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24 Ott , 2025|Alessio Mannino
L’articolo di Matteo Masi su La Fionda del 14/10 ha il pregio di aver riproposto il tema dei temi: l’identità di un futuro soggetto politico non genericamente “populista”, ma popolare, sovversivo, differente alla radice, sul piano umano, rispetto all’ideologia neo-liberale della pseudo-élite al potere. I lettori di questo giornale online, che è libero e aperto alla discussione, spero trovino utile il confronto con un punto di vista ulteriore, che segue una prospettiva schiettamente laica (ma non laicista). La questione riguarda il fondamento dell’azione politica, e all’osso può essere riassunta così: è sterile presumere di costruire una forza che voglia essere incisiva senza prima ritrovare il senso stesso della politica, pena il ricadere nell’errore genetico del Movimento 5 Stelle che è stato quello di non aver affrontato, per insipienza o inconsapevolezza o tutt’e e due le cose, il nodo gordiano di un “ripensamento radicale che tocchi la cultura, l’antropologia, la spiritualità”.
Il dato da cui partire è che viviamo in una società spoliticizzata. La parola “politica” è diventata una parolaccia. Con riflesso pavloviano, richiama il giustificato disprezzo per partiti trafficoni, privilegiati con poltrona, parlamenti esautorati, istituzioni nemiche della vita. Per la figura sociale dominante, l’individuo imprenditore di sé, economizzatore della vita e accumulatore seriale di esperienze, impegnarsi in politica significa perdere tempo (a meno, si capisce, di non tradurre lo sbattimento in carriera, puro strumento di status e di lucro). È sufficiente parlare con un ragazzo, magari genuinamente indignato per l’attacco ai “diritti” di minoranze o popoli oppressi, per rendersi conto che nell’orizzonte mentale della maggioranza è proprio saltato il piano del collettivo organizzato. Il concetto stesso che sia necessario contribuire in prima persona alla cosa pubblica sembra un residuo del passato. La dimensione del noi è stata inghiottita dall’io, il più lurido di tutti i pronomi: di conseguenza, l’investimento può essere emotivo e sentimentale, solitamente si alimenta di sdegno morale, e significativamente tende a circoscriversi al dato giuridico (i “diritti”, appunto). Ma non è in senso stretto politico poiché, come scrive Vincenzo Costa nel suo illuminante ‘Populismo senza popolo’ (Armando Editore, 2025), “il neoliberalismo ha dissolto l’uomo pubblico”, “ha marginalizzato il significato della vita pubblica”. Indotto a cercare la zona di comfort in ogni ambito, il disimpegnato medio, o impegnato a metà, oscillante fra depressione stabile e fiammate di protesta, per comodità o per rassegnazione alla fine si adagia su una sostanziale rimozione del Politico, ridotto alla logica della delega, al momento del voto. E difatti, frustrato e arrabbiato nel vedere che tutto cambia per non cambiare, va a votare sempre meno.
Diventa ineludibile, allora, ricreare le pre-condizioni per attivare un interesse che vada oltre lo sfogo da tastiera e l’episodico sciame di piazza. E anche oltre il movimentismo di nicchia caratterizzato, in genere, da un alto tasso di narcisismo autoreferenziale. Il che, tradotto, significa imboccare la lunga marcia in direzione contraria alla mutazione antropologica in atto, che disintegra l’animale politico che è in noi rimuovendo da una parte, i lati problematici e imprevedibili della realtà, conflitti, ostacoli, caos, e dall’altra, la struttura stessa della realtà e del pensiero, che dalla fisica quantistica alla neurologia sappiamo coincidere con la relazione. Per fondare nel concreto comunità al di là delle community virtuali, occorre plasmare e darsi un’etica e uno spirito condivisi. Ma con la soglia d’attenzione in caduta libera, lo studio di storia, geografia e filosofia relegato a optional, e soprattutto con un modo di vivere tecnologicamente deformato dall’imperativo del non fare fatica, un impegno politico autentico, magnanimo, permanente non può che essere appannaggio di pochi. Come difatti è. Ma questi pochi andrebbero quanto meno formati. Umanamente, non solo intellettualmente. Questo sistema di potere è infame e imbecille perché, valorizzando fantasie di onnipotenza, invidie primarie e pulsioni acquisitive, propizia i quarti di infamia e imbecillità presenti in ogni essere umano. Schiacciare l’infame, perciò, vuol dire allevare un più decente e valente tipo umano.
- Oggetto delle nostre riflessioni è dunque il piano pre-politico di selezione e addestramento di una contro-élite che, come dice la parola stessa, non potrà che essere ristretta. Del resto, è la democrazia in sé a costituire, nel suo aspetto partecipativo, una prassi inevitabilmente minoritaria. Non a caso è stata la scuola definita “elitista” (italiana, fra l’altro: Mosca, Pareto, Michels) a impartire a riguardo una lezione definitiva, fissando la costante per cui in ogni società o gruppo umano è sempre una minoranza a prendere le decisioni. Tutto il problema sta nel vedere quale minoranza.
- Ora, formare non equivale a istruire, alla pura e semplice trasmissione di un sapere nozionistico, consigliando letture, organizzando convegni o imbastendo corsi per una prima infarinatura generale, come lodevolmente sta facendo in questo periodo l’associazione Generazioni Future di Ugo Mattei. Tutto ciò va bene, ma la sfida sta nell’educazione. Educare ha a che vedere, niente meno, che con il destino: vuol dire estrarre il potenziale del singolo e scoprire a cosa è portato o non portato. È in tale passaggio che la pratica metapolitica comprende quella spirituale, se con spirituale intendiamo la coltivazione della totalità, riflessiva e anche pre-riflessiva, di una persona. Lo spirito è una faccenda personale e politica insieme, poiché socialmente determinata e al tempo stesso caratterizzata da un’unicità insostituibile e non replicabile. Si accompagna da un lato alla vita associata, senza cui non potremmo non dico vivere, ma neanche sopravvivere, ma al contempo afferisce alla sfera interiore di ciascuno, con le sue infinite variabili e sfumature. Prefiggersi di rinvenire dalla ganga dell’attuale sottosviluppo un ideal-tipo opposto al narciso dipendente dalle app, è un’impresa tosta, difficile e molto delicata. Il pericolo, già abbondantemente visto all’opera nei totalitarismi del Novecento, è di confondere il potenziamento di sentimenti come la lealtà (al partito, alla patria, all’ideale ecc) con la canina fedeltà, con un conformismo rovesciato, con il settarismo omologante. In secondo luogo, bisogna fare i conti con la scarsità di mezzi a disposizione, che consentono molto relativamente di radicalizzare le idee, vale a dire di radicarle in una costanza di momenti condivisi in presenza, faccia a faccia, ricorrenti, in cui non ci si dà semplicemente del tu, ci si dà del noi. Una comunità sorge solo attraverso una prassi comunitaria. Che deve però materializzarsi. Altrimenti, il benemerito ingaggio rifluisce a hobby, a poco più che un autolavaggio di coscienza.
- Venendo al cuore del discorso, di quale risanata fisiologia stiamo parlando? Come dev’essere, questo animale nuovamente politico? Non un homo novus, fantasma immaginato da chiunque abbia avuto una ricetta o profezia per salvarci e renderci felici. Una fantasticheria controproducente, fra l’altro, perché va a escludere a priori tutti coloro che non vi si riconoscono, i quali così divengono in partenza non iniziabili al “verbo”. Non uno snob moralista e giudicante, con le insopportabili certezze tipiche della destra cinica o della sinistra ipocrita. Più semplicemente, sarà di più larghe vedute di quella parodia d’uomo che è l’homo oeconomicus, figlio del lato oscuro del progresso, deresponsabilizzato e regredito all’infanzia, miscela di egoismo, onanismo e risentimento.
- Il nostro homo politicus prenderà vita se riattiverà le energie civiche grazie a una salda base di princìpi. I quali dovrebbero essere appunto princìpi, e non generici valori, per quanto forti. “Le cose hanno un valore, le persone una dignità”, scriveva nel 1960 Carl Schmitt nel suo ‘La tirannia dei valori’.
- I valori, oggi al massimo storico di politeismo, cambiano al cambiare della società, pongono fini storicamente situati che proprio perché fondati su nient’altro, in ultima analisi, che sul “grado di potenza” (Nietzsche), soggiacciono spesso al pericolo di venire assolutizzati.
- Con quel che segue in termini d’intolleranza, di viltà, di violenza. I valori sono convenzioni più o meno vitali, e possono scadere in paravento per ipocriti o pretesto per fanatici. Un’etica dei princìpi, al contrario, non riguarda i fini, ma i modi. I modi di comportarsi, di essere, di vivere. Nutrono il senso che si ha di sé e dell’esistenza. Sono modelli di condotta che rientrano nel campo dei doveri, non degli obblighi. Corrispondono a motivazioni valide di per se stesse, non a finalità strumentalizzabili. Si identificano nell’habitus, nel carattere, il quale vieta certi atti e impone altri. E, come si sa, ha bisogno di una pedagogia ampia, che abbracci l’interezza della personalità e quindi sappia spaziare nei territori della psicologia, della letteratura, dell’antropologia, dello sport, della meditazione. Scrive Salvatore Natoli: “Quel che dunque a ogni uomo tocca fare in primo luogo è saper conferire valore alla propria vita, qualunque sia l’oggettività dei valori in cui si trova a operare. In questo punto l’etica supera qualsiasi forma di obbligazione per divenire quel che significa nell’originarietà della sua radice éthos: essa è consuetudine, comportamento e, potremmo dire, stile di vita. Ora, solo colui che nella vita sa trovare un suo stile non solo conquista la misura per sé, ma può porsi come punto di riferimento per gli altri” (‘La salvezza senza fede’, Feltrinelli, 2008).
- I princìpi di condotta sono da considerarsi sacri poichè pre-politici, pre-ideologici e pre-religiosi. Di più: in quanto a-storici.. Si tratta delle virtù del tipo nobile, immanenti a ogni epoca e ogni temperie poiché fondati sulla psicobiologia dell’uomo, con i suoi neuroni-specchio dell’empatia e con la feconda aggressività del suo fondo ancestrale. Ne propongo cinque:
- Dispendio generoso di sé per lasciare qualcosa di proprio dopo la morte (virtus);
- integrità atletica nel perseguire la propria vocazione, in questo caso politica (gravitas);
- atteggiamento ospitale e conviviale, riflesso quotidiano di una socialità da far circolare e un orgoglio d’appartenenza da ritrovare (maiestas);
- cura di ciò che è comune e senso di giustizia a favore del più debole, per liberare la vitalità compressa (pietas);
- perno di tutto, saper essere di parola con sé stessi e con il prossimo, dimostrando sacrificio quando occorre (fides).
Regole di vita pratiche, come si vede. Niente di inedito. Anzi, profumo d’antico. Una visione ideale, certo. O meglio: una stilizzazione, allo scopo di infondere una tensione verso l’alto (non solo una “tecnica di sé”, alla Foucault). Purché controbilanciata da una sesta capacità, che forse suonerà strana ma strana non è:
- il senso delle proporzioni, da cui scaturisce il gusto di ridere sopra i limiti propri e altrui (hilaritas).
In una società psicotica e superficiale che, basta vedere quei lucidi pazzi dei transumanisti, rincorre l’immortalità e snatura il gioco in divertimento obbligatorio, accettare la nostra finitudine è quanto di più controcorrente ci sia: siamo mortali, tutto perisce, niente e nessuno è onnipotente.
Neanche la tecnica o l’economia, che vorrebbero farcelo credere distraendoci da quel quid d’immutabile che resta, e sempre resterà, fintantoché – diceva Mircea Eliade – sussisterà il “ritmo cosmico”, l’alternanza di luci-tenebre, di giorno e notte. Ed è nella notte che gli elementi tragici della vita, la morte, la malattia, il dolore, aprono un’inquietante e ironica finestra sulla libertà più profonda: sognare.
Nello spazio onirico dei sogni si vede benissimo, in un’oscurità paradossalmente chiarissima, che non esistono i “buoni”, gli “eletti”, i “superiori”, ma al contrario che tutti, inclusi i leader il cui carisma risulterà pur indispensabile, siamo limitati, imperfetti, difettati.
Questa è la spiritualità che ognuno, appena chiude gli occhi e apre la mente, può vedere, sentire, capire.
Si dirà: un ritratto del genere è l’uovo di Colombo, è fare filosofia.
Un’elucubrazione impolitica. Errore.
Semmai, è il passaggio preparatorio e funzionale a forgiare, tramite criteri formativi, un’avanguardia politica la cui ossessiva preoccupazione sia la credibilità.
Cosa rimprovera il cittadino ai politici in quanto tali? Di non essere degni di fiducia. Di non valere nulla. Di essere per professione disonesti. Di pensare ai propri affari anziché al bene comune. Di fregarsene di chi è in difficoltà. Tutte magagne che si ritrovano equamente distribuite, beninteso, fra gli elettori, che non vedono l’ora di scaricare ciascuno la propria quota di meschinità e ignoranza su esseri possibilmente ancora più meschini e ignoranti di loro.
Chi vuol essere creduto, deve dimostrarsi credibile. Ecco perché, prima di formulare l’ennesimo programma politico o lista dei desideri, è necessario prepararsi al compito. In un avvenire in cui l’intelligenza artificiale sarà sempre più in grado di gestire la conoscenza in modo prevedibilmente efficiente, è di intelligenza emotiva e scintille intuitive che avremo maggiormente bisogno. Cioè, per chiudere il cerchio, di spirito. Ma lo spirito, e l’immagine di mondo che può derivarne, non fiorisce senza un’immagine di sè che tempri la fibra e spinga a uno slancio verticale.
Così da tenersi alla larga, nei limiti del possibile, dall’esibizionismo, dalla fatuità, dalla ciarlataneria, dal vittimismo, e dalla spaventosa mancanza di senso dello humour e del paradosso che rendono il nostro presente così grigio, e quanto mai prolifico di dissidenti finti e piacioni.
Chi davvero vuole lottare con il fermo intento di mantenere la parola data, deve sapere cosa rischia: quando dice bene, il posto di lavoro; altrimenti, la vita di un familiare se non la propria.
Alle somme. La politica rinascerà da una riformattazione etico-spirituale, d’accordo. Ma attenzioni a fondarla su vaghi spiritualismi o, al contrario, su tradizioni bell’e pronte, sia pur rivisitate e diversamente interpretate. Assestiamoci su un comun denominatore di principio, appunto.
Per raddrizzarci la spina dorsale, intanto. I cervelli fini non mancano.
Manca una scuola d’iniziazione per rifondare una coscienza politica.
Iniziatico significa apprendimento continuo, miglioramento con l’esercizio, percorso nobilitante.
Accessibile a tutti, ma fattibile per pochi. Se intrapreso – e per riuscirci, al netto delle risorse, occorre anzitutto la volontà – l’immaginario, i simboli e i valori che cerchiamo potrebbero emergere dall’interfecondarsi di sensibilità e idee.
Se pensiamo invece che attualmente, perfino tra fratelli di trincea, cioè fra coloro che condividono le stesse battaglie, si fraternizza molto poco e, nonostante gli stramaledetti social, a malapena ci si scrive per scambiarsi pareri, allora agire a questo livello sarebbe, come si dice, tanta roba. Un salto di qualità. La quantità verrà dopo.
Di: Alessio Mannino