Dal blog Federica D’Alessio28 Agosto 2025
La Global Sumud Flotilla è in partenza per Gaza. Trasporterà in mare il meglio e il peggio dei movimenti civili europei. Riflessioni critiche su un’iniziativa che in poche settimane è passata dalla cooperazione nel nome della solidarietà internazionalista al viral marketing più forsennato.
Poco più di un mese fa, da Kritica lanciavamo un appello, poi tradotto in inglese e fatto circolare in tutto il mondo, affinché si desse vita a una “Dunkirk al contrario”: una spedizione internazionale di navi, militari e civili, che facesse rotta verso Gaza, per portare aiuti umanitari e rompere l’assedio illegale imposto dallo Stato di Israele, attraverso il quale il sedicente Stato ebraico sta provocando una carestia che rischia di falciare, nel giro di pochi mesi, l’intera popolazione della Striscia di Gaza: oltre due milioni di abitanti, prima del 7 ottobre 2023.
Qualcosa di molto simile, ma anche di molto diverso, a ciò che auspicavamo, sta ora per realizzarsi.
Questo scrivevamo il 20 luglio 2025: “Ci rivolgiamo perciò a tutte le ONG, alle Marine nazionali, alle compagnie di crociera, agli armatori internazionali, alle linee di trasporto marittimo, ai proprietari privati di yacht, di navi da pesca e di semplici barche: fate rotta in massa verso Gaza. Spezzate il blocco navale illegale imposto da Israele sul mare di Gaza e portate cibo e aiuti. Salviamo la vita degli abitanti di Gaza!
Il blocco navale su Gaza imposto dall’esercito israeliano è illegale ai sensi del diritto internazionale. Israele non può legalmente impedire alle navi di avvicinarsi alle coste di Gaza e di attraccarvi per portare aiuti agli abitanti. Israele non soltanto commette crimini di guerra e contro l’umanità affamando intenzionalmente una popolazione su cui sta praticando il genocidio, ma commette un crimine anche impedendo l’attracco su Gaza dei civili.
L’equipaggio della Freedom Flotilla, qualche settimana fa, è stato illegalmente sequestrato e detenuto. Ora una nuova nave della stessa flotta, la Handala, è in rotta verso Gaza. Non si può lasciare sola la Handala. Non possiamo lasciare soli gli abitanti di Gaza a rischio di estinzione di massa. Finché a forzare il blocco navale illegale sono in pochi, per Israele è più facile agire, pur violando la legge (nell’indifferenza generale). Ma se a forzare il blocco navale illegale sono decine di migliaia di persone, su centinaia di imbarcazioni, le cose cambiano.
Serve una nuova Dunkirk, una Dunkirk al contrario. Ripetere quell’esperienza, passata alla Storia, di salvataggio di massa dei popoli attraverso il mare. Serve un approdo di migliaia e migliaia di cittadini e cittadine, a bordo di centinaia di imbarcazioni, per salvare la vita di bambini, donne e uomini denutriti e allo stremo delle forze. Che salpino dall’Italia, dalla Grecia, dalla Turchia, dalla Spagna, dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Francia, dall’Algeria, dall’Egitto, serve che salpino anche da oltreoceano, se necessario”.
Nelle ultime settimane, una iniziativa internazionale che si è denominata Global Sumud Flotilla ha unito le forze per dare vita, a quella che, con un’enfasi sulla quale ci interrogheremo in questo stesso articolo, il giornalista-influencer politico Lorenzo Tosa ha definito “la più grande missione umanitaria di questo secolo”. Qualche decina di barche – tante quante il numero di coppie di capitani che saranno stati coinvolti – salperà in due tranche, il 31 agosto da Barcellona e Genova, il 4 settembre dalla Sicilia e dalla Tunisia, trasportando persone provenienti da 44 Paesi diversi, in equipaggi tutti composti da persone di varie nazionalità mescolate fra loro. I sindacati tunisini avevano dato un primo assenso convinto all’iniziativa, tanto che la conferenza stampa di lancio della Global Sumud Flotilla, a inizio agosto, si era tenuta proprio da Tunisi. In seguito, secondo quanto Kritica ha potuto ricostruire, sembrerebbero essersi tirati indietro, per ragioni dovute alla confusione e alla disorganizzazione riscontrata, così come sembrerebbe essersi tirata indietro, per le stesse ragioni, anche Al Jazeera, che aveva seguito con una sua troupe l’ultima missione, quella della nave Handala (una truppa di Al Jazeera dovrebbe infine salpare con la flotta da Barcellona, ndr, 30 agosto).
Uno spinoff della Global March to Gaza
Da dove nasce la Global Sumud Flotilla? Come ha spiegato a Kritica la portavoce italiana, Maria Elena Delia, si tratta di una iniziativa messa in piedi da una serie di persone che già a giugno scorso avevano dato vita alla Global March to Gaza, l’attraversamento dell’Egitto via terra partendo da più Paesi di tutto il mondo, per cercare di arrivare, simbolicamente, al valico di Rafah e rompere l’assedio di Gaza. Una impresa che si era incontrata con la numerosa coalizione del Sumud Convoy, una spedizione via terra partita dalla Tunisia per attraversare Libia ed Egitto e giungere a Gaza. La spedizione maghrebina coinvolgeva centinaia di persone ed era stata messa in piedi dal Coordinamento tunisino per la Palestina, una realtà che riunisce i sopracitati sindacati insieme con altri soggetti della società civile, fra cui gli ultras.
Nessuna delle spedizioni del giugno scorso è riuscita a raggiungere la meta, né a portare solidarietà fisicamente agli abitanti di Gaza. Ma mentre la Sumud Convoy è rimasta compatta durante l’intero percorso, all’arrivo in Egitto la Global March to Gaza che vedeva protagoniste persone dei Paesi occidentali si è immediatamente frammentata e sfrangiata. Le diverse delegazioni hanno infatti subito preso iniziative diverse e fra loro in conflitto, mostrandosi litigiose, competitive e ben poco consapevoli della delicatezza della missione, che si è conclusa miseramente in una serie di rimpatri in più punti del Paese. La Global March, che su Kritica avevamo accolto con curiosità e sostegno, pur sempre attento e critico, aveva mostrato tutti i limiti e i difetti dell’atteggiamento da “white saviour” tipico dei cittadini dei Paesi colonialisti: un atteggiamento di superficialità e unilateralismo, incurante del punto di vista della popolazione autoctona e della dimensione politica di una iniziativa delicata sotto ogni profilo, compreso quello diplomatico. Come dichiarò alla nostra testata, di ritorno dalla Global March, l’ex portavoce Antonietta Chiodo, dimessasi dall’incarico subito dopo la conclusione della Marcia, “l’aspetto più umiliante di una spedizione fallita e disgregatasi quasi immediatamente è stato rendermi conto che i cittadini egiziani stessi si sentivano calpestati, utilizzati e persino messi in pericolo dalla nostra presenza”.
Global Sumud Flotilla nasce dunque da un’iniziativa fallimentare, che ha mostrato tanti limiti sia dal punto di vista del discorso politico, sia di coordinamento umano e organizzativo. Limiti che non sono stati, tuttavia, fatti oggetto di discussione aperta e trasparente fra coloro che vi hanno preso parte. Un giornalista canadese, Jean Borbeau, ne ha scritto in un utile articolo, in francese, che si può leggere qui.
Chi fa parte della Global Sumud Flotilla (e chi no)
La Global Sumud Flotilla riunisce più realtà coordinate fra loro, a livello mondiale. Una di queste, che non aveva preso parte fisicamente alla Global March to Gaza, è Sumud Nusantara, un coordinamento di realtà malesi impegnate nel sostegno al popolo palestinese nel nome dell’Ummah, cioè della comunità dei musulmani nel mondo. Fra queste, MyAqsa Defenders, una realtà di giovani e ONG per la Palestina, e Cinta Gaza Malaysia, una associazione no-profit malese. Si tratta di una sorta di coordinamento del terzo settore malese, che ha ricevuto il sostegno del governo attuale della Malesia. Il primo ministro malese si è infatti pronunciato in favore della missione della Global Sumud Flotilla, e secondo quanto ha confermato Delia a Kritica, contribuirà alla flotta con alcune imbarcazioni (non con una missione ufficiale della sua marina).
La Freedom Flotilla Coalition (FFC), la storica realtà che dal 2008 organizza spedizioni umanitarie via mare verso Gaza, pur comparendo fra le promotrici della Global Sumud Flotilla non è, in realtà, parte dell’iniziativa. In un comunicato emesso poco dopo il lancio della GSF, hanno spiegato: “La FFC è stata fondata nel 2010, in seguito alle riuscite missioni del Free Gaza Movement del 2008 e 2009, con l’obiettivo di sfidare e rompere l’illegale blocco imposto da Israele su Gaza dal 2006/2007. Nel corso degli anni abbiamo organizzato 37 imbarcazioni dirette a Gaza — ultima delle quali la Handala — continuando a sollecitare la comunità internazionale e i governi ad agire. Sosteniamo e siamo solidali con tutte le iniziative autentiche che mirano a porre fine al blocco, al genocidio e all’occupazione, e che chiedono conto a Israele e alla comunità internazionale dei crimini commessi. Peccato solo che non ci sia piena unità di azione: gli organizzatori della Sumud Flotilla hanno scelto di non partecipare alle azioni e alle missioni di Freedom Flotillla, preferendo creare un nuovo progetto autonomo.
Alcuni membri e campagne appartenenti alla nostra Coalizione partecipano alla Global Sumud Flotilla, ma la FFC nel suo insieme non è organizzatrice di tale iniziativa e non è coinvolta nella sua pianificazione e gestione operativa.”
Fra i partecipanti delle ultime missioni della Freedom Flotilla che salperanno anche nelle prossime navi ci sono Greta Thunberg, Tony La Piccirella (intervistato per noi di Kritica da Andrea Umbrello, qualche settimana fa) e Manuel Thiago Àvila. L’esperienza delle crew della Freedom Flotilla sarà importante per la spedizione della Global Sumud – il team legale di Freedom Flotilla Irlanda, per esempio, seguirà la flotta –, eppure, come vediamo accadere a livello endemico nel mondo dei movimenti e della sinistra, non si è sviluppata unità d’intenti né d’azione.
Una seconda ondata a fine settembre
Nonostante le frizioni, la Freedom Flotilla Coalition ha deciso di prendere parte in ogni caso alla spedizioni perseguendo uno spirito di partecipazione in autonomia, e sta preparando quella che hanno definito la “seconda ondata” della missione civile via mare di questa estate 2025: una spedizione di circa una decina di barche che partiranno a fine settembre dall’Italia – sicuramente dalla Puglia – e dalla Tunisia, preparata in cooperazione con la rete Thousand Madleens to Gaza, nata prima della Global Sumud Flotilla e subito dopo la missione della Madleen, “seguendo l’ispirazione di una richiesta di Francesca Albanese che auspicava – come avevano fatto in tanti in quei giorni – mille Madleen verso Gaza”, spiega a Kritica la portavoce del comitato italiano Laura Cardile, regista e documentarista, esperta di missioni di salvataggio dei migranti in mare. “Dal nostro punto di vista, l’assedio di Gaza via mare, la protervia con la quale Israele blocca le navi in missione civile che si approssimano alle acque palestinesi in modo perfettamente legale, sequestrando e rapendo – non arrestando come tendono a dire i media – gli equipaggi fuori da qualsiasi regola del diritto delle acque e del diritto internazionale, costituiscono un tutt’uno con quanto Frontex da un lato, e la guardia libica dall’altro, stanno facendo ai migranti, alle navi di salvataggio e al Mediterraneo tutto: una occupazione delle acque e una cancellazione brutale dei diritti umani”. Alcune ONG stanno collaborando alla preparazione tecnica della missione di fine settembre, che, come nella tradizione della Freedom Flotilla, vede un ruolo di primo piano anche delle land crew, le flotte di terra che preparano il viaggio delle imbarcazioni.
Palestinesi sullo sfondo
La Flotilla rivendica un ancoraggio politico forte, nelle sue missioni, alla realtà del popolo palestinese, raccontata, quanto più possibile, dai palestinesi stessi. Dalla presenza di personalità della politica come l’eurodeputata franco-palestinese Rima Hassan, al ruolo di coordinatore logistico, per Freedom Flotilla Italia, di Shukri Hroub, dell’Unione democratica arabo-palestinese (sigla affiliata al Fronte popolare di liberazione per la Palestina).
Secondo Delia, la mancanza di unità fra Global Sumud e Freedom Flotilla si è creata per sole ragioni legate alla rapidità dell’azione: la Freedom Flotilla prepara le sue spedizioni con più tempo, gli organizzatori della Sumud desideravano, invece, agire tempestivamente. Ecco perché si sarebbero mosse sotto una sigla autonoma. Da parte della Freedom Flotilla, tuttavia, anche le divergenze su dimensioni e tempi della spedizione hanno un carattere politico: ciò che si intravede già in modo chiaro è il rischio di veder trasformare le missioni via nave in una iniziativa estemporanea, incentrata più sul bisogno tutto europeo e occidentale di agire tenendo i riflettori puntati su di sé, in modo pressoché inconsapevole e figlio di un privilegio incamerato senza autocoscienza – come tutti i privilegi che derivano da una posizione preminente nella società –, che non su un afflato di solidarietà internazionalista, in cui la posizione palestinese rimane centrale, così come rimane centrale l’agency palestinese nella scelta di come ricevere aiuti e sostegno in base alle esigenze della propria gente.
Nella campagna di comunicazione della Global Sumud Flotilla, affidata a uno stuolo di personaggi famosi italiani e internazionali, VIP di vario genere, a lasciare molto perplessi è, di contro, proprio l’assenza dei palestinesi. Sono bastati pochi giorni perché attorno alla Global Sumud Flotilla prendesse il sopravvento una logica di marketing virale, molto incentrata sui volti noti che si sono espressi in solidarietà con la missione, e dunque sul ruolo e l’umanità di chi proviene da questa parte del mondo, con messaggi che veicolano in primo luogo su un’urgenza umanitarista, condita da elementi di grandiosità come quelli cui accennavamo all’inizio dell’articolo, e da tratti di disobbedienza civile che, più che chiamare a una vera lotta, fanno surf sulle onde della lotta stessa; come nel surf, si sale sull’onda per cavalcarla prendendosi dei rischi, è pericoloso, richiede un certo coraggio; ma non è sumud, per l’appunto. Una volta tornati a riva, si rimane a riva, in una posizione di privilegio e sicurezza che non è quella vissuta dai palestinesi.
Gli esiti di questa operazione virale si sono riverberati sulla velocità con cui, nell’attività di raccolta fondi, sono state raccolte cifre inimmaginabili: considerate le diverse operazioni di autofinanziamento portate avanti a livello globale e nei diversi Paesi, la raccolta ha superato i due milioni di euro. Cifra che si può ritenere ragionevolmente superiore a quella raccolta da tutti i palestinesi che finora, negli ultimi due anni, hanno aperto conti Paypal, GoFundMe o Chuffed per farsi aiutare a sopravvivere. Un aiuto che, come ha spiegato l’architetto di Gaza Arkan al Sayed a Kritica in una recente intervista, è vitale per loro. Sono soldi che, nonostante il loro valore si sia più che dimezzato per via del mercato nero, rappresentano un introito vitale per continuare a sfamarsi.
Di fronte alla cifra monstre di approssimativamente due milioni di euro raccolti per la Global Sumud Flotilla, senza contare le centinaia di tonnellate di aiuti messi insieme in poche ore in mobilitazioni di grande afflato umanitario, come quella di Genova – dove i portuali hanno comunicato che si imbarcheranno sulla nave in partenza il 31 agosto –, la domanda da porsi non è tanto se questi soldi non possano essere meglio utilizzati, fosse anche solo per una parte, per mandarli direttamente a Gaza, piuttosto che investirli tutti nell’acquisto delle imbarcazioni, come è stato confermato che avverrà; la domanda è: ci si è confrontati con soggetti palestinesi, all’interno della Global Sumud Flotilla, per capire quali potessero essere le esigenze primarie da soddisfare con i soldi raccolti per questa missione, e come farvi fronte? Questo, ovviamente, tenendo anche presenti le ovvie necessità di rendicontazione delle spese, tanto più urgenti a fronte della cifra imponente che si è riusciti a mettere insieme.
Qui starebbe la differenza fra una missione incentrata sul protagonismo di chi salpa, o una missione di solidarietà internazionalista in cui al centro continua a esserci, piuttosto, il protagonismo di chi resiste sul campo alla mattanza quotidiana che subisce, alla disumanizzazione che subisce, alle umiliazioni costanti che subisce, alla cancellazione della storia, dell’identità, della dignità, della verità che subisce.
Se uno guarda a come il già citato Lorenzo Tosa, fra i più grandi sponsor della Global Sumud Flotilla, sta parlando da settimane di questa missione, è inevitabile sorridere di fronte a considerazioni come che “ci vuole coraggio” per fare video instagrammabili di sostegno alla spedizione – se ci vuole coraggio per questo, ecco spiegato perché lotte e conflitti scarseggiano così tanto in questo Paese –; ma, da un’altra parte, è inevitabile anche notare che gli unici palestinesi di cui nella sua ipertrofica produzione parla, sono quelli morti. Che non ci sono palestinesi agenti nella sua sterminata fila di ritratti e racconti; né ci sono palestinesi fra i tanti volti che hanno prodotto video di sponsorizzazione della Global Sumud Flotilla.
Il voyeurismo del disobbediente
Questo approccio così autocentrato fa il paio con uno dei principali rischi delle future missioni in partenza così come delle ultime che si sono svolte; un rischio ben individuato da Laura Cardile: “Nel mondo occidentale finiamo col produrre un voyeurismo attorno a queste missioni, incentrato tutto sull’adrenalina dello spettatore, che assiste emozionato a un sequestro in diretta”, gasandosi come in una puntata di Real Time. Durante l’ultima missione, quella di Handala, la presenza di una mini-troupe di Al Jazeera fra l’equipaggio ha fatto sì che il video del sequestro fosse visto da circa 20 milioni di persone. Un indubbio successo sul piano giornalistico, ma che cosa ci dice, tutto questo, sull’eventualità di trasformare una missione politica in un ennesimo spettacolo, con tanto di protagonisti e di comparse, e un popolo oppresso a fare a malapena da sfondo?
Cosa comporta tutto ciò per le nostre coscienze, e cosa per i palestinesi? Hanno davvero bisogno di una missione che, invece che instaurare un conflitto politico reale con un interlocutore reale, attraverso gli strumenti della politica, si limiti a metterlo in scena, a rappresentarlo quando non a scimmiottarlo, come da peggior copione dei movimenti disobbedienti degli anni Novanta e Duemila, persino a costo della sicurezza fisica dei partecipanti?
Elogio dell’impotenza vs bisogno di agire
C’è un diffuso bisogno di agire per cercare di fermare il genocidio in atto, un bisogno che fa il paio e cresce tanto più si registra l’inazione complice di tutte le istituzioni internazionali di ogni parte del mondo – non solo dell’Occidente –. È un bisogno nobile, legato alla volontà di non lasciarsi disumanizzare dalla normalizzazione del genocidio in corso con l’attivo contributo di tutti i principali sistemi di potere a livello mondiale. Tuttavia, la tentazione da parte di tanti è quella di agire purchessia; di fare qualcosa, prima ancora di pensare bene cosa. È la tentazione che nasce, di nuovo, da chi avendo l’immenso privilegio di non vivere un’oppressione esistenziale come quella che riguarda tutti i palestinesi in Palestina, sente il bisogno delle azioni eclatanti, quelle che in pochi giorni risolvono il problema e poi torniamo alla vita di prima. Quella tentazione che Basel Adra spiega, così bene, a Yuval Abraham in No Other Land. “Sei entusiasta come se in dieci giorni potessi cambiare le cose e poi andartene, tornartene a casa”. Cosa che per un palestinese non è possibile.
Ecco la differenza fra chi si imbarca sulle flotte umanitarie e chi invece si ritrova a confrontarsi ogni giorno con un esercito occupante che ha il sostegno di tutti i più ricchi e armati poteri del Pianeta.
È una differenza che, con grande umiltà, dovremmo riconoscere, e tenere sempre in conto. Anche quando si decide di costruire una missione umanitaria. Anche nei toni con cui la si comunica e la si pubblicizza. Anche in come ci si ragiona, la si promuove, la si sostiene. Ma perché sia così, servirebbe riappropriarsi di una cultura del conflitto che appare più che mai difficile da recuperare. Uno dei fondatori storici della Freedom Flotilla Coalition, Manuel Tapial, di recente ha rivolto una lettera aperta molto critica, tanto nei confronti della Freedom Flotilla Coalition quanto della Global Sumud Flotilla. Ne riportiamo un brano: “So quanto sia difficile mantenere viva questa iniziativa. Ammiro il coraggio di coloro che continuano a impegnarsi. Ma so anche che la solidarietà che non è radicata in comunità reali, in movimenti e lotte concrete, alla fine perde sia il suo significato che il suo impatto. Diventa irrilevante, anche se il “marchio” sopravvive.
Gaza non è un simbolo. È il luogo di un genocidio e intervenire è un dovere.
Scrivo della Flotilla, ma questa lettera potrebbe facilmente essere estesa alla Global March Coalition to Gaza e al suo silenzio acritico nei confronti del dissenso. Ho partecipato a entrambi i progetti e entrambi hanno vissuto dinamiche simili: mancanza di ascolto, autocompiacimento e fragilità mascherata da forza.
Intere famiglie vengono sterminate. Ospedali, scuole, panetterie ridotti in macerie. Bambini che scavano tra le macerie alla ricerca dei loro fratelli. Questo momento richiede più che semplici dichiarazioni. Più che foto. Richiede strategia. Rischio. Profondità. Impegno collettivo e attenta costruzione del consenso. L’urgenza in Palestina non scomparirà – non è scomparsa in oltre 80 anni – e dobbiamo prenderci cura di coloro che sono coinvolti nelle nostre iniziative per convinzione e sensibilità.
Mentre la Flotilla cerca di attirare l’attenzione in mare, migliaia di persone agiscono sulla terraferma, affrontando conseguenze reali, dure e spesso irreversibili. Non vengono detenuti per pochi giorni dall’entità sionista per poi essere rilasciati come eroi. Stanno scontando lunghe pene detentive nei loro paesi. E questa tendenza sta peggiorando con il protrarsi del genocidio. Queste persone non sono palestinesi, ma individui di altre nazioni che hanno fatto propria questa causa e stanno mettendo a rischio la propria vita”.
Tapial si riferisce agli attivisti di Palestine Action, associazione non violenta che pratica atti di disobbedienza civile a fianco della causa palestinese e contro le politiche genocidarie israeliane, nella stessa tradizione che va dal suffragismo storico all’ambientalismo: il governo britannico l’ha inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche e sostenerla, anche solo verbalmente, comporta ora il rischio di una condanna fino a 14 anni di carcere.
La Palestina intesa come laboratorio di disumanizzazione, autoritarismo e oppressione razziale e suprematista è qui dove noi già viviamo, e dove, finora, non siamo stati capaci di produrre conflitto politico tale da cercare di riappropriarsi di quella quota di potere necessaria a fermare sia il genocidio dei palestinesi, sia il progetto devastante di un nuovo autoritarismo globale che vede nella costruzione del Grande Israele la sua punta avanzata. Ci crogioliamo, invece, in un senso di impotenza doloroso, ma anche comodo. Un senso che non sfidiamo provando a ricostruirci in direzione politica, attraverso l’esercizio del pensiero critico e dell’immaginazione costruttiva. Questo anche per la ragione che continuiamo, in questa parte di mondo, a rimanere centrati sul nostro punto di vista, universalizzandolo quasi come un riflesso automatico, piuttosto che ascoltare quanto ci viene detto da chi osserva le nostre movenze dall’esterno.
Il cantante Seun Kuti, figlio del musicista nigeriano Fela Kuti – citato da Michela Fantozzi in un suo articolo per Kritica –, “il 24 giugno scorso dal palco dell’INmusic Festival a Zagabria ha detto: “Ho un consiglio per i giovani europei. So che volete liberare la Palestina. Che volete liberare il Congo. Che volete liberare il Sudan. Che volete liberare l’Iran… Liberate l’Europa. Liberate l’Europa dall’estrema destra, dal fascismo, dal razzismo, dall’imperialismo. Quando avrete fatto questo lavoro, non appena lo avrete compiuto, Gaza sarà libera, il Congo sarà libero, il Sudan sarà libero, l’Iran sarà libero. Dimenticateci. Non preoccupatevi per noi, liberate l’Europa!”.”
Rivendicare la libertà di una missione internazionale umanitaria in mare, perfettamente legale ai sensi del diritto internazionale, rappresenta un modo per liberare l’Europa? Sì. Senza esitazioni rispondiamo di sì. Il contenuto di questa rivendicazione, tuttavia, non si veicola da sé. Lo farà se, piuttosto che la grandeur della missione in quanto tale, sarà proprio questa rivendicazione ad assumere centralità durante la missione stessa. Lo farà se si farà guidare dai palestinesi, se non applicherà la logica unilaterale del salvatore bianco, se proverà a interrogarsi sull’internazionalismo e sulla solidarietà internazionalista che non sovrappone l’agency di chi aiuta a quella di chi resiste, se sfiderà l’inazione complice degli Stati tutti attraverso il conflitto reale, non solo quello simbolico, non appena tornati a riva, nelle vite quotidiane, augurandoci come prima cosa che tutti tornino sani e salvi.
Buon vento, kritico, alla Global Sumud Flotilla e a tutte le prossime missioni di giustizia e libertà nel mar Mediterraneo.

Giornalista, fondatrice di Kritica.it. Puoi leggere suoi articoli e saggi su MicroMega, Gli Stati Generali, Africa ExPress. Ha vinto diversi premi fra cui il Premio Luchetta – Stampa italiana nel 2022.