Dal blog https://www.lafionda.org/
25 Lug , 2025|Giuseppe Libutti
Le trasformazioni urbane non sono solo una questione tecnica o estetica: sono l’effetto di scelte politiche profonde. In assenza di visione e di partecipazione, si afferma un modello di città escludente, subordinato al mercato. Serve una nuova idea di politica, capace di rigenerarsi dai territori.
L’inchiesta sul tanto celebrato “modello Milano”, che ipotizza un sistema di favori, incontri riservati e scambi opachi tra amministratori pubblici e grandi operatori immobiliari, non rappresenta un caso isolato né, purtroppo, sorprendente. Si inserisce, piuttosto, in un quadro sempre più evidente: quello di grandi città italiane piegate agli interessi della rendita e del capitale finanziario, incapaci di difendere l’interesse collettivo e la funzione pubblica dell’urbanistica.
Il punto non è qui la responsabilità penale, che spetta alla magistratura accertare, ma la dimensione politica del problema. Da tempo, le principali amministrazioni urbane del Paese sembrano operare non come soggetti pubblici autonomi, ma come facilitatori delle strategie immobiliari dei grandi gruppi finanziari. La pianificazione viene spesso svuotata della sua funzione regolatrice per diventare uno strumento di valorizzazione economica, subordinato agli interessi privati.
Un anno fa, in un contributo dedicato a Roma, denunciavo dinamiche molto simili. Nella Capitale, la nascita della fondazione “Roma Regeneration” – promossa da tre grandi SGR come DeA Capital, Investire e Fabrica – veniva presentata come laboratorio per la rigenerazione urbana, ma nei fatti si configurava come un progetto pienamente coerente con un’idea di città intesa come prodotto finanziario. Il consenso con cui tale iniziativa fu accolta dalla maggioranza capitolina, senza confronto pubblico né reale coinvolgimento dei cittadini, dimostra quanto le istituzioni siano ormai permeabili agli interessi dei fondi speculativi.
Contestualmente, mentre in periferia si autorizzano impianti industriali per il trattamento dei rifiuti anche in aree agricole e si chiudono centri sociali, culturali e spazi di aggregazione, al centro si disegna una città “ideale” per gli investitori: attrattiva, redditizia, sottomessa. Una città per pochi.
In questo contesto, le forze politiche, tanto di centrodestra quanto di centrosinistra, sembrano aver rinunciato a qualsiasi visione alternativa. La sinistra istituzionale, in particolare, si è spesso trovata non solo a rincorrere queste logiche, ma a esserne parte attiva. A Roma, la sinistra che guida l’amministrazione comunale non si distingue dal centrodestra che governa in Regione, trovando continuità nel promuovere impianti impattanti nelle periferie o nell’intrattenere rapporti diretti con i grandi fondi immobiliari.
A Milano, le trasformazioni urbane più significative – da CityLife a Porta Nuova, da Santa Giulia agli scali ferroviari – sono state affidate a grandi operatori finanziari globali, con conseguenze devastanti per l’equilibrio sociale e il diritto all’abitare.
E ancora, la proposta “Laboratorio Roma 050” dell’architetto Stefano Boeri immagina una Roma del futuro, sostenibile e divisa in 250 micro città, con spazi verdi, acqua protagonista e un nuovo equilibrio tra archeologia e urbanizzazione. Presentata con entusiasmo dalle istituzioni, la visione è affascinante ma solleva dubbi concreti: mancano risorse, regole chiare e una guida efficace in un contesto amministrativo già fragile. Il rischio è che resti solo un sogno ambizioso, lontano dalle vere emergenze della città, come casa, trasporti e servizi essenziali.
In definitiva, “Roma 050” è un esercizio di visione utile e stimolante per attrarre capitali, ma se non si confronta con il conflitto sociale, le diseguaglianze territoriali e la sfida democratica della pianificazione urbana, rischia di essere solo un altro progetto “ben confezionato” per una città che resta immobile.
Le trasformazioni in corso nelle nostre città non sono solo cambiamenti urbanistici: sono l’effetto visibile di scelte politiche profonde, che ridefiniscono chi ha diritto a vivere, abitare e partecipare alla vita urbana. Lo spazio pubblico, i servizi, la casa vengono sempre più subordinati a logiche di mercato, perdendo la loro funzione sociale. I centri urbani si svuotano di vita quotidiana e diventano vetrine per il turismo e l’alta rendita immobiliare. Si afferma così un modello di città escludente, riservato a pochi, che rischia di diventare la regola.
In tal senso, Milano e Roma sono due esempi emblematici. A Milano, il centro storico si è trasformato in un palcoscenico per il consumo e la speculazione. Gli affitti hanno raggiunto livelli insostenibili a partire dal ceto medio, con il conseguente allontanamento dei residenti, che ha seguito l’espulsione dei poveri dal centro urbano, e il declino delle attività di prossimità. La città sta progressivamente perdendo il suo tessuto vivo e vivace, mentre la retorica dell’innovazione maschera solo una crescita diseguale.
Roma, pur essendo governata anch’essa da una maggioranza progressista, continua a essere percepita come una città difficile da amministrare, soffocata da problemi strutturali e da un apparato burocratico inefficiente. Manca una visione politica in grado di guidare le trasformazioni urbane verso obiettivi di qualità della vita, equità e sostenibilità.
In assenza di questa visione, il rischio per il Partito Democratico e per la sinistra tutta è doppio: da una parte, perdere consenso; dall’altra, smarrire la propria identità di forza politica radicata nei territori, capace di rappresentare chi vive ogni giorno le contraddizioni della città.
In questo scenario, il concetto di rigenerazione può diventare l’orizzonte strategico di una sinistra che voglia tornare a essere incisiva. Ma non può trattarsi della rigenerazione estetica promossa da molte amministrazioni, ridotta a maquillage urbano o a progetti immobiliari mascherati da innovazione.
Rigenerare significa costruire luoghi in cui le comunità possano riconoscersi, riappropriarsi dei territori, ricostruire relazioni solidali. Significa partire dai bisogni delle persone, non dai business plan degli investitori. Richiede processi trasparenti e realmente partecipativi, non percorsi calati dall’alto, come avviene oggi a Roma, dove, ad esempio, la moltiplicazione degli strumenti per l’assegnazione del patrimonio pubblico ha prodotto opacità e disparità di accesso.
La rigenerazione, intesa in senso pienamente politico come processo generativo, non è solo una politica urbanistica, ma una sfida democratica e culturale. È la chiave per una nuova idea di città e, con essa, per una nuova idea di sinistra. Una sinistra che non si limiti a rincorrere il linguaggio del potere, ma che costruisca una propria grammatica politica a partire dalle pratiche. Che sappia ascoltare, conoscere, trasformare i territori. Che dia forma a città giuste, inclusive, realmente partecipate.
Dentro questa prospettiva, comitati, attiviste e attivisti, reti di cittadine e cittadini rappresentano una risorsa cruciale. Sono presìdi democratici capaci di intercettare bisogni, produrre saperi, costruire soluzioni. A Roma, come in molte altre città, esiste un tessuto vivo e consapevole che lavora, studia, si informa e si batte ogni giorno per la difesa dello spazio pubblico, della salute collettiva, per la vivibilità dei quartieri. Queste esperienze, già oggi, sono veri e propri laboratori di innovazione sociale e democratica.
La sinistra potrebbe trovare in esse l’occasione per rigenerarsi, riallacciando un rapporto diretto con il proprio elettorato storico: attivo, consapevole, capace di visione. Lasciarsi guidare da queste energie non significa rinunciare alla leadership politica, ma radicarla nei valori che l’hanno storicamente definita: giustizia sociale, prossimità, uguaglianza.
Perché tutto questo diventi possibile, serve un nuovo patto tra le forze della sinistra, istituzionali e sociali. Un’alleanza che superi logiche divisive, personalismi e strategie escludenti che hanno spesso frammentato il fronte progressista, premiando alcuni attori a scapito di altri nella sempre attuale logica governativa del divide et impera. È questa frammentazione a impedire la nascita di una forza reale dal basso, autonoma ma alleata, capace di farsi motore di una rigenerazione politica, sociale e urbana.
Ricucire i legami, dare ascolto e dignità alle voci dei territori, significa porre le basi per un progetto collettivo che restituisca senso e direzione alla sinistra del nostro tempo. Per tornare a costruire città per tutte e tutti – e con esse, una politica degna di questo nome.