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28 Ott , 2025|Alessio Mannino
“(note di redazione interna al blog di Gianni G.) Avendo militato nel M5S ed essendone uscito dopo aver visto l’involuzione dei “giggino boys” e dintorni (Grillo compreso) concordo su questa “teoria del partito possibile, nel senso tecnico-burocratico. Però qui manca un pezzo che anche Alessandro di Battista che stimo non ha affrontato. Per quali motivi si fonda un partito e come lo si fa nascere, ma soprattutto su cosa? Se non c’è la sostanza di merito sociale, economica, ambientale, se non c’è un modello di società desiderata nel tempo, pur perfettibile, perchè mettersi a fare un lavoro così complesso? Il M5S si è fatto prendere dall’emergenza continua del “fare”, dalla non progettualità complessiva. La struttura verrà dopo, da una collaborazione collettiva che nel M5S non c’è stata,essendo solo di vertice, mentre si da battaglia sui territori insieme a tutti quelli che hanno gli stessi obiettivi. E’ un percorso da immaginare, formule non ce n’è e se Alessandro è sempre stato un buon oratore, ma un pessimo pragmatico costruttore ci sarà una ragione “
Un partito di massa. Lo ha evocato Alessandro Di Battista alla conferenza “Che fare?”, organizzato da La Fionda venerdì 24 ottobre scorso. Sarebbe l’unico modello di riferimento che avrebbe senso adottare, per quanto lo riguarda, nell’eventualità che “fra un anno” decidesse di volgere il suo attuale impegno di attivista indipendente in una corsa elettorale. “Le nicchiette ci sono già, bisogna prendere i voti”, ha scandito il cofondatore dell’associazione Schierarsi. È una formula che colpisce, nel 2025. Evidentemente, l’esperienza del Movimento 5 Stelle, con i suoi forti limiti organizzativi , non sono passati invano. Tuttavia, a titolo di contributo può essere utile approfondire il concetto. In modo da evitare, caso mai una simile opzione dovesse concretizzarsi, di rifare certi errori.
Nell’attuale vulgata la forma-partito richiama, in contrapposizione ai movimenti o ai “partiti leggeri”, il radicamento territoriale. La memoria corre alla vecchia “sezione”, che tanta nostalgia suscita in chi porta i capelli bianchi. Provare nostalgia è un sentimento umano, con una sua poesia. Ma ha il difetto di essere regressivo, vale a dire di tenere mentalmente in vita un passato che, in quanto tale, non può tornare. In una società spoliticizzata che da questo punto di vista ha subìto una netta involuzione, la possibilità di una presenza capillare, Comune per Comune, non è più sostenibile. Perché non è più disponibile una “base” di militanti sufficiente, banalmente, a coprirne i costi. Né a dedicare il tempo adeguato per renderne sostenibile l’esistenza. Solo un piccolo numero di partiti, a tutt’oggi, può permettersi una relativa diramazione locale (non casualmente, Fratelli d’Italia e Partito Democratico, eredi di partiti storici, o la Lega, ultimo partito della Prima Repubblica ancora in piedi). Con ciò non si vuole sostenere che un recupero della fisicità, in un tempo così dominato dal virtuale, non rappresenti la giusta direzione verso cui tendere. Anzi: fosse per chi scrive, ad esempio, di contro a modalità elettroniche di votazione poco impegnative e suscettibili di sospetta opacità, una forza realmente partecipativa dovrebbe ripristinare, una volta aperte, o al limite affittate per l’occasione, delle sedi apposite, l’obbligo di voto in presenza per eleggere i dirigenti. Lasciamo agli informatici la fascinazione per trasformare tutto in un comodo pigiar di tasti col sedere inchiodato a casa.
No, quel che voglio dire è che non è la sola diffusione sul territorio, a costituire il carattere discriminante di un partito. E meno che meno di un partito di massa. Riassumendo, gli elementi fondanti che ne delineano il profilo sono quattro, interconnessi l’uno all’altro:
- Organizzazione verticale, dal semplice iscritto fino a vertici, con una gerarchia interna più o meno articolata;
- Formazione dei militanti, dei dirigenti e, naturalmente, dei candidati alle elezioni;
- Selezione della classe dirigente, in parte, almeno tendenzialmente, impegnata a tempo pieno;
- Contendibilità democratica degli incarichi.
Già il primo punto rappresenta un pugno in un occhio per quanti siano vissuti nel mito della cosiddetta “orizzontalità”, di quell’assemblearismo, benvenuto e rivitalizzante in momenti di spontanea eruzione della rabbia popolare, che tuttavia, se eletto a schema permanente, denota immaturità e inconsistenza strategica. Non c’è discussione: più un collettivo è esteso e numeroso, più sarà fisiologica al suo interno la divisione di compiti e, di conseguenza, la stratificazione di responsabilità. In ogni gruppo si forma un sotto-gruppo che decide per la maggioranza: a dirlo è la sociologia, oltre che la storia. A determinare, nel nostro caso, la sopravvivenza e la crescita di un partito è la qualità del suo gruppo dirigente. Vien da dire a maggior ragione oggi, che gli attributi richiesti per correre a un’elezione, a parte l’ovvia fedeltà alla leadership di turno, corrisponde in sostanza alla capacità comunicativa, all’abilità di vendere, su media e social media, la propria persona e il marchio, l’identità, di regola evanescente e ridotta a pochi slogan, del partito in questione.
Qui, in totale controtendenza rispetto a questo andazzo superficiale e vacuo, si imporrebbe un livello di istruzione propedeutica rigorosamente formativo (se non educativo, nel senso che spiegavamo in un articolo precedente). Un’azione politica che non preveda l’assimilazione di una cultura politica almeno di base, è destinata a mandare nei consigli comunali, regionali o in parlamento una pletora di individui inetti a muoversi nella cornice e nelle dinamiche specifiche di quella dimensione. Con gli effetti che si sono visti e vediamo ogni giorno. Non si tratta solo di acquisire nozioni fondamentali di diritto costituzionale o di marketing elettorale, ma di dotarsi di un robusto bagaglio di conoscenze in storia, in economia, in psicologia sociale e, certo, anche in linguaggi mediatici. E non ultimo, di interiorizzare il pensiero del proprio partito, posto che se ne sia elaborato, o almeno abbozzato, uno (sperabilmente di vasto respiro). Ci sarà stata una ragione per cui tutti i classici partiti di massa, nel cursus honorum interno, obbligavano a far tappa in scuole che erano dette, appunto, di partito. Qua sì che la rete telematica aiuta: l’istituzione di corsi può essere realizzata con poca fatica, a patto di poter contare su un corpo docenti. E a condizione, beninteso, che si tratti di un’istruzione vera, con prove ed esami per ottenere una certificazione senza la quale la candidatura in lista, poniamo, un aspirante candidato brocco e somaro se la scorda.
Altro punto decisivo, ed estremamente dolens, è proprio il criterio, o i criteri, di selezione dell’organigramma. E, ancor più dolens, la natura professionale dei quadri dirigenti. Veniamo da decenni di contestazione feroce della partitocrazia, sviluppo degenerato e tumorale della vita dei partiti i quali, ricordiamolo, pur essendo associazioni private sono espressamente citati nella Costituzione. Cosa che non giustificava la loro presa di possesso di ogni ganglio e anfratto dello Stato e del para-stato, durante quella Prima Repubblica oggi anche troppo spesso guardata – ci risiamo – con nostalgia. La figura del professionista della politica è stata il bersaglio principale dell’onda lunga che, da Tangentopoli al risentimento verso la “casta”, ha alimentato quello che in politologia si chiama “momento populista”. Che non è proprio un momento passeggero, visto che prosegue nonostante il naufragio del soggetto che ne è stato il massimo beneficiario: il M5S. Un partito, però, per esser tale, come si diceva, piaccia o meno deve essere strutturato. E una struttura, se non vuol risultare una scatola vuota, ha bisogno che chi si trovi ai gradi apicali possa investirci il proprio tempo, se non 24 ore su 24, di sicuro in misura prevalente. Non si scappa: impegnarsi in politica, fra incontri pubblici, colloqui, visite, riunioni, raduni e, se fatta seriamente, lettura e studio di dossier, equivale a un lavoro. E il lavoro, di qualsiasi tipo sia, va pagato.
Dice: ma se a ispirare l’attività politica è la passione, può bastare la volontarietà. Assolutamente no, perché così si taglia fuori in partenza chi non è abbastanza benestante, o comunque non svolge un impiego tale, in termini di tempo rapportato ai costi, da concedersi il lusso di fare il militante con incarico dirigenziale. Ecco spiegato fra l’altro uno dei motivi per cui, al contrario della militanza, l’attivismo comune in genere si configura, salvo eccezioni, come una vocazione di durata variabile, oscillante fra subitanei entusiasmi e cocenti delusioni, o a volte rifluente nelle sembianze, un po’ patetiche, dell’agitatore sempre prolifico di nuove sigle, siglette, partitini e versioni psicopatologiche di una “passione” in cerca di un ubi consistam. Ma diamo per buona l’ipotesi che, da questo lato, si trovi un equilibrio soddisfacente (che poi sarebbero le risorse economiche necessarie). Anche più ostica è l’ultima questione: il metodo selettivo interno. La pre-condizione l’abbiamo già sottolineata, e non si sottolineerà mai a sufficienza: il livello di preparazione. Ma formati i quadri, come gestiranno il partito?
Tramite il voto, democraticamente. Ogni carica deve essere eleggibile, contendibile. Da quella più bassa a quella più alta. Leader o capo compreso. Altrimenti, il partito diventa, o resta, un partito personale. E di partiti personali ce ne sono stati e ce ne sono già troppi. Ora, su questo aspetto vanno puntualizzate un paio di cose. La prima è che l’odierna cultura, come si dice, di massa, incornicia e impacchetta ogni segno (che non è il significato, il contenuto, ma la sua superficie visibile) in formati personalizzati. In politica, si parla infatti di personalizzazione. Fratelli d’Italia è Giorgia Meloni, la Lega è Matteo Salvini, il Pd è (un po’ meno) Elly Schlein. È un dato culturale, questo, dovuto a varie cause la prima delle quali è l’egemonia del marketing, della comunicazione di mercato, sull’immaginario collettivo. È chiaro quindi che nessuno può sottrarsi a una tendenza universale. In ambito politico, inoltre, come spiegava già Max Weber cent’anni fa, il carisma identifica un fattore determinante nella mobilitazione, ancora una volta, di massa. Le personalità con un fascino unico e irripetibile compongono un tassello essenziale nel mosaico finalizzato all’affermarsi di una forza politica (specialmente nella sua fase aurorale, movimentista, ma anche dopo).
Detto ciò, un frontman carismatico non è detto sappia anche guidare. Un capo non è solo colui che ha in mente una visione e sa tradurla in un legame emotivo-sentimentale con i seguaci. Non è, insomma, soltanto un influencer (così come un partito non può ridursi a una fanbase). Deve anche essere in grado di compiere tre operazioni non facili, ma indispensabili: delegare; dividere onori e oneri; mettere in conto di poter essere sostituito. E pertanto deve accettare che la strategia e l’articolazione del partito siano stabilite in congressi periodici, nei quali sia ammessa un’eventuale opposizione interna e tutte le scelte importanti vengano esaminate, discusse e messe ai voti. Per capirci: non esiste che il leader si svegli un mattino e decida in solitaria, o con il ristretto entourage dei suoi collaboratori (segreteria, nel gergo partitico), la prossima battaglia campale in cui si sostanzia la linea del partito. Questo, quanto meno, se parliamo di un leader all’altezza, e di una gestione democratica.
Intendiamoci: sappiamo tutti, o almeno si spera, che anche nel più formalmente democratico dei partiti, anzi proprio perché democratico, chi dirige poi tende a esondare, camuffando da democrazia un potere di fatto personalistico e cristallizzato in un cerchio magico, con il suo bravo codazzo di fàmuli e clientes. Dirò di più: possono esserci circostanze in cui il trascinatore di folle, il Beppe Grillo della situazione, può essere giustificato nel condurre con sistemi autoritari una realtà, com’era il M5S in ascesa, che nei fatti consisteva in una dittatura in alto e una caotica anarchia in basso. Ma un conto è agire con simili metodi per stato di necessità e impellenza (dovuta, fra parentesi, al rifiuto ostinato e insipiente di evolvere, per l’appunto, da movimento a partito). Altro, invece, sarebbe iniziare senza porsi il problema di creare qualcosa che viva, ci si augura, non di sola luce riflessa rispetto all’immagine e alle temporanee decisioni del capo. Dare vita a un partito di massa, oggigiorno, è impresa già di suo ciclopica. Se poi non dovesse rivelarsi nemmeno un partito, ma solo una massa, fluida e acritica, e per altro da vedere se e quanto numerosa, allora meglio dargli in partenza un altro nome.
In breve. Non sta scritto da nessuna parte che il modello sintetizzato sopra sia per forza l’unica strada. Ma se si intende percorrerla, occorre sapere cosa comporta. In ogni caso, quale che sia la formula, il calco originario del partito tradizionale racchiude le tre fondamenta di un qualunque progetto che voglia diventare politico e non essere solo elettorale: pensiero lungo, struttura solida e democrazia interna. Di: Alessio Mannino