Epstein :la rete del suo potere rilegata in pelle

Dal blog https://krisisinfo.substack.com

Krisis.info ago 20di Maria Pappini

Il birthday book di Epstein non è solo un album di dediche. È la prova tangibile di un filo invisibile che unisce presidenti, principi e miliardari

«Natura morta con Bibbia» dipinto da Vincent van Gogh nel 1885. Wikimedia Commons. Public Domain.

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In occasione del cinquantesimo compleanno di Jeffrey Epstein, la sua compagna Ghislaine Maxwell ebbe un’idea: raccogliere in un volume rilegato in pelle le firme e i messaggi degli illustri ospiti dell’isola. Ne nacque un birthday book, dove presidenti (da Bill Clinton a Donald Trump), attori (da Kevin Spacey a Woody Allen) e modelle (la più nota Naomi Campbell) condividevano pagine di dediche e promesse di discrezione. Un cimelio mondano solo in apparenza, destinato a diventare prova di un sistema in cui lusso e omertà viaggiavano sullo stesso jet. Sfogliarlo è come leggere il copione di un patto segreto, che a ottobre le audizioni parlamentari promettono di portare alla luce.

Terza puntata della serie  “Il caso Epstein, l’uomo al centro della rete”

Ascolta l’articolo, narrato da Giulio Bellotto:

Ufficialmente, è solo un regalo di compleanno. Cinquant’anni, amici di ogni angolo del globo che si affrettano a inviare dediche su carta pregiata, rilegata in pelle lucida. Un gesto di classe, il genere di omaggio che ci si scambia tra chi è abituato a incontrarsi nei box più esclusivi di Wimbledon o nei saloni privati del Metropolitan Opera di New York. Lo chiamano Birthday book”: più volumi,impaginati con cura da Ghislaine Maxwell, la donna che sapeva trasformare una lista di contatti in un manifesto di appartenenza.

Sfogliando la prima pagina, tutto sembra aderente al copione: saluti cordiali, frasi standard, il linguaggio cifrato delle élite. Ma poi iniziano i dettagli. Nomi che non hanno bisogno di presentazioni: presidenti dal sorriso studiato e dalla giacca di Savile Row che profuma di potere, principi con sangue reale e agenda impenetrabile, magnati dal portafoglio sterminato, attori capaci di far tacere una sala con una sola scena. Ogni firma è un indirizzo, ogni augurio una prova di vicinanza.

Tra le righe compaiono complimenti strani, allusioni che hanno senso solo per chi era lì. «Curiosità infantile», «cose che abbiamo in comune», frasi che suonano innocue se lette al brunch di un cinque stelle, ma che, alla luce dei registri di volo e delle foto scattate dietro le porte chiuse, diventano indizi. Questo non è un libro di ricordi. È una mappa del potere, tracciata con scrittura che odora di velluto e riserbo e un’abilità chirurgica nel tenere fuori chi non deve sapere.

C’è un filo invisibile che unisce quelle pagine: viaggi in jet privati, serate su isole dove l’orizzonte è la barriera più efficace, incontri a microfoni spenti nella West Wing o nei corridoi insonorizzati dei club londinesi. Non serve didascalia: chi è lì dentro non è stato invitato per caso. Per finire nel birthday book di Jeffrey Epstein non bastava un brindisi. Serviva far parte del suo circuito, muoversi tra le stesse stanze, parlare lo stesso linguaggio del silenzio.

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E mentre le pagine ingialliscono e le copertine odorano ancora di pelle, il libro sopravvive come reliquia e come minaccia. Un oggetto di lusso che non puoi esporre sul tavolino del salotto senza chiederti chi, tra gli ospiti, lo ha già sfogliato e firmato… E chi, per non comparire, ha pagato il prezzo più alto. In mezzo alle firme già note, circolano voci su presenze inattese – persino quella del fisico dell’Università di Cambridge Stephen Hawking – ma il volume resta inaccessibile e ogni supposizione è destinata a restare sospesa fino al giorno in cui sarà aperto di fronte alle commissioni parlamentari.

Ogni volta che il birthday book si apre, è come sfogliare un mazzo di carte segnate. Non importa dove si tagli, in cima spunta sempre un asso. E in questa partita, il primo è Bill Clinton. Il suo nome campeggia tra le dediche come una firma d’autore su una tela compromessa, accompagnato da quelle due parole – «curiosità infantile» – che oggi suonano come un brindisi fatto in una stanza dove l’aria sapeva già di segreto. 

È la pagina che non puoi voltare senza sentire il rombo di voli intercontinentali, registri di accesso alla Casa Bianca e fotografie in cui il protocollo stringe la mano al non detto. Nel mazzo di Epstein, Clinton non è solo una carta alta. È il seme che dà valore a tutta la mano.

Si comincia alla Casa Bianca, tra il 1993 e il 1995. Nei registri ufficiali d’ingresso, il nome di Jeffrey Epstein compare almeno 17 volte. Quasi sempre diretto alla West Wing, spesso passando dalla scrivania di Mark Middleton, assistente speciale del presidente. Non incontri segreti, ma nemmeno casuali. E in quell’epoca, dove il potere amava ancora farsi immortalare, resta una foto che suona oggi come una prova. Epstein e Maxwell a un ricevimento per i donatori del progetto di restauro della Casa Bianca, 29 settembre 1993.

Poi gli incontri si spostarono in quota. Tra il 2002 e il 2003, Clinton salì almeno quattro volte sul Lolita Express. Diretto in Africa, Europa e Asia per missioni legate alla Clinton Foundation, sempre con staff e scorta del Secret Service. Niente viaggi ufficialmente registrati verso l’isola di Little St. James, il ranch in New Mexico o la residenza di Palm Beach, ma nei flight logs il suo nome è una costante. Un sigillo di legittimazione reciproca, la prova che su quell’aereo potevano convivere la diplomazia e il silenzio.

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E quei voli, con i loro passeggeri selezionati e le destinazioni ufficiali, sono oggi parte del dossier che ha fatto scattare l’attenzione di Capitol Hill. Le tratte, le presenze e le firme sul birthday book non restano più appunti sparsi negli archivi. Diventano prove potenziali, coordinate da ricomporre davanti a una commissione parlamentare pronta a seguire ogni rotta.

La convocazione del Congresso è arrivata come un colpo di martello su un tavolo già incrinato. Il Comitato di Vigilanza della Camera ha inserito Bill e Hillary Clinton in una lista che sembra più un’operazione chirurgica che un atto amministrativo. Ex presidenti, ex segretari di Stato, ex procuratori generali, ex direttori dell’Fbi, tutti chiamati a deporre nell’ambito dell’indagine su Jeffrey Epstein e sulla rete di protezioni e omissioni che lo hanno circondato per decenni.

La convocazione è per ottobre 2025, con la promessa di un’audizione pubblica e documenti da produrre. Non è un atto simbolico. Il comitato vuole e-mail, note interne, agende, qualunque elemento possa chiarire la natura e la frequenza dei rapporti con Epstein. Nelle parole del presidente del Comitato, James Comer, l’obiettivo è «seguire il filo del potere», un filo che parte da un jet privato e arriva fino alla Sala Ovale, passando per residenze private e fondazioni internazionali.

Che entrambi siano chiamati, e non solo Bill, sposta l’asse della questione. Perché qui non si parla più di rapporti personali isolati, ma di un’eventuale consapevolezza condivisa. Un sistema di contatti e favori che intrecciava non solo l’ex presidente, ma anche una delle figure politiche più influenti del XXI secolo. Un’architettura di potere costruita nell’ombra, dove ogni stretta di mano poteva essere un accordo e ogni silenzio una garanzia.

La coppia più potente della politica americana degli ultimi 30 anni si troverà seduta fianco a fianco, davanti a microfoni aperti e deputati pronti a scandagliare ogni parola, ogni esitazione, ogni scambio di sguardi. Le luci puntate sul tavolo renderanno impossibile nascondere il linguaggio del corpo. E, intorno, un’aula che sa di trappola: nessuna via di fuga, solo l’eco delle domande e il fruscio delle pagine.

Sul fondo, come scenografia silenziosa, il birthday book e i registri di volo. Non testimoni muti, ma reperti d’accusa di un sistema che ha saputo resistere per decenni. Sfondo muto di un interrogatorio che promette di essere tanto spettacolare quanto letale, dove la verità, se emergerà, sarà solo quella che conviene a chi manovra la scena.

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E si sfoglia ancora, con le dita che scorrono lente sulla pelle levigata della rilegatura, fino a trovare un titolo che non ha bisogno di inchiostro dorato. Sua Altezza reale, il Duca di York. Il nome del principe Andrea non è nascosto tra le pagine centrali, ma messo in vista, nella sezione «friends», dove i rapporti contano più dei regali. 

È il segno di una vicinanza che comincia alla fine degli anni Novanta, quando Ghislaine Maxwell lo introduce a Epstein, intrecciando due mondi che avrebbero dovuto restare distanti: Buckingham Palace e l’orbita privata di un finanziere già avvolto da voci scomode. In quegli anni, il loro nome appare insieme in ricevimenti a Londra e a New York, in fotografie che oggi sembrano prove giudiziarie.

C’è quella, del 2000, che li immortala a Central Park. C’è la più celebre, scattata nel 2001 nella casa londinese di Maxwell: Virginia Giuffre, allora diciassettenne, sorride accanto al principe e alla padrona di casa. È un’immagine che Andrea definirà «falsa» o «alterata», ma che resiste a ogni smentita come una macchia indelebile su un tessuto di seta. La cronologia dei rapporti non si interrompe con la condanna di Epstein nel 2008. Nel 2010, i tabloid britannici lo ripresero mentre passeggiava ancora con lui e lo salutava sulla soglia della townhouse di Manhattan, confermando una confidenza che ormai strideva con il protocollo reale.

L’intervista a BBC Newsnight del novembre 2019 fu il punto di non ritorno. Seduto di fronte alla giornalista Emily Maitlis, il principe Andrea tentò di respingere le accuse di Virginia Giuffre con una serie di giustificazioni che, invece di dissipare i sospetti, li cristallizzarono nella memoria collettiva. 

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Negò di aver mai incontrato la ragazza quella sera del 2001, sostenendo di trovarsi con la figlia a festeggiare un compleanno al «Pizza Express» di Woking. Un dettaglio così improbabile da diventare immediatamente materiale per meme e parodie. Aggiunse di non poter essere l’uomo immortalato in certe fotografie, perché all’epoca soffriva di una condizione medica legata a un trauma da guerra che gli impediva di sudare.

In poche ore, le sue parole furono scomposte, rilanciate e ridicolizzate sui social, trasformandosi in simbolo di goffaggine aristocratica e di distanza dalla realtà. Quella che avrebbe dovuto essere un’operazione di difesa controllata divenne un manuale di autodistruzione mediatica: l’intervista non solo non riabilitò la sua immagine, ma la inchiodò in un limbo di imbarazzo pubblico dal quale, ancora oggi, fatica a riemergere.

Il passo successivo è stato quello degli avvocati: nel 2022, un accordo extragiudiziale milionario ha chiuso la causa civile intentata da Giuffre negli Stati Uniti, senza ammissione di colpa, ma con una resa implicita che ha pesato come una condanna agli occhi dell’opinione pubblica. Da allora, il principe vive in una zona grigia: formalmente ritirato da incarichi ufficiali, protetto dai muri di Windsor e Balmoral, ma ancora visibile in eventi privati selezionati, come se la sua presenza fosse una testimonianza che alcuni vogliono ancora esibire e altri nascondere.

Nel birthday book, però, la sua pagina resta al suo posto, ferma tra quelle che raccontano di voli privati, isole inaccessibili e salotti senza telecamere. Ogni volta che si arriva a lui, la sensazione è la stessa: non si tratta di un nome scritto per cortesia, ma di una firma che conferma un’appartenenza. In quel volume, le dediche non invecchiano: restano sospese, impermeabili al tempo, pronte a riemergere ogni volta che il libro si riapre, ricordando che certi legami, una volta messi nero su bianco, non si cancellano più.

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Poi arrivò Leon Black, il miliardario che non aveva bisogno di jet privati in prestito, perché li possedeva già. Fondatore di Apollo Global Management, uno degli imperi finanziari più potenti di Wall Street, Black è la prova che i legami di Epstein non erano solo carnali o mondani, ma anche strutturali: radicati nel denaro, nei flussi di capitale, nelle operazioni che non finiscono sui giornali ma possono decidere il destino di aziende intere. 

Per anni, tra il 2012 e il 2017, pagò a Epstein oltre 150 milioni di dollari per «consulenze fiscali» tanto riservate da sembrare rituali iniziatici. Consulenze che, secondo le ricostruzioni investigative, riguardavano la gestione dei patrimoni più opachi, il ricorso a trust offshore, e la costruzione di architetture societarie impermeabili alle autorità.

Black, inizialmente, minimizzò. Definì Epstein un «fidato consigliere in materia patrimoniale», un uomo brillante ma marginale rispetto al suo impero. Poi, quando le cifre e i bonifici emerser, cambiò registro: si dimise da Apollo nel 2021, ammettendo «errori di giudizio» ma negando di aver mai avuto alcuna conoscenza o complicità nelle attività criminali dell’amico. Nel frattempo, i documenti della causa civile intentata da una donna che lo accusava di violenza sessuale – accuse che respinge con fermezza -finirono nella stessa corrente mediatica che stava inghiottendo altri potenti.

Maggio–luglio 2025: il Senato entra in scena. Il senatore Ron Wyden, numero due nella Commissione Finanza del Senato, accende i riflettori su un lato oscuro dei rapporti di Epstein. I flussi di denaro che li collegano a qualcuno come Leon Black. In una lettera al Dipartimento del Tesoro e all’FBI, Wyden denuncia che Black versò 170 milioni di dollari a Epstein tra il 2012 e il 2017 – 12 milioni in più rispetto a quanto rilevato da un’inchiesta interna condotta da ApolloOregon Business. Ciò che preoccupa è l’entità insolita dei pagamenti, avvenuti via banca con ritardi inspiegabili nelle segnalazioni, e senza alcuna verifica dell’Irs (xxx) sul loro reale contenuto.

Wyden non si ferma. La sua indagine svela che quei fondi non erano solo catapultati nella rete di Epstein, ma sarebbero serviti anche a finanziare le sue operazioni nelle Isole Vergini, inclusa la famigerata Little St. James – e Black, nel 2023, dovette accettare un accordo da 62,5 milioni per ottenere immunità dalle indagini locali.

È una chiamata pubblica di «follow the money», un invito a spalancare gli archivi del Tesoro e delle agenzie federali, per portare allo scoperto tutto ciò che è stato nascosto tra trust offshore, architetture societarie opache e consigli fiscali al limite dell’inverosimile. Ma i numeri, da soli, raccontano solo metà della storia. Perché dietro le transazioni ci sono i volti: nomi che trasformano l’inchiesta in un affresco del potere contemporaneo.

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Aprire ilbirthday book di Epstein è come sfogliare un’agenda segreta di potere, scritta in inchiostro invisibile e rilegata in pelle di complicità. E tra quelle pagine, c’è un nome che brilla e brucia allo stesso tempo: Donald J. Trump. La loro storia comincia quando Manhattan portava ancora il profumo di champagne e sigari cubani degli anni Ottanta, e le feste erano un campo da gioco per miliardari in ascesa. Trump ed Epstein si muovevano nello stesso circuito – aste di beneficenza, eventi mondani, party privati – come due pianeti che orbitano attorno alla stessa stella: l’accesso.

Nel 1992, una telecamera di Nbc News cattura una scena oggi inquietante. Trump e Epstein a Mar-a-Lago, circondati da cheerleader dei Buffalo Bills, ridono, commentano, si piegano verso l’orecchio l’uno dell’altro per scambiarsi battute che restano coperte dalla musica. Trump all’epoca lo definiva un tipo fantastico» e, con quella leggerezza che oggi suona come una prova, aggiungeva: «Piacciono anche a lui le belle donne, e molte di loro sono piuttosto giovani».

Poi c’è il 2000, quando il legame si incrina. Secondo più di un testimone, Epstein aveva «rubato»personale a Trump — inclusa Virginia Giuffre, allora diciassettenne, reclutata mentre lavorava come massaggiatrice al club. Da quel momento, la porta di Mar-a-Lago per Epstein sembra chiudersi, ma la loro ombra comune resta lunga.

Il 2003 segna la svolta simbolica: il famigerato birthday book di Epstein è ancora il protagonista. Tra le dediche di presidenti e principi, quella attribuita a Trump è un graffio indelebile. Un disegno osceno e la frase «Abbiamo alcune cose in comune, Jeffrey». La stampa la pubblica, il web la rilancia, e Trump risponde come sa: urla alle «fake news», annuncia una causa da 10 miliardi di dollari contro il quotidiano di New York Wall Street Journal, Rupert Murdoch e due giornalisti.

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Ma il capitolo più esplosivo si scrive 20 anni dopo. Maggio 2025: secondo il quotidiano londinese The Guardian, l’allora Attorney General Pam Bondi convoca Trump nello Studio Ovale per un incontro a porte chiuse. Sul tavolo, un’informazione pesante come piombo. Il suo nome compare più volte nei file riservati del Dipartimento di Giustizia sull’affaire Epstein. Bondi non entra nei dettagli, ma lascia intendere che si tratta di documenti interni, note investigative e testimonianze mai rese pubbliche.

Poi arriva il secondo colpo: una parte di quei materiali non sarà divulgata. La motivazione ufficiale è «proteggere le vittime»; quella ufficiosa, sussurrata tra i corridoi del potere, è evitare una detonazione politica proprio all’alba del nuovo mandato presidenziale. Un segreto custodito per non far deragliare un’agenda politica già sotto pressione.

Luglio 2025: il segreto non regge più. I democratici Ro Khanna e Robert Garcia chiedono formalmente al Congresso la consegna dell’intero birthday book e delle relative note investigative, definendolo «la chiave per capire il livello delle connessioni» tra il potere politico e il proprietario di Little Saint James. Il Wall Street Journal rilancia la storia, svelando la pressione bipartisan per rilasciare integralmente i file. 

La rivista Wired descrive un «Trumpworld» ormai prigioniero di sé stesso, un’architettura politica costruita sulla lealtà e sull’impunità, ora costretta a fare i conti con un dossier che non può essere ridotto a fake news o ignorato senza fratture interne. A luglio il nome è saltato fuori come un colpo di flash in una stanza buia. Chi l’abbia fatto uscire, e perché proprio adesso, resterà nell’ombra… Almeno fino alla prossima puntata.

E così, il birthday book è diventato un atto d’accusa rilegato. Ogni volta che lo si apre, la prima pagina è ancora lì. «Donald J. Trump» compare, non in un titolo di giornale, ma in un inchiostro che oggi pesa come piombo. In quelle pagine non c’è solo il ricordo di un compleanno: c’è la cartografia di un impero di favori, di segreti e di debiti. E Trump, che 20 anni fa ci scherzava sopra, oggi si trova a dover dimostrare che quell’inchiostro non racconta la sua verità. 

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Trump non era l’ultimo volto riconoscibile. Il birthday book sembrava una fotografia di gruppo in cui la politica divideva lo spazio con il mondo dello spettacolo. Attori come Kevin Spacey, modelle come Naomi Campbell, registi come Woody Allen, capaci di sedersi ai tavoli del potere nonostante le controversie. Accanto a loro, cantanti idolatrati e creativi dell’alta moda: presenze che trasformavano ogni raduno in una passerella blindata.

Agenzie di modelle e club esclusivi diventavano corridoi di accesso, mentre sportivi famosi prestavano il loro carisma a salotti dove il gossip era moneta di scambio e il silenzio un patto tacito. Nelle dediche, frasi che sembravano uscite da un film noir: citazioni criptiche, allusioni a serate finite con cellulari spenti e tende chiuse, promesse di discrezione.

Tra queste, spicca quella di Woody Allen. In una lettera a Epstein, il regista descrisse la propria casa come un «Castello Dracula», popolato da «giovani donne che servivano da vampiri». Una battuta che, dietro l’ironia, lasciava intravedere il disagio. Un clima di complicità recitata, il gusto per la messa in scena e la normalizzazione di presenze che altrove avrebbero fatto scandalo.

Era il volto mondano e inquietante di uno stesso sistema: un carosello di celebrità e potere che viaggiava sullo stesso jet dei capi di Stato e dei miliardari, parlando la stessa lingua. La lingua del privilegio protetta dalla grammatica dell’omertà.

Quelle feste dorate, tra modelle e attori, non erano un mondo separato: erano il palcoscenico visibile di un copione che, dietro le quinte, si scriveva in bonifici, trust e accordi riservati. Era lì che il glamour incontrava i conti offshore. E in quelle stesse pagine, accanto ai nomi dei presidenti, brillavano quelli di attori e cantanti: tasselli dello stesso mosaico, destinato a essere letto anche alla luce dei bilanci.

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Aprire il birthday book è come passare un dito su una ferita ancora aperta: le pagine non sanguinano, ma lasciano un odore di ferro nell’aria. Ogni firma è un nodo di una rete che unisce il potere politico alle stanze ovattate della finanza, i corridoi delle ambasciate ai retroscena di passerelle e festival. Non è un elenco di ospiti, ma un inventario di alleanze, con un collante fatto di silenzi, promesse e accordi reciproci.

E mentre il libro resta chiuso in qualche caveau, protetto come un gioiello e temuto come un ordigno, il suo contenuto continua a proiettare ombre lunghe. Mancano capitoli: non quelli che raccontano chi c’era, ma quelli che spiegano perché e a quale prezzo.

Alla vigilia delle audizioni e delle richieste di documenti, il volume appare come il preludio a un’indagine che non si fermerà alle fotografie patinate, ma scenderà nei registri bancari, negli atti processuali, nei trust offshore. Se il libro è il teatro, il denaro sarà la regia per orientarsi nel labirinto che attende. Ma da qualche parte, in quelle pieghe di pelle e inchiostro, c’è ancora una porta non aperta. E dietro, la stanza dove si decidono i nomi che non devono mai comparire.

(Continua)

Licenza Creative Commons CC BY-NC-ND Ver. 4.0 Internazionale

Autore

  • Maria PappiniMaria Pappini Nata nel 1987, ha conseguito una laurea magistrale in Scienze del Governo presso l’Università di Torino e un master in Histoire des théories économiques et managériales in Lyon. Dopo più di dieci anni come account manager in diversi settori e attivista politica, nel 2023 decide di riprendere gli studi presso l’Università Statale di Milano frequentando il corso di Scienze Storiche. La sua attività di ricerca è concentrata sulla storia dei partiti politici e sulla storia delle relazioni internazionali.

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