Dal blog https://volerelaluna.it/
18-08-2025 – di: Vincenzo Scalia
In un recente intervento su queste pagine (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/08/04/per-il-futuro-dello-stato-il-modello-della-mafia/), Stefano Levi Della Torre definisce lo stile e la strategia di governo di Donald Trump come la maturazione di un modello politico iniziato da Silvio Berlusconi, che consacra una sorta di fagocitazione della politica da parte della mafia. Ciò che renderebbe Trump seguace di un modello mafioso, sarebbe la trasformazione dello Stato in un luogo dove perseguire interessi privati.
Per un verso, mi sento di concordare con questa impostazione. Ricordo ancora la prima volta che il tycoon statunitense si candidò alla Casa Bianca. Lavoravo in Inghilterra e i miei colleghi ritenevano impossibile che Trump potesse essere eletto. Li chiamai, e gli mostrai su YouTube il video di “Meno male che Silvio c’è”. Rimasero in silenzio per un po’, poi commentarono: it’s unlikely, ovvero, è improbabile. Ma era già qualcosa di più dell’impossibleda cui erano partiti. Su questo tornerò. Ma se ci spostiamo sul versante dell’identificazione dello Stato trumpiano col modello mafioso, si corre il rischio dicommettere lo stesso errore dei miei ex-colleghi inglesi. Ovvero, si utilizzano categorie un tantino troppo rigide per definire fenomeni sociali (e le loro relazioni) più complessi di quanto si possa pensare.
L’idea della mafia come anti-Stato, d’altro canto, è stata veicolata regolarmente nel corso degli anni, sia per alimentare la retorica funzionale alla ricerca di consenso politico, sia per giustificare il varo di misure di emergenza. Di per sé, non si tratta di una contrapposizione infondata. Max Weber definiva lo Stato come un ente che esercita il monopolio della violenza su di una popolazione residente in un dato territorio. Su questa falsariga, la mafia (o meglio, le mafie), poiché mettono in discussione il monopolio della violenza, non possono che qualificarsi come anti-Stato. Innanzitutto, perché non accettano la prerogativa assoluta dell’ente statuale rispetto ai mezzi di coartazione; inoltre, in quanto si collocano fuori dal consenso civile diffuso che riconosce come legittima questa qualità dello Stato. Il modello weberiano, d’altra parte, va considerato come un tipo ideale, ovvero come una griglia interpretativa della realtà che, se non utilizzata con cautela, rischia di dare vita a qualche forzatura o generalizzazione.
Tra gli interstizi del tipo ideale, infatti, allignano diversificazioni e contraddizioni che meritano di essere portate alla luce. Si potrebbe cominciare dal lavoro di Charles Tilly, che mette in evidenza come la formazione degli Stati-nazione europei altro non sia che il risultato di una guerra per bande, dove i vincitori, forti della loro organizzazione militare e del radicamento territoriale, impongono l’esazione dei tributi ai sottomessi. Che viene legittimata dall’emanazione di leggi che sanciscono la legalità di questo dominio. In altre parole, saremmo di fronte a delle cosche, o all’alleanza tra cosche, che, a seguito di uno scontro, assurgono al ruolo di governanti. Lo Stato e le mafie, dunque, lungi dall’essere in contrapposizione, rappresenterebbero due facce del dominio. Lo stesso Norberto Bobbio, nella sua disquisizione analitica sulla mafia, non la vedeva in contrapposizione allo Stato. Il filosofo torinese definiva la mafia come un potere extralegale vicario, gettando una luce particolarmente illuminante in merito alla configurazione e all’esercizio del potere mafioso. Sulla scia di quanto teorizzato da Tilly, la mafia si connota come una struttura di potere, e dispone perciò di una natura di tipo politico.
Il domino mafioso, tuttavia, si colloca, seguendo Bobbio, non contro la legge, bensì al di fuori della legge, senza che questo implichi necessariamente che si verifichi una rotta di collisione tra le due polarità. Non a caso la mafia siciliana nasce come governo informale del latifondo e della sua economia e il sacco di Palermo avvenne in seguito all’approvazione di un piano regolatore pienamente conforme alle procedure. La camorra napoletana, da struttura di regolamentazione dell’economia informale dei bassi, assurge gradualmente ad attore che si interfaccia col potere pubblico e media tra questo e i ceti popolari: ad esempio, per evitare disordini durante l’ingresso di Garibaldi a Napoli, Liborio Romano, prefetto partenopeo, chiese ai camorristi di garantire l’ordine. Da parte sua, la ndrangheta calabrese, sorge come autodifesa del territorio su base familiare; solo successivamente – grazie al radicamento, alla struttura paramilitare, ai legami parentali – assunse funzioni di governo dei latifondi e di mediazione politica. Da qui emerge la funzione vicaria delle mafie che, attraverso una sussidiarietà informale, esercitano quelle funzioni a cui dovrebbe essere preposto lo Stato. I rapporti Stato-mafia, a guardarli bene, possono essere inquadrati secondo tre modalità, variabili per intensità e durata: la coesistenza, la cooperazione e il conflitto.
Se ci muoviamo ancora sul solco tracciato da Norberto Bobbio, che definiva la democrazia come il potere pubblico in pubblico, la differenza tra Trump e Berlusconi e i mafiosi traspare in tutta la sua pienezza. Questi ultimi operano a cavallo tra legalità e illegalità, tenendo nelle retrovie l’uso della violenza, ricorrendo al limite a minacce velate. I due tycoon, invece, hanno lavorato e lavorano in pubblico, costruendo un consenso diffuso che fa leva su vari fattori: la paura, la crisi delle grandi aggregazioni collettive, la perdita di status, la proiezione nei candidati della propria voglia di successo. In altri termini, Trump e Berlusconi, hanno costruito, gramscianamente parlando, un’egemonia che ha catturato il consenso degli elettori. I mafiosi non si espongono direttamente in politica, e si costruiscono il consenso sia usando in modo distorto e strumentali valori come onore e amicizia, sia elargendo prebende clientelari attraverso l’intercessione presso gli attori politici. Oppure, come nel caso della repressione dei movimenti contadini, agendo per conto di chi ha interesse a mantenere gli equilibri di potere esistenti. Paradossalmente, si tratta di funzioni pubbliche, messe in atto da attori privati nell’interesse di attori privati.
Sulla scia di quanto sostenuto finora, è possibile asserire che la privatizzazione dello Stato è cosa diversa rispetto al “modello mafioso”: sia per la specularità dei due fenomeni, sia per le aree di cointeressenza e coincidenza che sono fin qui emerse. Inoltre, già Marx parlava dello Stato come comitato di affari della borghesia, una definizione sviluppata ulteriormente da Vincenzo Ruggiero, che mette in rilievo le relazioni di potere tra gli strati sociali che si trovano in posizione di vantaggio rispetto al possesso e al controllo delle risorse materiali e simboliche. I punti nodali che si formano ai vertici della società, consentono di sviluppare un sistema di sostegno e protezione reciproco, all’interno del quale viene garantita l’impunità e si crea un interfaccia opaco che ostruisce chi intende guardare dentro le aree oscure dei potenti. Non a caso Ruggiero ammoniva, rispetto alla sfera economica, a non tracciare confini troppo netti tra economie sporche e pulite. Una trasposizione analoga può essere realizzata rispetto al rapporto Stato-mafia.
Tornando alle similitudini tra Trump e Berlusconi, è innegabili che entrambi si siano avvantaggiati del deperimento della politica come sfera deputata alla trasformazione sociale attraverso l’elaborazione di progetti condivisi. Non si tratta però di un processo ascrivibile all’ingresso dei due tycoon in politica. Siamo di fronte a una tendenza che parte da lontano, col neoliberismo che ha distrutto le forme di organizzazione sociale dell’epoca fordista, erodendo le identità collettive e le organizzazioni che le veicolavano. Ne è conseguita la fine della mediazione politica, che, nel caso italiano, ha prodotto anche il progetto pentastellato di eterodirezione plebiscitaria a mezzo della tecnologia.
In un contesto in cui le decisioni rilevanti vengono prese al di fuori delle istanze deputate, da apparati tecnocratici sempre più sofisticati, la politica è ridotta alla mera funzione comunicativa, di attrazione e trasmissione passiva.
Iniziarono gli USA, con un ex-attore come presidente. Altri esempi li abbiamo in Ucraina, ma anche Trump e Berlusconi devono molto, se non tutto, all’utilizzo dei media. Più che di fronte alla privatizzazione dello Stato, o a un modello mafioso, ci troviamo di fronte a una sfera pubblica sovraccarica di comunicatori e comunicazioni che producono e diffondono discorsi posticci.
È lì che dobbiamo intervenire.