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Simone Gallotti
- Simone Gallotti 5 agosto 2025
Ultimo aggiornamento 5 agosto 2025
“Il lavoro sul nucleare a terra ha delle priorità e delle specifiche e completamente diverse. Si tratta di rendere velocemente disponibili piccoli reattori di terza generazione da 300 megawatt, privilegiando il più possibile ciò che è pronto“
«Utilizzando un’espressione un po’ romantica, l’Italia ha capito che è bene lucidare i gioielli di famiglia per presentarli al meglio sul mercato internazionale non solo per scopi industriali, ma anche più ampi».
Pierroberto Folgiero ha appena incassato una semestrale molto positiva: i numeri sono in crescita anche per il futuro e l’ad di Fincantieri non nasconde che il ruolo del colosso navalmeccanico italiano sia ora diventato anche geopolitico, come forse mai nella storia del Paese.
Partiamo dalle sfide. Come intendete bilanciare la produzione militare e quella civile delle crociere?
«Noi gestiamo cantieri che sono già dedicati in modo distinto alle due diverse produzioni, quella militare e quella civile. Ma il sistema Fincantieri consente anche una maggiore flessibilità: abbiamo altri siti produttivi che sono versatili, ibridi, in grado cioè di realizzare entrambi i prodotti, a seconda della domanda del mercato. E questo ci rende praticamente unici: gestiamo infatti un sistema di cantieri che garantisce grande flessibilità. Quindi abbiamo nella zona della Spezia l’anima e le competenze delle costruzioni militari, mentre a Genova la parte di concept, ingegneria e impostazione, oltre alla costruzione del civile affidata a Sestri Ponente. L’Adriatico è invece super specializzato nel cruise con Monfalcone, Marghera e Ancona. La flessibilità di cui parlavo prima è assicurata invece da Castellammare e Palermo che possono supportare a seconda delle esigenze, sia il civile che il militare».
E poi c’è l’estero…
«Se allarghiamo l’orizzonte possiamo contare anche sui bacini in Romania che già oggi producono tronconi per le navi da crociera che vengono poi finalizzati in Italia. Secondo noi è questo il modo migliore per seguire le dinamiche della domanda e ottimizzare gli slot».
Ma quindi Castellammare e Palermo non saranno dedicati solamente alla difesa?
«Dipende dalla domanda di questo settore. Più è alta, maggiore sarà l’aumento della capacità produttiva. A questo va aggiunto un fattore: è chiaro che la nave militare non si può costruire all’estero. Va realizzata in Italia, per una serie di ragioni evidenti. Ecco come entrano in gioco Castellammare e Palermo: se per effetto di una domanda altissima il polo ligure di Muggiano-Riva Trigoso viene completamente saturato, allora aumentiamo il peso del militare negli altri due cantieri “ibridi”» .
Beh non è difficile prevedere che la domanda sul militare sarà piuttosto alta…
«Dipende anche dall’export. Mi spiego: se vinco una gara per la fornitura di tante nuove navi militare per un altro Paese, allora è possibile che il piano di attivi. Perché nel frattempo ho comunque necessità di alta capacità produttiva in Liguria per le navi della nostra Marina. Il vantaggio di Castellammare è che è già pronto per uno switch civile-militare in tempi rapidi. In ogni caso, per essere chiari, il nuovo piano industriale prevederà un aumento della capacità produttiva militare, con la strategia che ho appena descritto. E questo cambia anche gli equilibri del nostro cantiere in Romania: dovrebbe aumentare la produzione di tronconi per il cruise».
Questo sistema flessibile è in grado anche di assorbire la fame di navi da crociera? I numeri indicano una necessaria espansione della flotta cruise.
«Certamente. Va comunque sempre ricordato che il nostro è un business di cicli, fatto di sovraccapacità e sottocapacità. Aumentare la capacità produttiva vuole dire che si ha la certezza che la sottocapacità non sia contingente, ma sia strutturata. Ecco, se questa condizione dovesse verificarsi, saremo sicuramente pronti».
Lei ritiene che sia strutturale?
«Beh, lo capiremo a breve. Non appena cioè tutti i cantieri si saranno saturati per un orizzonte temporale idoneo e quando la capacità di investimento sarà persistente. Sicuramente il trend è incoraggiante: non c’è un cap al numero di crocieristi. I turisti nel mondo sono miliardi e di questi “solo” 45 milioni vanno per nave. La capacità di penetrazione è altissima. Per questo le compagnie stanno accelerando sui piani di segmentazione del mercato, con target sempre più precisi, per offrire un prodotto quasi taylor made in grado di portare sempre più persone a bordo».
Quale sarà la nave da crociera del futuro?
«Noi puntiamo molto sulla nave digitale, e sempre più ispirati da questo progetto. Perché porta con sé alcuni concept vincenti. Intanto la possibilità di essere aggiornata costantemente. Mi spiego: servono tre anni per costruire la nave e la tecnologia a bordo, una volta realizzata l’unità, è giocoforza obsoleta. La possibilità di un upgrade costante elimina questo problema. Seconda carta vincente: l’aperta a terze parti. La nave è come Android, quindi qualunque soluzione di terze parti può essere integrata. Non c’è quindi la pretesa di costringere e chiudere il cliente nelle proprie soluzioni. Terzo capitolo: le nostre competenze che stiamo trasformando, in sintesi, in una app. Quello che abbiamo sviluppato, ad esempio, sull’ottimizzazione dei consumi, si interfaccia con tutti i sottosistemi di automazione della nave. Lo stesso vale per la manutenzione e ancora di più per quella predittiva. Si tratta nel complesso di prodotti che avevamo sviluppato a prescindere e che adesso stanno formando la nostra Navis Sapiens. Stiamo popolando questo cervello vuoto, cominciamo quindi a educarlo con le nostre competenze core che in parte sono in Cetena, in parte sono in Issel Nord che si occupa delle manutenzioni. E tutto questo lo stiamo trasformando in un un’app che si carica sulla piattaforma. Ed è anche un modo per capitalizzare il grande lavoro già fatto sul militare. E questa è l’altra parte interessante di Navis Sapiens: la contaminazione tra il modello di business militare e quello civile».
E poi la propulsione. Alla ricerca sempre più spinta del green.
«Usiamo l’idrogeno liquido stoccato a bordo per produrre direttamente energia in celle combustibile fredde, e questo dal punto di vista tecnico è già una grande conquista: perché l’idrogeno deve essere stoccato a meno 262 gradi celsius. Poi abbiamo una seconda soluzione: non si carica idrogeno sulla nave, ma si parte dal gas liquefatto che viene convertito direttamente a bordo in idrogeno e questo alimenta celle a combustibile a caldo di nuova generazione. Fincantieri sul mondo dell’idrogeno ma anche sugli altri carburanti green come il metanolo, negli ultimi tre anni ha messo in campo accelerazioni molto importanti».
E poi c’è il nucleare. È una rotta percorribile?
«È l’endgame di qualunque transizione energetica, con un punto di forza e un punto di debolezza. La forza: risolve a monte il problema. Basta immaginare una nave che per vent’anni non fa carburante… Un concetto che cambia tutto sia dal punto di vista logistico che commerciale. Il fattore negativo invece è che il nucleare è sempre una marcia, una lunga marcia. Però si tratta di una prospettiva così trasformativa e così evidente che certamente arriverà sul mercato. Certo, bisogna capire quando arriverà e quanto costerà, però è così trasformativo che non si può non avere una road map del nucleare a mare, in un Paese come il nostro che è un’economia marittima. In un’azienda come Fincantieri che è il più grande costruttore di navi complesse dell’Occidente. E siamo partiti della consapevolezza che questa roadmap del nucleare a mare non deve assolutamente essere a valle del lavoro che si sta facendo sul “nucleare a terra”».
Cosa significa?
«Il lavoro sul nucleare a terra ha delle priorità e delle specifiche e completamente diverse. Si tratta di rendere velocemente disponibili piccoli reattori di terza generazione da 300 megawatt, privilegiando il più possibile ciò che è pronto, perché non c’è tempo, ne abbiamo perso abbastanza. Se pensiamo che questo modello sia applicabile anche al mare, commetteremmo un grande errore. Quindi Fincantieri si è presa un po’ questa responsabilità e sta scrivendo la roadmap del nucleare a mare».
Cosa prevede questa roadmap?
«L’idea che ci siamo fatti è abbastanza ovvia: siccome servono reattori più piccoli da 20-30 megawatt, non possiamo basarci sulla terza generazione. Non possiamo cioè affidarci a ciò che oggi è già pronto, ma dobbiamo scegliere la quarta generazione. E dobbiamo anche bene valutare le implicazioni geopolitiche che sono gigantesche. Pensiamo alla sovranità tecnologica e alla disponibilità del combustibile: due temi completamente diversi, molto complessi, ma che vanno tenuti in conto quando questo scenario si materializzerà»
Cosa rende la quarta generazione migliore per il nucleare del mare?
«Consente reattori nucleari piccoli da 20 megawatt che quindi si prestano ad un utilizzo in ambito marittimo. E poi è molto valida anche per la sicurezza intrinseca. La quarta generazione al piombo a differenza della terza è chimicamente sicura, nel senso che il liquido refrigerante, e l’Italia ha un vantaggio tecnologico su questo fronte, in caso di emergenza il piombo liquido si solidifica, semplificando è come se tombasse il reattore. Poi la disponibilità del combustibile: invece dell’uranio, che si porta dietro tutti i temi giganteschi della disponibilità e quindi dei rapporti geopolitici, la forza di questa tecnologia è che riusa gli scarti dei reattori tradizionali, il plutonio. È come se fosse l’economia circolare del nucleare»
Ma l’orizzonte temporale qual è?
«Ecco, il difetto del nucleare è questo: arriverà sicuramente, sarà certamente un game changer, ma i tempi e i costi di queste nuove tecnologie, sono difficilmente valutabili. Le valutazioni aggiornate dicono una decina d’anni. Dipende da quanto il mondo intende correre seriamente verso la decarbonizzazione. I problemi ambientali si acuiranno, forse il timore di pensare che non è stato fatto abbastanza e che le rinnovabili da sole non sono sufficienti, potrebbe far cadere il tabù del nucleare e dare una forte spinta. Ma come vede ci sono tante variabili».
Parliamo del settore: dei big three europei – voi, Chantiers de l’Atlantique e il gruppo Meyer Werft – l’anello debole oggi sono i tedeschi. Ritiene che questo possa portare a cambiamenti nel risiko delle proprietà?
«Io non sono mai stato convinto che tra concorrenti abbia valore il concetto “Mors tua, vita mea”. Preferisco di gran lunga un mercato sano, perché clienti e concorrenti malati fanno male a tutti. Auguro sempre il bene dei miei concorrenti, perché vuol dire che fa bene anche a noi. E questo vale anche per Meyer Werft, un gruppo che ha sofferto e ora è entrato in questa nuova fase, con una nuova gestione e per quello che ci risulta, ora si sta rimettendo in rotta. Mi auguro che trovi l’azionista giusto».

A voi non interesserebbe diventare soci dei tedeschi?
«Guardi, noi siamo su un percorso di crescita organica formidabile, come si vede dai numeri della semestrale. La crescita organica, che per me è il modo più bello per crescere, è anche la più adatta per il nostro business che è difficile, duro per certi versi. E soprattutto nel nostro settore i passi più lunghi della gamba non hanno mai pagato. Noi vogliamo una crescita sana, non bulimica. La bravura è riuscire a soddisfare i clienti, è questo l’obiettivo».
Traghetti made in Italy: è possibile o è una follia?
«È chiaro che se guardiamo ai costi e li confrontiamo con i cantieri asiatici, non possiamo competere. Ma se ci fosse una politica di sostegno di respiro europeo, potremmo guadagnare una fetta significativa di quel mercato, sfruttando proprio il sistema flessibile che Fincantieri è in grado di garantire. Noi abbiamo cantieri anche in altre parti d’Europa, e penso alla Romania, dove grazie ad una strategia Ue per il settore, si potrebbe pensare di dare vita ad una nuova stagione che garantisca la produzione di traghetti made in Europe».
Usa, Asia, Golfo, underwater… Fincantieri non è solamente un attore industriale per quanto grande. Mai come in questo momento il gruppo ha un peso “politico” enorme su diversi scacchieri decisivi per il Paese.
«Ora l’Italia mette in vetrina i settori su cui primeggia e tra questi c’è la cantieristica navale. In America, ad esempio, è diventata un argomento centrale. L’India ha messo il nostro settore tra le priorità, perché si sente un potenziale partner dell’Occidente, una valida alternativa alla Cina anche sulla produzione navale. Ora sta rifiorendo la cantieristica anche in Europa, trainata soprattutto dal militare e cantieri sofferenti stanno ricevendo supporto pubblico, come avviene in Olanda e in Germania, dove avvertono la guerra molto più di noi.
Noi stiamo lucidando bene i gioielli di famiglia: erano finiti fuori moda, ma adesso sono tornati in auge. Per lucidarli bene però va anche investito sul fronte delle infrastrutture: si è sempre investito pochissimo, ma abbiamo bisogno di bacini. In definitiva: noi negli ultimi tre anni abbiamo cominciato a giocare a giocare all’attacco. E i risultati sono arrivati».