Niente testimoni: a Gaza giornalisti palestinesi bersaglio

Dal blog https://www.remocontro.it/

Niente testimoni. Tra loro il volto più noto di Al-Jazeera, Anas al-Sharif, da tempo nel mirino. Dall’Onu all’Ue, condanne globali: «Tel Aviv prova a liberarsi di occhi e orecchie in vista della conquista di Gaza City». La parte nobile del nostro mestiere oltre il servilismo

Giornalista, mestiere nobile se libero

Ho fatto il giornalista per una vita ed insisto anche in vecchiaia. Prima, quando ancora la Rai aveva intenti diversi, ha frequentato molti scenari di guerra. Nella Sarajevo assediata ero sostenitore del giubbotto anti proiettile sotto la giacca a vento per non istigare i cecchini al colpo grosso con un giornalista nel loro carniere. L’ho proseguito in Medio Oriente, Iraq, Afghanistan e Libano. Ma Gaza ora essere giornalista è diventata minaccia militare e ogni arma per ammazzarci e tapparci la bocca è buona.

Testamento

«Gaza è quel luogo del mondo dove i giornalisti fanno testamento. Un ultimo messaggio, professionale e umano, perché da lasciare ai propri figli non hanno più niente. Lo fanno perché sono obiettivi dichiarati della macchina da guerra israeliana. Anas al-Sharif era da tempo nelle liste dei most wanted del governo israeliano», piange Chiara Cruciati sul manifesto.

Anas al-Sharif

Aveva un mirino puntato addosso, il grilletto è stato premuto domenica sera: una bomba ha centrato la tenda della stampa fuori dall’ospedale al-Shifa di Gaza City. Ha preso fuoco. I soccorritori, gente disperata che correva gridando i loro nomi, ha trovato i corpi semi-carbonizzati, sfigurati. Anas al-Sharif e Mohammed Qreiqeh, corrispondenti di al-Jazeera, Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal, Mosaab Al Sharif e Mohammed al-Khalidi, cameraman e fotografi: le ultime sei vittime del giornalisticidio in corso a Gaza.

Giornalisticidio

Sono almeno 238 i lavoratori dell’informazione ammazzati dall’esercito israeliano. Ieri una folla enorme li ha sepolti avvolti nei lenzuoli bianchi. Sopra, hanno poggiato una bandiera della Palestina e i giubbotti con su scritto «Press». Dovrebbero fare da scudo e invece sono una calamita di morte. Sui social e in tv i colleghi hanno riversato un dolore difficile da spiegare a parole. L’anchorman di al-Jazeera chiamato a dare la notizia singhiozzava. Mahmoud Abu Salam è scoppiato in lacrime mentre raccontava dei «compagni di guerra e genocidio», di Anas «una colonna, una montagna, del campo profughi di Jabaliya» e del «mondo che sta a guardare quello che ci stanno facendo».

«Noi che non siamo ancora stati seppelliti, continueremo a fare informazione», ha detto a descrivere un destino che immagina già segnato.

Massacri di massa

Hani Mahmoud, collega di al-Jazeera, era a poca distanza, ha sentito l’esplosione: «È la cosa più difficile per me da raccontare in 22 mesi». C’è chi ha condiviso il loro lavoro, tra la gente di Gaza, a due passi dalle esplosioni, dentro le corsie degli ospedali e in quei campi di massacri di massa che sono i centri di distribuzione degli aiuti alimentari della Ghf. Tutti loro hanno perso peso, sonno, tempo per i figli, pezzi interi di famiglie: in un video si vede al-Sharif abbracciare il collega Noufal in ginocchio, in lacrime, accanto al corpo della madre, uccisa qualche mese fa.

Ci scopriamo comunità

«La scomparsa di Sharif, il volto più noto del giornalismo palestinese di Gaza, successore morale di Wael Dadouh, ha straziato una comunità intera. Come fosse un sintomo, un’avvisaglia: siamo al punto di non ritorno, il massacro sarà totale, e invisibile». Anas aveva 28 anni e due figli piccoli. Non li vedeva quasi mai. Nel suo testamento si è rivolto a chi quelle righe le avrebbe lette dopo la sua morte: gli ha affidato la Palestina «cuore pulsante di ogni persona libera nel mondo» e la figlia Sham, il figlio Salah e «la mia compagna di vita, mia moglie Bayan, rimasta salda come il tronco di un ulivo che non si piega…Vi esorto a non lasciarvi mettere a tacere dalle catene o confinare dalle frontiere. Siate ponti verso la liberazione della terra e del suo popolo».

L’eroe letto del nemico

Sui social è apparso anche altro, le accuse di Israele ad al-Sharif. Riceveva a cadenza regolare minacce dirette, l’ultima a luglio sulla pagina X del portavoce in lingua araba dell’esercito, Avichai Adraee. «Ha servito come capo di una cellula terroristica di Hamas», scrive l’esercito allegando una sorta di tabella Excel che non è chiaro da dove provenga in cui lo si definisce un membro delle forze di élite Nukhba, battaglione di Jabaliya. Accusato persino di aver partecipato all’attacco del 7 ottobre, cosa non vera.

«Accuse che non hanno alcun senso, se fosse vero lo avrebbero ucciso o arrestato molto tempo fa», il commento del giornalista israeliano Meron Rapoport: lo hanno ucciso ora, ha aggiunto, per il suo ruolo «nel raccontare che a Gaza c’è la fame» e in vista dell’invasione di Gaza City per la quale Israele vuole minimizzare i testimoni.

Macchina del fango israeliana

Di fake news parlano anche lo scrittore Akiva Edar e Human Rights Watch («accuse senza fondamento né valore»). «Israele ha accusato al-Sharif e altri prima di lui – commenta Frank Smyth, fondatore del Global Journalist Security – e non ha mai mostrato alcuna prova. È una campagna per eliminare la stampa». Assenza di prove e le narrazioni in contraddizione tra loro (comandante militare, incapace alla leva, presente il 7 ottobre, anzi no), è stata oggetto di discussione anche alla luce dello ‘show’ del primo ministro Benjamin Netanyahu che ha mostrato foto di bambini palestinesi pelle e ossa pubblicate sui media internazionali per tacciarle di fake news, mentre impedisce alla stampa l’ingresso a Gaza.

Chiudere gli occhi al mondo

È così che i palestinesi e alcuni colleghi israeliani leggono l’ultima carneficina: Israele vuole chiudere gli occhi del mondo su Gaza e quegli occhi sono quelli dei giornalisti palestinesi, che stanno insegnando cosa significa fare giornalismo ai colleghi di ogni angolo di pianeta. «Non si tratta solo di Anas al-Shari – ha commentato Jodie Ginsberg, direttrice del Committee to Protect Journalists, a cui il reporter si era rivolto per chiedere aiuto – È parte di una pratica lunga decenni di Israele: uccidere giornalisti».

Persino i governi si scuotono

Condanne anche dai governi, Qatar, Germania, Regno unito. Per la Ue è intervenuta Hadja Lahbib, commissaria europea per la parità: «Un attacco diretto alla libertà di stampa». L’Onu parla di uccisione «annunciata ma senza alcuna prova che non fosse altro che un giornalista» e Reporter Senza Frontiere di «tattica ripetuta che inizia con una campagna diffamatoria per giustificare gli omicidi (di giornalisti)». Netanyahu non vuole che si racconti Gaza, le carneficine, la fame. Ieri altri cinque palestinesi sono morti di stenti, il bilancio supera ormai le 220 vittime per denutrizione, di cui almeno 101 bambini. E sempre ieri un’altra intera famiglia è stata sterminata da un raid sul quartiere di Zeitoun, a Gaza City, sei bambini e i loro genitori. Non si deve sapere.

Media bersaglio, alcuni numeri

Per gli operatori dei media il conflitto a Gaza, secondo Dario Bellini, è stato il più mortale mai registrato. Sono 232 i reporter che sono stati uccisi dall’inizio della guerra. Dal 7 ottobre 2023 sono morti a Gaza più giornalisti che in entrambe le guerre mondiali, compreso i più recenti conflitti messi insieme, con una media di 13 lavoratori dei media uccisi al mese. Con una decisione che non ha precedenti nella storia moderna Israele ha impedito ai giornalisti stranieri di entrare a Gaza, lasciando il compito di documentare la guerra esclusivamente ai giornalisti palestinesi residenti nella striscia. A questi si sono aggiunti dei giovanissimi reporter, fotografi e filmmakers che caricano i loro video su TikTok, Instagram, Facebook e Telegram. I commenti sui post di whatsapp e le immagini caricate su Youtube dai bloggers sono diventati la fonte principale dei network internazionali e delle agenzie di notizie.

Prima, solo ‘embedded’ pilotati

Nei primi mesi di invasione le autorità israeliane avevano iniziato a ospitare i giornalisti stranieri. Hanno fornito loro alloggio e trasporto a spese del governo e hanno organizzato tour ben pianificati nelle zone vicine a Gaza, secondo programmi meticolosi. Le uniche immagini dovevano essere quelle fornite dal governo israeliano, soltanto attacchi dal punto di vista dei carri armati che invadevano i sobborghi della città e come in un video-game le esplosioni delle bombe che colpivano i bersagli.

Gaza prima del 7 ottobre

Prima del 7 ottobre 2025 erano diverse le televisioni e le troupe internazionali che operavano sulla striscia, e numerosi i fotografi professionisti palestinesi e molti sono i reporter che si sono formati sul campo. I giornalisti che da 18 mesi sono gli unici corrispondenti da Gaza hanno letteralmente vissuto tutto ciò che hanno riportato: «Siamo stati sfollati, affamati, disidratati, senza dormire. Pronti in ogni momento a documentare le stragi e dare voce alla gente». In un assedio totale, negli ospedali bombardati, davanti alle loro case distrutte, la fuga dei Gazawi a sud e a nord senza sapere dove andare.

Contro i testimoni, non solo Israele

Nei Territori palestinesi l’instabilità politica e le minacce alla sicurezza fanno sì che i giornalisti lavorino in un ambiente ad alto rischio. Continuano a essere soggetti a restrizioni da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ma anche di Hamas e di Israele. «In Cisgiordania, i giornalisti sono vittime di continue violazioni della libertà di stampa da parte sia dell’ANP che delle forze di occupazione israeliane. In ogni caso le aggressioni dei coloni israeliani vengono spesso documentate dai telefonini degli aggrediti, come recentemente l’arresto del regista palestinese Hamdam Ballal autore del documentario premio Oscar ‘No other land’.

Il posto più pericoloso al mondo

Per gli operatori dei media Gaza è diventata il posto più pericoloso al mondo. Un nuovo rapporto pubblicato dal Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (PJS) aggiorna a fine aprile l’elenco dei 15 operatori dei media che sono stati uccisi a Gaza dall’inizio del 2025. Il rapporto che monitora le violazioni israeliane contro i giornalisti, ha evidenziato i continui attacchi e la sistematica distruzione degli uffici di corrispondenza. Reporters Senza Frontiere (RSF), con sede a Parigi, ha documentato 35 casi in cui l’esercito israeliano ha preso di mira e ucciso giornalisti a causa del loro lavoro. Tra questi, per restare al 2025, c’era il reporter di Al Jazeera Hamza Dahdouh, ucciso il 7 gennaio quando un missile ha colpito il veicolo su cui viaggiava nel sud di Gaza.

Algoritmi spia per militari assassini

Human Right Watch ha pubblicato recentemente uno studio sull’uso degli strumenti digitali di guerra. Si tratta di tre sistemi di AI-powered database: Il «Gospel» (il Vangelo) utilizza un algoritmo per elaborare i dati di sorveglianza per generare elenchi di obiettivi da colpire. «Lavender» assegna ai residenti di Gaza un punteggio numerico sulla probabilità che una persona sia membro di un gruppo armato, e gli ufficiali israeliani decidono la soglia oltre la quale un individuo può essere indicato come bersaglio.

«Where’s Daddy?» (dov’è papà)

Infine ‘Where’s Daddy?’ determina quando un obiettivo si trova in un luogo specifico, spesso la sua presunta casa di famiglia, in modo da poterlo attaccare lì. Il sistema una visione in tempo reale dei movimenti dei residenti di Gaza dove ci sono più di un milione di contratti telefonici. «L’esercito israeliano sta usando dati incompleti, calcoli imperfetti e strumenti non adatti allo scopo per aiutare a prendere decisioni sulla vita e sulla morte a Gaza», denuncia Zach Campbell, ricercatore senior di sorveglianza presso Human Rights Watch.

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