Dal blog https://jacobinitalia.it/
Branko Marcetic 9 Agosto 2025
Che i leader mondiali improvvisamente vogliano riconoscere lo Stato palestinese indipendente sembra una cosa ottima. Ma il loro rifiuto di fare qualcosa di concreto per fermare il genocidio rende la questione irrilevante
La creazione di uno Stato palestinese è una questione importante. Non si può avere la tanto decantata «soluzione dei due Stati» senza uno Stato palestinese, e Israele e la sua lobby statunitense hanno combattuto duramente contro la sua realizzazione, di cui l’espressione forse più famosa fu la pressione esercitata su Barack Obama per abbandonarne la candidatura alle Nazioni unite nel 2011. Proprio l’anno scorso, il governo degli Stati uniti ha nuovamente posto il veto al tentativo di portare la questione al voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni unite, ovvero di far votare tutti gli Stati del mondo per decidere la questione, cosa che i palestinesi avrebbero facilmente ottenuto, dato che 140 dei 193 paesi membri dell’Onu riconoscono già la Palestina.
Quindi, la recente spinta da parte di governi in gran parte filo-israeliani a riconoscere lo Stato palestinese – lanciata sulla scia dell’indignazione globale per la terribile carestia che Israele ha allestito a Gaza – dovrebbe essere una buona notizia. Francia, Canada e Regno Unito hanno annunciato che riconosceranno lo Stato palestinese a settembre, seppur a delle condizioni. L’Arabia Saudita, che ha fatto della normalizzazione delle relazioni con Israele un pilastro della sua attuale politica estera, sta agendo nella stessa direzione proprio in queste settimane, sostenuta dall’intera Lega Araba, dall’Unione europea e da altri diciassette paesi. Negli Stati uniti, dove i palazzi del potere di entrambi gli schieramenti sono sempre stati particolarmente ostili ai palestinesi, più di una dozzina di Democratici alla Camera hanno firmato una lettera che esorta l’amministrazione di Donald Trump a fare lo stesso.
Perché, allora, la spinta verso la creazione di uno Stato palestinese sembra così vuota?
Forse perché, per quanto benvenuto e necessario sia questo riconoscimento, non sembra una priorità nemmeno lontanamente urgente. Gaza sta attraversando una carestia in cui il 100% della popolazione soffre di insicurezza alimentare e quasi un quarto della sua popolazione prebellica sta soffrendo la sua forma più grave e catastrofica, perché il governo israeliano sta deliberatamente bloccando l’arrivo degli aiuti e ha quasi completamente distrutto le infrastrutture e l’ecosistema naturale che il territorio potrebbe utilizzare per nutrirsi. Per la maggior parte dei cittadini di Gaza, l’unico modo per ottenere cibo è tramite le consegne di aiuti israeliani, sia tramite sporadici lanci aerei che a volte uccidono e feriscono le persone su cui atterrano, sia tramite la manciata di punti di soccorso sul campo che sono diventati sadici e quotidiani poligoni di tiro.
Anche se domani Gaza ricevesse aiuti e forniture mediche massicce – cosa che non accadrà – migliaia, forse decine di migliaia di bambini sarebbero comunque destinati a morire di fame in modo lento, doloroso e raccapricciante nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, quella che il presidente di Refugees International ha avvertito essere una «morte per fame su larga scala» che sarà irreversibile.
Nel frattempo, Israele è sul punto di annettere i Territori che dovrebbero formare un futuro Stato palestinese. Il suo parlamento ha appena votato a larga maggioranza l’annessione della Cisgiordania, che di fatto non farebbe altro che formalizzare quella che è già la realtà sul campo. Allo stesso tempo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta già lavorando per prendere il controllo totale di Gaza, possibilmente con il progetto di un’annessione completa, inclusa l’occupazione militare di circa un quarto del territorio che Israele non controlla ancora, in quella che un funzionario ha definito una «conquista totale», un piano che comporterà infine l’espulsione della popolazione palestinese rimanente in un gruppo di paesi a caso.
Nel frattempo, l’esercito israeliano ha continuato a massacrare palestinesi a decine ogni giorno con bombardamenti e sparatorie. Nelle ultime due settimane, dal 24 luglio al 6 agosto – un periodo non poi così cruento per questa guerra – è stata uccisa una media giornaliera di settanta palestinesi. Incredibilmente, più della metà di queste morti riguardava persone che si trovavano o si dirigevano verso i siti di soccorso per procurarsi cibo, uccise al ritmo di trentotto al giorno. Il numero totale di persone uccise da Israele mentre cercavano aiuti ha già superato il bilancio iniziale del 7 ottobre, quello che ha giustificato tutto questo (e che in seguito si è rivelato sovrastimato).
Sembra davvero assurdo, francamente, che di fronte a tutto questo, la soluzione dei paesi più potenti sia la minaccia di una misura per lo più simbolica che arriverà tra un mese.
Difficile non essere cinici
In ordine decrescente di urgenza, la priorità in questo momento è costringere Israele ad aprire il confine a una valanga di aiuti e operatori umanitari, impedirgli di portare avanti i suoi piani di rioccupazione di tutta Gaza, costringerla a porre fine in modo permanente alla guerra unilaterale e poi iniziare il lungo e monumentalmente costoso sforzo per ripulire gli almeno trentanove milioni di tonnellate di detriti velenosi rimasti e ricostruire Gaza.
Ecco tutti i prerequisiti fondamentali affinché un futuro Stato palestinese diventi una realtà concreta. E si potrebbe, e probabilmente si dovrebbe, aggiungere a questa lista l’annullamento di tutte le misure legali e pratiche adottate dal governo israeliano negli ultimi due anni per rendere impossibile che ciò si ripeta, tra cui l’espulsione di massa dei coloni illegali dalla Cisgiordania e il ritiro delle truppe israeliane da entrambi i Territori.
Riconoscere uno Stato palestinese – con la piena consapevolezza che tale mossa incontrerà comunque il veto dell’amministrazione Trump – non determina nulla di tutto ciò: non permetterà l’ingresso degli aiuti, non porrà fine alla guerra e non fermerà i tentativi di Netanyahu di occupare militarmente Gaza in modo permanente e di sbarazzarsi dei palestinesi ancora vivi lì. Possiamo dirlo con certezza, perché nel tempo trascorso dai vari annunci dei leader occidentali, il comportamento di Israele non è cambiato affatto.
Il fatto che la mossa venga proposta per settembre rende il tutto ancora più crudele, dando a Netanyahu e all’esercito israeliano almeno un mese in più per continuare a far morire di fame i bambini, massacrare civili impunemente e annettere territori palestinesi. L’assurdità finale è che si tratta degli stessi paesi che continuano a inviare a Israele gli aiuti militari fondamentali per la sua capacità di portare avanti la guerra.
Un’interpretazione generosa del riconoscimento dello Stato palestinese è che si tratti di una minaccia per la leadership israeliana tale da fare di tutto per impedirlo, incluso porre fine al genocidio e all’annessione dei Territori palestinesi. Scommettendo sul fatto che gli israeliani non vogliano trovarsi nella situazione in cui proseguire con i loro piani li porrebbe in aperta e sfida all’opinione pubblica mondiale e alle Nazioni unite.
Se questo è il ragionamento, è ingenuo al punto da sembrare illusorio. Solo negli ultimi due anni, Israele ha stabilito un record uccidendo centinaia di membri del personale delle Nazioni unite, attaccando deliberatamente e ripetutamente i caschi blu, attaccando e distruggendo scuole Onu, complottando con successo per indebolire l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, che ha ufficialmente designato come organizzazione terroristica, e accusando ritualmente le Nazioni unite di antisemitismo e attaccandole verbalmente in vari modi. Questo quando non minacciava i procuratori della Corte penale internazionale in una campagna intimidatoria finalizzata a far sparire le accuse penali contro i suoi funzionari.
Sembra un paese a cui importa dell’opinione pubblica mondiale o di ciò che pensa l’Onu?
È difficile non essere cinici e sospettare che questa improvvisa spinta verso la creazione di uno Stato palestinese sia solo un modo nuovo e creativo per i leader mondiali di continuare a evitare di fare qualsiasi cosa per fermare lo sterminio di massa da parte di Israele. L’opinione pubblica in tutto il mondo si è decisamente schierata contro le azioni di Israele, e c’è una crescente consapevolezza di quanto tutto questo possa apparire grave tra qualche anno, per non parlare di decenni.
Dire di aver tentato di riconoscere lo Stato palestinese consente di affermare di aver fatto qualcosa di nettamente pro-palestinese per il bene dell’opinione pubblica e dei posteri, pur sapendo che ciò non porterà a nessuna reale restrizione per Israele. E così facendo, si evita di adottare le misure effettivamente necessarie, ma politicamente rischiose, per porre fine a questo orrore, ovvero un embargo sulle armi o sanzioni economiche e diplomatiche.
Pensate che sia troppo duro? Basta guardare cosa ha detto il governo britannico, attualmente entusiasta di uno Stato palestinese, quando ha avuto la possibilità di votare a favore solo un anno fa, ma ha rifiutato: «Il riconoscimento dello Stato palestinese non dovrebbe avvenire all’inizio di un nuovo processo», ma piuttosto «dobbiamo iniziare con la risoluzione immediata della crisi a Gaza». Oa la sua posizione naturalmente è opposta: invece di iniziare con la risoluzione immediata della crisi a Gaza, il mondo dovrebbe prima riconoscere lo Stato palestinese. Tra un mese, quando si voterà, non sarebbe affatto sorprendente se ricominciassero daccapo questo gioco.
È stupendo che i leader mondiali vogliano improvvisamente rendere realtà uno Stato palestinese indipendente. Ma il loro rifiuto di frenare Israele sta rendendo la questione irrilevante. In realtà, sono sulla buona strada per riconoscere uno Stato il cui territorio sarà interamente proprietà di un altro paese o che sarà libero da qualsiasi palestinese vivente.
*Branko Marcetic fa parte dello staff di Jacobin ed è autore di Yesterday’s Man: The Case Against Joe Biden. Questo articolo è uscito su Jacobin Mag, la traduzione è a cura della redazione.