Dal blog https://jacobinitalia.it/
Giulio Calella 24 Settembre 2025
Politici e opinionisti impartiscono sermoni su come si lotta per Gaza. Ma di fronte al massacro in corso le parole di chi finora lo ha ignorato risultano particolarmente vuote
Non stupisce che Giorgia Meloni e Matteo Salvini, davanti a una giornata di sciopero e manifestazioni che hanno visto la partecipazione di oltre un milione di persone in tutta Italia, cerchino di dirottare l’attenzione sulle vetrine rotte e i tafferugli scoppiati tra un centinaio di manifestanti e le forze dell’ordine alla stazione di Milano.
Ma se le frasi di Salvini sono minacce di ulteriore repressione per chi protesta – «d’ora in poi chiederemo una cauzione a chi organizza cortei e manifestazioni, in caso di danni pagheranno di tasca loro» – le frasi di Giorgia Meloni nascondono tra le righe la preoccupazione di poter pagare in termini elettorali la nascita di un movimento di massa contro la guerra a Gaza.
«Indegne le immagini che arrivano da Milano – ha scritto la premier su X –: sedicenti “pro-pal”, sedicenti “antifa”, sedicenti “pacifisti” che devastano la stazione e generano scontri con le Forze dell’Ordine. Violenze e distruzioni che nulla hanno a che vedere con la solidarietà e che non cambieranno di una virgola la vita delle persone a Gaza, ma avranno conseguenze concrete per i cittadini italiani, che finiranno per subire e pagare i danni provocati da questi teppisti».
Sia pure involontariamente questa volta Giorgia Meloni ha qualche ragione. Nel senso che distruggere le vetrine della stazione di Milano forse non cambierà la vita delle persone a Gaza. Mentre la vita, e la morte, delle persone nella Striscia viene cambiata in modo molto più incisivo dalla vendita di armi italiane all’esercito israeliano, dall’opposizione a qualsiasi pur timida sanzione europea verso il governo di Netanyahu e dal mancato riconoscimento dello Stato di Palestina. Tutte azioni in cui Giorgia Meloni e il suo governo sono impegnati in prima persona, in piena complicità con il genocidio in corso.
Dopo le dichiarazioni della premier, era scontato che questa sarebbe diventata la linea propagandata dai vari telegiornali Rai ribatezzati «TeleMeloni» o dai giornali di destra. Colpisce però che questa linea sia stata subito sposata anche da giornali e televisioni non filo-governativi, se non addirittura esplicitamente anti-meloniani.
La prima pagina di Repubblica del 23 settembre titola «Piazze di pace e scontri a Milano», a cui seguono due pagine di analisi della presunta guerriglia, mentre il racconto degli scioperi e delle oceaniche manifestazioni in tutta la penisola arriva solo in seconda battuta. Sul Corriere della sera il titolo è direttamente «Guerriglia a Milano su Gaza», e le pagine interamente dedicate agli scontri diventano le prime 4, con analisi dense di clichè vagamente classisti e razzisti sui «maranza» delle periferie milanesi che avrebbero scatenato gli scontri.
Guardando la televisione «progressista» de La 7 la gerarchia delle notizie è sempre la stessa. Enrico Mentana la sera del 22 settembre apre il telegiornale proprio con gli scontri a Milano, definendoli «il fatto del giorno», dando solo come seconda notizia gli scioperi, i blocchi stradali pacifici e le manifestazioni. In una giornata in cui tra l’altro si apriva a New York l’ottantesima assemblea generale dell’Onu dove paesi storicamente vicini a Israele come Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo annunciano di voler riconoscere lo Stato di Palestina – ma anche questa evidentemente era una notizia minore rispetto alle vetrine in frantumi alla stazione di Milano.
Stessa impostazione a Otto e mezzo del 22 settembre dove la conduttrice Lilli Gruber chiede come prima cosa a tutti gli ospiti se si sono «indignati» davanti alle immagini degli scontri a Milano. Non solo quindi una sassaiola che distrugge qualche vetrina supera nella gerarchia delle notizie lo sciopero, le piazze piene e gli Stati che riconoscono la Palestina, ma nel giorno in cui le piazze esprimono la propria indignazione di massa per il genocidio in corso, con un’intera popolazione che viene bombardata e lasciata da mesi senza casa e cibo, si richiede prima di tutto di indignarsi per delle vetrine rotte.
In questo tranello cadono purtroppo troppo facilmente gli esponenti di Centrosinistra che – al pari della Cgil – non hanno partecipato alle manifestazioni del 22 settembre ma le hanno successivamente appoggiate. Rispondendo agli attacchi di Meloni molte dichiarazioni finiscono infatti per mettere goffamente quasi sullo stesso piano gli scontri alla stazione di Milano e lo sterminio di una popolazione intera: «Ho visto che Giorgia Meloni chiede a tutte le forze politiche di condannare i fatti di Milano – ha dichiarato la segretaria del Pd Elly Schlein – Io non ho alcuna difficoltà a condannare la devastazione della stazione di Milano e il ferimento di 60 agenti di polizia. Ma mentre noi la violenza politica la condanniamo sempre, stiamo ancora aspettando che Giorgia Meloni condanni i crimini di Netanyahu a Gaza come in Cisgiordania».
Dopo qualche mese di silenzio per gli scandali che hanno coinvolto la sua giunta e scoperchiato il cosiddetto «modello Milano», ha ripreso parola anche il sindaco della città meneghina Giuseppe Sala, ovviamente per dare una dura lezione ai manifestanti: «Il vandalismo di oggi, causato da frange violente, non trova giustificazione e certamente non aiuta la causa di Gaza», ha sentenziato. Pur non essendo dato sapere in quale modo Giuseppe Sala avrebbe aiutato finora la causa palestinese.
Si può e si deve ovviamente discutere dell’efficacia o meno di una pratica di piazza, di quanto sia utile o controproducente per una manifestazione, di quanto sia stata o meno decisa collettivamente da chi la manifestazione l’ha convocata, se sia trattato di una forzatura di un piccolo gruppo oppure di un’azione emotiva e disorganizzata. Ma il criterio minimo per poter dire «questa pratica non aiuta la causa palestinese» dovrebbe essere l’impegno concreto per fermare lo sterminio a Gaza.
Curiosamente invece, nei principali giornali italiani e nel mondo dei talk show, le lezioni su come si lotta contro il genocidio arrivano soprattutto da chi il genocidio non lo ha visto arrivare, lo ha negato fino a qualche settimana fa, o addirittura continua a negarlo.
Come non citare tra questi Beppe Severgnini, editorialista del Corriere della sera e ospite fisso della trasmissione di Lilli Gruber. Nella puntata del 22 settembre ha candidamente ammesso che per quasi due anni aveva sbagliato analisi su Israele. Pensava fosse una democrazia che stava esercitando il proprio diritto a difendersi. Ora – sostiene – le cose sono cambiate ma lui è intelligente e sa cambiare idea, e ora ammette che è in corso uno sterminio per la conquista della terra palestinese. Certo, non accorgersi per quasi due anni che c’è un genocidio in corso, tra l’altro in presenza di un pronunciamento in tal senso della Corte internazionale di giustizia dell’Aia già un paio di mesi dopo il 7 ottobre, non è esattamente un errore lieve per un giornalista. Severgnini ne parla però con la leggerezza di uno che ha sbagliato il pronostico dell’ultimo derby, e per questo subito dopo non rinuncia a stare in cattedra e a spiegare a chi manifesta qual è il modo più efficace per aiutare «davvero» la popolazione di Gaza.
Ma succede che anche chi è esplicitamente filo-israeliano dispensi consigli sul modo più efficace di stare «davvero» vicino alla causa palestinese. Come ad esempio un altro noto editorialista del Corriere della sera, Paolo Mieli, che da sempre sostiene che l’errore fondamentale di chi manifesta per la Palestina sia definire quel che accade a Gaza «genocidio». «Userò quella parola solo quando i morti saranno pari a quelli della Shoah», va ripetendo in ogni dibattito con un calcolo matematico che va in barba a qualsiasi norma del diritto internazionale. Perché secondo lui sminuire i crimini di guerra del governo israeliano servirebbe proprio ad aiutare «davvero» i palestinesi ad arrivare alla pace.
Di fronte a un genocidio trasmesso in diretta Tv, il gioco per cui chi di fatto appoggia o sminuisce lo sterminio di un popolo intero definisce violento chi manifesta per porre fino al massacro, stavolta però non funziona. È un gioco retorico che può irretire gli addetti ai lavori della politica, ma che rimane molto distante dal sentimento delle milioni di persone che sono scese in piazza o che hanno solidarizzato con chi si è mobilitato o si è imbarcato con la Global Sumud Flotilla. Del resto per questi stessi personaggi sarebbe una pratica violenta – divenuta penale con il Ddl Sicurezza – anche l’occupazione di tangenziali e autostrade, che invece sono state salutate dagli applausi degli stessi automobilisti bloccati, come avvenuto sulla tangenziale di Roma.
Qualcosa sta cambiando nel profondo della società ed evidentemente spaventa chi ci governa. Ma di fronte al massacro inconcepibile di un genocidio, la vecchia tattica di dividere i movimenti in «buoni» e «cattivi» è particolarmente vuota. Le lezioni di nonviolenza da parte di chi giustifica un genocidio fanno crescere l’indignazione e la voglia del movimento di scendere in piazza. Che, nel modo più maturo e condiviso possibile, dovrà scegliere le pratiche più efficaci possibili per continuare a «bloccare tutto».
*Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di Jacobin Italia.