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Martedì 11 novembre 2025 Di Francesco Gaeta
Quando si parla di convertire l’acciaieria a una produzione meno inquinante i licenziamenti sembrano sempre inevitabili: non è così
Per gli impianti siderurgici si parla ormai da tempo della necessità di “decarbonizzare”, cioè passare a sistemi di produzione dell’acciaio meno inquinanti del carbone: concretamente significa sostituire gli altiforni a carbone con forni elettrici e quindi consumare molta più energia elettrica, ma anche riorganizzare il lavoro e insegnare nuove mansioni a lavoratori e lavoratrici.
È la direzione obbligata per l’ex ILVA di Taranto, a lungo la più grande acciaieria d’Europa, che attualmente il Governo gestisce in amministrazione straordinaria e sta provando a vendere tra molte difficoltà. L’offerta di acquisto presentata dal fondo Bedrock, che secondo il ministero delle Imprese è la migliore, prevede molti licenziamenti: gli addetti, oggi poco meno di 8mila, potrebbero ridursi a meno della metà. L’equilibrio tra la riduzione dell’impatto ambientale e la tutela di migliaia di posti di lavoro è da molti anni al centro di qualsiasi discussione sull’ex ILVA, che oggi si chiama Acciaierie d’Italia.
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Lo stabilimento ex ILVA visto dai tetti del quartiere Tamburi (ANSA / CIRO FUSCO)
In effetti è possibile che l’ex ILVA venga fortemente ridimensionata dopo un’eventuale vendita, anche se per ora è difficile dire quanto con esattezza. Produrre 1 milione di tonnellate di acciaio all’anno con un altoforno richiede in media mille lavoratori, un forno elettrico può impiegarne molti di meno. Quanti di meno dipende da vari fattori che non c’entrano solo col cambio di tecnologia produttiva, anzi: dipende soprattutto da scelte aziendali e del governo. La decarbonizzazione dell’industria siderurgica sta avvenendo con esiti piuttosto diversi in Europa, a seconda di come i governi decidono di procedere: ci sono 32 impianti siderurgici a carbone in dismissione (e 19 per cui al momento non è prevista) e 35 i forni elettrici in costruzione, e non sempre decarbonizzare si sta traducendo in licenziamenti di massa.
Tra le 8mila persone che oggi lavorano all’ex ILVA di Taranto, oltre 3mila sono in cassa integrazione, perché da mesi funziona un solo altoforno su quattro per via di una manutenzione insufficiente. Il risultato è una produzione di poco superiore a 1,5 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, ben al di sotto dei 6 milioni necessari a pareggiare i costi. Agli addetti diretti si aggiungono circa 4mila persone delle imprese dell’indotto, che forniscono servizi accessori: pulizie industriali, trasporti, spedizioni, sicurezza, impiantistica. Anche molti di loro sono in cassa integrazione, per gli stessi motivi degli altri.
La lavorazione dell’impianto è divisa in due fasi. La prima è la cosiddetta “area a caldo”, che comprende i quattro altiforni e le due acciaierie, da cui esce la “colata continua”, cioè il metallo fuso. La seconda è quella dell’“area a freddo”, dove si trasforma la colata nei semilavorati per le industrie. Alla prima fase lavorano in questo momento poco meno di 3.200 operai su 8mila, a cui si aggiungono altri 450 addetti alla centrale energetica connessa agli altiforni: sono quelli direttamente interessati dalla decarbonizzazione, visto che prevede l’eliminazione dell’area a caldo.
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Nel piano originario del governo, a Taranto altiforni e acciaierie dovevano essere sostituiti da tre forni elettrici ad arco (la sigla degli esperti è EAF, Electric Arc Furnaces) e da tre impianti per produrre il “preridotto” (qui la sigla è DRI, Direct Reduced Iron), il materiale ferroso che è la materia prima dei forni elettrici. Il tutto per una produzione complessiva di 6 milioni di tonnellate all’anno e un numero di lavoratori di fatto equivalenti a quelli attuali.
Questo piano però è stato nel tempo ridimensionato e sembra oggi molto lontano da ciò che intende fare il potenziale acquirente. Secondo fonti di diversi giornali non smentite, Bedrock prevederebbe a Taranto solo 2 forni elettrici e un solo impianto DRI alimentato a gas. Sarebbe dismessa anche l’area a freddo, con i lavoratori che oggi ci lavorano, che tra laminatoi e officine sono circa 2.340. Nel complesso questo ridurrebbe a un totale di circa 2mila i lavoratori di tutto l’impianto.
A incidere sulla proposta di Bedrock sono i costi del processo di decarbonizzazione: a Taranto lo smantellamento degli altiforni, la bonifica dei terreni e l’installazione dei nuovi forni costerebbe non meno di 3,2 miliardi, secondo la stima più prudenziale. È una cifra che un acquirente può accettare solo a patto di condividerla almeno in parte con il governo e a condizione di ridurre al minimo i costi operativi, che oltre a quelli dell’energia elettrica – per un forno elettrico ne serve molta, e in Italia costa cara – sono innanzitutto quelli del personale.
È dunque inevitabile che la possibilità di un contributo dello Stato sia al centro della trattativa per la vendita dell’ex ILVA. I sindacati chiedono che il governo mantenga una quota nella nuova società che verrà creata al momento della vendita, e che poi assicuri il reimpiego dei lavoratori in altre mansioni (obiettivo assai più difficile se la gestione fosse solo di una società privata, che tendenzialmente fa i propri interessi).
Secondo Loris Scarpa, responsabile del settore siderurgico della Fiom (la federazione dei lavoratori metalmeccanici della Cgil), evitare o ridurre gli esuberi a Taranto può avvenire in tre modi: prepensionamenti; incentivi all’esodo; riqualificazione professionale. La prima misura è ristretta a poche persone, visto che l’età media degli operai dell’ex ILVA di Taranto non supera i 50 anni. Le altre due hanno costi elevati per un investitore privato.
La questione più complicata è capire come indirizzare la riqualificazione delle persone nel tempo necessario alla transizione da una tecnologia all’altra, che si prevede possa durare tra cinque e sette anni: quindi come e a chi insegnare un nuovo mestiere, e quale mestiere. Stefano Basile, che fa parte della commissione regionale pugliese che si occupa delle crisi industriali, dice che bisognerà fare una lista delle «figure necessarie alla demolizione delle vecchie attrezzature e di quelle che lavoreranno nelle nuove». Serviranno carpentieri, elettricisti meccanici, saldatori, secondo Basile «profili che si possono creare tra chi oggi lavora all’ex ILVA».
È invece meno probabile che gli operai di oggi possano essere reimpiegati nelle operazioni di bonifica dei terreni dell’area, che sono inquinati da anni di produzione, e nella nuova filiera energetica, che dovrà essere creata o rafforzata. Per quelle attività «servono competenze troppo diverse», dice Basile.
In Europa passare dagli altiforni alimentati a carbone ai forni elettrici senza perdere occupati sta avvenendo grazie a consistenti sostegni pubblici. L’esempio più rilevante è la Germania, dove nei prossimi anni saranno spenti 13 altiforni e si costruiranno altrettanti forni elettrici e 8 impianti per il “preridotto”. Negli ultimi tre anni il governo tedesco ha stanziato oltre 7 miliardi di euro per quattro impianti gestiti da imprese private.
Molti degli impianti europei in costruzione poi richiedono l’uso di idrogeno: serve a ricavare dal minerale di ferro il “preridotto” attraverso una reazione chimica che non inquina. Per produrre idrogeno servono grandi quantità di energia rinnovabile, e per stoccarlo e trasportarlo (è un gas molto volatile) sono richiesti forti investimenti in attrezzature e reti. Questo comporta costi elevati per le aziende e i governi, ma sta anche creando nuovi posti di lavoro in un ambito affine a quello siderurgico: gli esuberi dei vecchi altiforni saranno in parte assorbiti nella filiera necessaria alla produzione di acciaio con un impatto ambientale molto minore.
Nello stabilimento Thyssenkrupp di Duisburg, che in Germania è il più grande ancora alimentato a carbone e produce oltre 11 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, la decarbonizzazione è finanziata con un contributo statale di 2,3 miliardi di euro, e l’azienda userà parte dei soldi per fare formazione professionale sull’utilizzo dell’idrogeno necessario agli impianti.
Un altro caso utile da guardare è quello di SSAB, un gruppo siderurgico partecipato dal governo svedese e da quello finlandese che sta convertendo gli impianti di Luleå (Svezia) e Raahe (Finlandia). Danno lavoro a 14.500 persone, eppure per la chiusura degli altiforni non si prevedono esuberi, perché molti lavoratori saranno formati e poi impiegati in tutte le fasi accessorie alla produzione dell’idrogeno (logistica e trasporto dei materiali, manutenzione degli impianti, eccetera): è possibile farlo perché tutti i processi della filiera sono gestiti da una sola società, che è controllata dai due governi.
Tag: acciaio–aziende–ex ilva–siderurgia