «Certo, c’era anche chi era preoccupato: timori di possibili incidenti nazionalisti, tensioni o provocazioni. Ma per molti era pura curiosità, la voglia di esserci, di far parte di un evento così gigantesco».

Tra i simboli riemersi durante il concerto, uno in particolare incarna l’ambiguità tra passato e presente: il saluto Za dom spremni – l’equivalente croato del Sieg Heil nazista – gridato da migliaia di persone. Nato come slogan ustascia negli anni Quaranta, fu riadottato negli anni Novanta da reparti paramilitari croati, acquisendo per molti un nuovo significato patriottico. Ma può un gesto legato indissolubilmente al fascismo essere svuotato del suo peso storico?
«Il saluto Za dom spremni è una realtà storica» spiega Klasić. «Era il saluto ufficiale degli ustascia, introdotto negli anni Trenta e poi adottato dallo Stato Indipendente di Croazia negli anni Quaranta». Lo storico fa poi notare la singolare evoluzione di questo simbolo: «Tuttavia, nel 1991, durante la Guerra patriottica, una forza paramilitare croata lo ha ripreso e lo ha reso il proprio saluto ufficiale».
Con tono critico, Klasić aggiunge: «Da quel momento in poi, per molti, quel gesto ha smesso di rimandare direttamente agli ustascia e ha cominciato a evocare la guerra d’indipendenza». A questo punto la sua analisi si fa più severa: «Personalmente trovo tutto questo profondamente problematico. È un errore. Perché, che sia negli anni Quaranta sia negli anni Novanta, si tratta pur sempre di un saluto ustascia».
Il problema, secondo lo storico, sta nella percezione comune: «La maggior parte delle persone oggi non ci pensa. Non vede l’ideologia dietro quel gesto: lo considera semplicemente un simbolo patriottico legato agli anni Novanta e alla nascita della Croazia come Stato indipendente». Klasić traccia un parallelo significativo: «È un po’ quello che accade in Ucraina con il saluto Slava Ukraini. Oggi è un grido patriottico contro l’aggressione russa, ma 80 anni fa era il motto delle forze forze filo-naziste».
Ponendosi una domanda retorica, Klasić continua: «La domanda è: gli ucraini di oggi lo usano per richiamare quegli anni bui o per esprimere resistenza e identità nazionale? Lo stesso vale per la Croazia». La sua posizione è chiara e netta: «Per me, rimane comunque un saluto fascista. Dovrebbe essere vietato, e chi lo usa dovrebbe essere perseguito». Tuttavia, lo storico riconosce la complessa realtà dei fatti: «Il fatto è che da 35 anni questo saluto non è mai stato realmente proibito, e molte persone non sono nemmeno consapevoli della sua origine e del suo significato storico». Per concludere con fermezza: «Eppure, non dovrebbe mai essere usato. Né qui, né altrove».
Giuridicamente la questione è complessa. Una sentenza della Corte Costituzionale croata del 2016 aveva stabilito chiaramente che il saluto «Za dom – Spremni» rappresenta un’apologia del regime ustascia e costituisce incitamento all’odio nazionale, razziale e religioso, vietato dalla Costituzione. Nonostante questa pronuncia, l’assenza di una legge specifica che ne proibisca esplicitamente l’uso ha creato una zona grigia nell’applicazione concreta del divieto.
Le autorità hanno adottato approcci diversi a seconda dei contesti. Negli stadi, la polizia ha multato diversi tifosi per aver gridato il saluto, applicando le norme esistenti contro l’incitamento all’odio. Tuttavia, nel mondo dello spettacolo, Thompson è stato assolto nel 2020 dall’accusa di incitamento all’odio per averlo usato durante i concerti, con la corte che ha ritenuto non dimostrabile l’intento discriminatorio.

Balkan Insight, testata giornalistica indipendente specializzata nell’analisi della regione balcanica, nel suo articolo del 7 luglio ha definito il concerto «un’inquietante dimostrazione della persistente nostalgia per il passato ustascia», sottolineando come «l’inerzia delle autorità croate di fronte ai saluti fascisti documentati durante l’evento rappresenti un pericoloso precedente». La testata ha inoltre riportato le preoccupazioni di analisti internazionali riguardo al «tentativo di riscrivere la storia minimizzando i crimini del regime di Pavelić».
Il caso di Thompson e della sua celebrazione di simboli legati allo Stato Indipendente di Croazia non è solo una questione di nostalgia fascista, ma un sintomo di come certi nazionalismi rielaborino la storia dei «vinti» della Seconda Guerra Mondiale. Lo Stato indipendente di Croazia, responsabile del genocidio di serbi, ebrei e rom, viene oggi sdoganato da alcuni come espressione di «orgoglio croato», mentre le vittime serbe vengono minimizzate o rimosse dal discorso pubblico.
Questa asimmetria alimenta risentimenti: i serbi, già percepiti come i «cattivi» nelle guerre degli anni Novanta, vedono l’ipocrisia di un’Europa che condanna il loro passato nazionalista ma chiude un occhio su quello altrui. Intanto, migliaia di morti nei campi di sterminio come Jasenovac vengono relegati a una memoria di serie B, perché scomoda per la costruzione di una Croazia «europea» e democratica.

Il concerto di Thompson, dunque, non è solo uno scandalo isolato: è la prova che in Europa alcuni fascismi sono più accettabili di altri, a seconda di chi colpiscono e di chi li strumentalizza. Finché l’Ue non affronterà questa ipocrisia, i Balcani resteranno un laboratorio di divisioni, e una vera riconciliazione rimarrà impossibile. Perché la memoria non può essere selettiva. O è giustizia per tutte le vittime, o è complicità con i carnefici di ieri (e di domani). Intanto, il ministro della Difesa Ivan Anusić ha riconosciuto che quando, al concerto, Thomson ha urlato lo slogan ustascia «Za dom» (per la patria) lui ha risposto: «Spremni» (pronti). Con lui, mezzo milione di persone hanno scandito il motto ustascia che è l’equivalente del nazista Sieg Heil.
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Autore
Maria Pappini Nata nel 1987, ha conseguito una laurea magistrale in Scienze del Governo presso l’Università di Torino e un master in Histoire des théories économiques et managériales in Lyon. Dopo più di dieci anni come account manager in diversi settori e attivista politica, nel 2023 decide di riprendere gli studi presso l’Università Statale di Milano frequentando il corso di Scienze Storiche. La sua attività di ricerca è concentrata sulla storia dei partiti politici e sulla storia delle relazioni internazionali.