L’INSOSTENIBILITÀ ECONOMICA DELLA FINTA DECARBONIZZAZIONE DELL’EX ILVA.

Tra le tante e legittime argomentazioni in atto e contrarie sul nuovo rilascio dell’AIA all’ex Ilva di Taranto che permetterà la produzione fino a 6 milioni di tonnellate annue di acciaio con il processo a ciclo integrato (o integrale) BF-BOF con agglomerato, cokerie, altiforni, ecc… e sulla promessa di un nuovo processo produttivo definito maldestramente “green” dai proponenti, manca un’analisi sui costi relativi alla cosiddetta “decarbonizzazione” che al momento è prevista solo a parole poiché quello che produrrà lo stabilimento si potrà realizzare solo da come è descritto nell’AIA che al momento non ha nulla di diverso rispetto al modello di produzione a ciclo integrato che è partito negli anni ’60 a Taranto.

In merito alla decarbonizzazione.
Innanzitutto diciamo che di green qui non c’è nulla, c’è ancora una fonte fossile di cui è previsto un aumento di consumo (il gas metano, molto più climalterante della CO2) e un consumo di energia che aumenta anziché diminuire.

E’ importante capire la sostenibilità economica del progetto per comprendere perché il Governo Meloni voglia un rigassificatore a Taranto.

Se la memoria ha ancora un valore, ricordiamo che il piano di cosiddetta decarbonizzazione presentato dal ministro Urso non è tanto dissimile rispetto a quello presentato a marzo 2020 dal Governo Conte II per tramite dei Ministri Gualtieri e Patuanelli.

Piano Conte II – Patuanelli-Gualtieri:

  • Prima fase: 8 milioni di t/a di acciaio prodotte a ciclo integrato.
  • Seconda Fase: (dal 2025) 5,6 milioni di t/a da ciclo integrato e 2,4 milioni di t/a da 2 DRI (alimentati a gas metano) + 1 EAF.
  • Fase finale (dal 2030): 8 milioni di t/a di acciaio prodotte da 4 impianti di DRI + 4 forni elettrici ad arco (EAF) con un possibile impiego di idrogeno verde in mix 80%-20% con gas metano nel forno di pre riduzione e 100% idrogeno nei bruciatori.
    Dai 4200 ai 5200 lavoratori in esubero rispetto agli attuali 10.700 (inclusivo delle 1.500 risorse attualmente in CIGO).
  • Fonte dati: Struttura commissariale ILVA in a.s.

N.B. per proposta dell’ex sottosegretario Turco era previsto anche un ulteriore dissalatore sul Tara ad esclusivo utilizzo dell’ex Ilva in sostituzione della prescrizione AIA che prevedeva il riutilizzo per fini irrigui dei reflui depurati dei depuratori Bellavista-Gennarini per liberare l’acqua “Sinni”, potenzialmente potabile e ad oggi utilizzata dal siderurgico.

Piano Meloni-Urso (Fdi,FI, Lega):

  • Prima fase: 6 milioni di t/a a ciclo integrato.
  • Fase finale (piano A): 6 milioni di t/a con 3 impianti di DRI + 3 forni elettrici + 1 DRI a servizio degli impianti del resto del Paese. Il DRI prodotto sarà pari a 10 milioni di t/a. CCS per cattura CO2 su DRI in loco. Nuova centrale elettrica più potente dell’attuale.
  • Fase finale (piano B alternativo al piano A): 6 milioni di t/a da 3 forni elettrici. Nuova centrale elettrica più potente dell’attuale.
  • Fonte dati: Acciaierie d’Italia in a.s.

N.B. In campo occupazionale Urso ha sempre evitato di dare cifre sul numero dei lavoratori da impiegare nel futuro assetto maldestramente chiamato “green” ma visto la similitudine del piano che tra l’altro prevede un forno elettrico in meno rispetto a quello di Conte II, gli esuberi potrebbero essere addirittura maggiori.

FABBISOGNO ENERGETICO NELLA FASE FINALE DELLE PROPOSTE:

  • Piano Conte II:
    1,3 mld (miliardi) di Nmc di gas metano,
    6,4 mld di Nmc di idrogeno,
    8 TWh/a di energia elettrica da rete.
    Non è stata dichiarata dal Governo Conte II la quantità di energia verde necessaria per produrre idrogeno ma sono andato a calcolarla ed essa è compresa in un range tra i 25 e i 28,8 TWh annui, vi spiegherò il perchè più tardi.
  • Piani Urso:
    Piano A:
    5,1 mld Nmc di gas metano,
    7,6 TWh di energia elettrica interamente prodotta da una nuova centrale elettrica turbogas nel perimetro Ilva.
    Piano B:
    1,3 mld Nmc di gas metano.
    5,4 TWh annui di energia elettrica interamente prodotta da nuova centrale elettrica turbogas nel perimetro Ilva.

CRITICITA’

  • piano Conte II:
    1) L’impossibilità di produrre 6,4 miliardi Nmc di idrogeno verde per l’ex Ilva.
    Per produrre 1 Nmc di idrogeno (più o meno 90 grammi) servono circa tra i 4 e i 5 KWh di energia elettrica (dipende dall’efficienza degli elettrolizzatori) e 72 cl di acqua dolce. Per produrre la quota di 6,4 miliardi di Nmc di idrogeno verde all’anno occorrerebbero tra i 25 e i 28,8 TWh annui da fonti rinnovabili che è un quantitativo enorme, più del doppio dell’attuale produzione di energia rinnovabile in Puglia (12,2 TWh/a nel 2024) e 5,1 miliardi di mc di acqua dolce, difficilmente reperibile sia tecnicamente, sia economicamente. Per l’enorme approvvigionamento energetico non vi furono ipotesi da parte del Governo Conte II che ha sempre evitato questo argomento, perché tutti gli addetti ai lavori a Roma si rendevano conto di quanto impossibile fosse l’impresa.

Inoltre, secondo una stima del Think Tank Ecco del 2022, gli investimenti necessari per stoccare una quantità di idrogeno tale da garantire la continuità di funzionamento di un’acciaieria di queste dimensioni sono tra gli 8,2 e i 8,9 miliardi di euro che potrebbero scendere a 6,2 miliardi di euro se decollasse il mercato dell’idrogeno verde. Tuttavia tale mercato è ancora al palo per diversi motivi legati alla tecnologia, ai costi e alla sua efficienza. Ad esempio da uno Studio dell’EUISS apprendiamo che alla fine del 2023, i costi di produzione dell’idrogeno verde in Europa erano di circa 6,2 euro/kg mentre quelli per l’idrogeno grigio circa 2 euro/kg; le previsioni ipotizzavano che i costi di produzione dell’idrogeno verde sarebbero scesi a circa 3 euro/kg entro il 2030 ma le stime aggiornate indicano che il prezzo dell’idrogeno verde in alcune regioni europee difficilmente scenderà sotto i 5 euro/kg entro la fine di questo decennio.

Inoltre, dove trovare l’enorme spazio per realizzare questi impianti da fonti rinnovabili nei pressi dell’ex Ilva?
Con quali risorse economiche?

Anche qualora si dovesse optare per uno o più contratti di fornitura di energia verde (o contratto PPA, Power Purchase Agreement) di uno o più accordi a lungo termine tra un produttore di energia rinnovabile e l’ex Ilva, questa energia sarebbe sottratta al consumo energetico del Paese per cui avremmo un manco di un quantitativo di energia rinnovabile per il sistema Paese che dovremmo sostituire con fonti fossili. Dovremmo considerare che probabilmente tutto questo piano, oggi e ancora per chissà quanto tempo, potrebbe essere irrealizzabile. Al tempo (2020) a parte il sottoscritto, quasi tutti rimasero in silenzio e assecondarono la propaganda, perchè con la leggenda della “decarbonizzazione” futura, in primis avrebbe addolcito la pillola di altri 10/15 anni di ciclo integrato e infine, qualora fosse stata intrapresa la direzione dell’idrogeno, visto la difficoltà di reperire quello verde, questa avrebbe virato per un altro tipo di idrogeno, ossia quello grigio (o blu visto l’utilizzo previsto di impianti di CSS) avvantaggiandone i produttori come ENI il maggior player in Italia e i relativi co. come SNAM.

2) Costi insostenibili e difficoltà sul mercato.
I costi esorbitanti dell’ordine di 8,2 e i 8,9 miliardi di euro solo per le infrastrutture legate all’idrogeno che si andrebbero ad aggiungere ai costi già stimati dalla struttura commissariale nel 2020 di 5,4 miliardi di euro in 5 anni per i 4 impianti di DRI, i 4 forni elettrici, e il progressivo mantenimento/cessazione e trasformazione degli impianti a ciclo integrato. Arrotondiamo per difetto a 15 miliardi di euro. A ciò andrebbero aggiunti ulteriori costi come quelli per la costruzione/manutenzione e alimentazione dell’ulteriore dissalatore proposto nel 2020 da Turco. I dissalatori sono impianti notoriamente energivori che hanno bisogno di una manutenzione puntuale.
Ulteriori costi da aggiungere sono quelli legati all’utilizzo del gas, 1,3 miliardi di Nmc di gas metano da rete nazionale. Una stima precisa del costo del gas per le industrie gassifore (come gli impianti di DRI) tra oltre 10 anni è praticamente un azzardo perchè noi tutti abbiamo constatato sulla nostra pelle la volatilità del costo del gas che dipende dai mercati quotati in borsa e da fattori geopolitici ma possiamo azzardare a riconoscere, (su base di contratti a lungo termine già in essere, al netto di accise, sconti per i gassifori, agevolazioni, ecc…) un costo annuo non lontano dal mezzo miliardo di euro all’anno, non male per le esigenze di Trump.

Il Governo Conte II ha stimato nella conversione al ciclo “green” con idrogeno verde comporterebbe, ottimisticamente, un aumento dei costi per la produzione di acciaio del 50-60% vs. ciclo integrato, invece con gli impianti di DRI e i forni elettrici l’aumento del costo stimato dell’acciaio sarebbe, sempre molto ottimisticamente, tra il 10% e il 15% svantaggiando il prodotto finito sul mercato. Queste stime sono state fatte precedentemente gli eventi che hanno portato aumenti del costo del gas a seguito del conflitto Ucraino con il TTF che è schizzato alle stelle.

3) Forza lavoro più che dimezzata.
Abbiamo detto dai 4200 ai 5200 lavoratori in esubero rispetto agli attuali (anno 2020) 10.700 inclusivo delle 1.500 risorse attualmente in CIGO. Non è certo la tenuta occupazionale che preoccupa i Governi.

  • Piano Urso, ipotesi A e B.
    Piano A
    1) : L’insostenibilità economica e la necessità di un rigassificatore dedicato a prezzi calmierati.
    Abbiamo già detto che il costo di produzione a tonnellata di acciaio di un processo DRI+EAF è superiore al BF-BOF per via degli enormi quantitativi di gas metano impiegato. Non a caso, in Europa il DRI non viene utilizzato da nessuno (a parte qualche piccolissimo impianto dimostrativo) a causa dell’ingente costo legato al consumo di imponenti quantitativi di gas metano che rendono il processo non economicamente sostenibile. In effetti il DRI nel mondo viene prodotto principalmente in Paesi che hanno enormi disponibilità di gas metano nel sottosuolo e possono impiegarlo a costi estremamente bassi.
    Proprio sul costo del gas metano possiamo comprendere l’antieconomicità del Piano di Urso che ricordiamo prevede un consumo annuo di ben 5,1 miliardi di Nmc di gas con un costo che potrebbe essere ricompreso approssimativamente tra gli 1,5 e i 2 miliardi di euro all’anno. Come ovviare a questo prima problema economico del costo del gas?
    Il rigassificatore dedicato: ancora una volta, ignorando i rischi di incidente rilevante dovuti sia al rigassificatore in sè che alla presenza di altre industrie limitrofe soggette alle direttive Seveso, gli inquinanti rilasciati in acqua, ecc.. il Piano Urso propone un rigassificatore a Taranto dove già nel 2008 fu bocciato dal Ministero dell’Ambiente in sede di VIA per l’estrema vicinanza con la raffineria ENI (avete presente le enormi fiaccole che si liberano in cielo?) e mancanze progettuali affinché si prevenissero, tra gli altri, incidenti in seguito ad un possibile Tzunami.
    L’unica logica che può partorire questa decisione malsana può trovare una logica contorta nel calmierare il costo del gas spostando parte dei costi di acquisto del GNL su un altro soggetto che molto probabilmente sarà pubblico, ossia con i soldi dei cittadini, e sarebbe interessante capire anche come lo vorranno fare senza inciampare negli aiuti di Stato. Altrimenti, al netto dei servilismi verso l’amministrazione Trump, non avrebbe alcun senso un nuovo rigassificatore visto che già l’attuale capacità di trasporto e stoccaggio di gas metano in Italia è ben al di sopra dei consumi effettivi. Inoltre la rete nazionale dei gasdotti ha una capacità elevata di arrivo e transito di gas metano a Palagiano e Massafra dove si incrociano diversi gasdotti. Pensate che l’interconnessione TAP in salento, 10 miliardi di smc annui, ha un diametro nominale di 1400. I gasdotti nei pressi di Palagiano-Massafra di categoria specie 1a che potrebbero essere interessati dal fornire GAS all’Ilva sono il Massafra-Biccari diametro nominale 1200 , Palagiano-Brindisi 450, Bernalda-Palagiano 500, Bernalda-Brindisi 1050. Al limite occorrerebbe l’adeguamento della Rete Regionale da Palagiano all’ex Ilva, una ventina di km, per fornire il gas sufficiente al DRI. Il rigassificatore proposto dal Governo Meloni ha da una parte la funzione di fornire presumibilmente gas a prezzi calmierati e dall’altra di continuare ad essere ancor più dipendenti da un Paese estero, non mi meraviglierebbe che questo GNL arrivasse dagli USA. Certo è che se il Comune di Taranto pressasse un po’ il Ministero dell’Ambiente, magari la nuova Area Marina Protetta delle Isole Cheradi (stabilita in legge di bilancio 2020 dello Stato ma attualmente in stasi per inerzia delle amministrazioni competenti) potrebbe manifestarsi un ulteriore vincolo per bloccare il rigassificatore. Sta di fatto che questo Piano A non è decarbonizzazione e non è green.

Piano B:
1) : Un “non sense” ma sicuramente meno impattante dal punto di vista ambientale. L’inquinamento non sparirebbe, anzi, anche gli EAF inquinano ma il punto è che senza DRI i forni elettrici non produrranno qualitativamente lo stesso tipo di acciaio del ciclo integrato.
Se da una parte il Piano B (forni elettrici senza DRI) è sicuramente meno impattante perchè ha un’impronta ecologica significativa ma nettamente inferiore (Piano B: 1,3 mld Nmc di gas metano e 5,4 TWh di energia elettrica vs Piano A: 5,1 mld Nmc di gas metano, 7,6 TWh di energia elettrica) questo piano rappresenta uno specchietto per le allodole in quanto l’acciaio da Forno Elettrico EAF non è qualitativamente paragonabile a quello da Altoforno che è nettamente più performante in diversi utilizzi. L’EAF ha invece un acciaio qualitativamente simile a quello da altoforno solo quando viene impiegato il preridotto, ossia il materiale prodotto dagli impianti DRI. Inoltre in Italia la produzione di acciaio da EAF certamente non manca visto gli attuali impianti sparsi per tutto il territorio nazionale e infatti non è la produzione EAF che rende l’ex Ilva “speciale” agli occhi dello Stato. La presunta strategicità definita dai governi per l’Ilva è dovuta proprio al tipo di acciaio che producono gli altoforni, non replicabile con i forni elettrici se non con l’uso di DRI. Che poi, a dirla tutta, in Europa gli impianti DRI si contino sulla punta delle dita e sono di dimensioni minuscole, questo lo si deve al costo del gas; infatti l’acciaio da preridotto è prodotto quasi unicamente in nazioni (principalmente in Asia e Sud America) dove il costo del gas è bassissimo perché hanno enormi giacimenti a disposizione ma come ben sappiamo, questo non è il caso dell’Italia. Quindi l’unica opzione possibile con questi EAF e che gli impianti di DRI vengano costruiti altrove e che poi giungano a Taranto i lingotti di preridotto; tuttavia questa scelta farebbe aumentare i consumi energetici (e quindi anche i costi) perchè il preridotto arriverebbe freddo, una lavorazione meno efficiente e più dispendiosa rispetto al preridotto appena prodotto da un DRI che arriva “caldo” in un EAF. Anche questo Piano B non è decarbonizzazione e non è green.

La propaganda sul finto “green” serve a talune forze politiche per far ingoiare il boccone amaro dell’AIA a ciclo integrato, in modo tale che si dica che in futuro il problema dell’inquinamento non ci sarà più. La realtà è che questo ciclo integrale così imponente, in un territorio che ha già matrici ambientali irrimediabilmente compromesse, non potrà mai essere compatibile con la salute e l’ambiente.

A cosa serva questo acciaio da altoforno tanto da essere ritenuto strategico, nessuno lo ha mai dichiarato apertamente con dati alla mano, ma solo indicando alcuni clienti, ma in un mondo dove i conflitti e le guerre muovono l’economia e la politica, dedurre che sia utilizzato anche per gli armamenti non è un’intuizione così peregrina.

N. di Redaz. – Queste interessanti note di analisi di piani sul presente e sul futuro per l’Ilva di Taranto pongono un problema serio e generale, cioè uscire dai binari della “libera concorrenza di mercato” dipende dalla volontà e dagli obiettivi dei decisori politici. A mio avviso questa analisi visualizza come non c’è una uscita sociale da questo mercato stante le condizioni generali e delle scelte non solo nazionali, ma anche EU e non solo. Si può scrivere un futuro diverso per chi ci lavora e per gli abitanti che la subiscono ? SI

Però solo a patto di un cambiamentom generale sociale dove il bene comune centrale di ogni decisione non è quale merce produco ne come la produco dentro il mercato globale, ma cosa davvero serve alle persone del territorio e quale esigenze ha la vita degli italiani. Sembra un discorso retorico fatto su una riflessione teorica, ma serve arrivare ad avere almeno organismi di democrazia applicata dove il parere dei cittadini è almeno importante quanto quella di un ministro o del CEO di un impresa.

Oggi non c’è questa possibilità e abbiamo un piano che mentre crea ancora dipendenza dall’energia fossile soprattutto americana, butta risorse in un piano folle e divide i dipendenti e gli abitanti con una guerra fra poveri in un meridione devastato da industrie inquinanti, da ladroni stranieri cui non frega nulla della salute, ministri italiani compresi. In questa società non c’è riforma che tenga banco per l’Ilva o cambia tutta l’impostazione o non cambia nulla, mentre ci indebitiamo a buttare miliardi in opere negative che si spiegano, come dice bene nella sua analisi Giovanni, solo con la volontà di fare di questa fabbrica un punto di forza del militarismo, non altro. Scegliere l’energia ecosostenibile o no è il perno di tutta la trasformazione o conservazione che avverrà. Gianni G., Savona

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.