Non è un paese per vecchi

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14 Nov , 2025|Giulio Di Donato

In un intervento apparso qualche giorno fa su Il Fatto Quotidiano, l’artista e scrittrice Tiziana Michelotto ha messo in luce, con grande forza descrittiva, le condizioni delle strutture residenziali e semiresidenziali socio-sanitarie per anziani. Michelotto denuncia non solo le difficili condizioni di lavoro e la cronica carenza di personale, ma anche la situazione di isolamento, abbandono e separatezza che caratterizza molte di queste strutture. È, in diversi casi, una condizione di rarefazione della vita, di sospensione dell’esistenza, di vuoto di relazioni, in cui prevale un senso di estraneità verso se stessi e verso gli altri: tutto appare meccanico, ridotto alla ripetizione di abitudini minime, entro una cornice alienante di solitudine e passività, di assenza di stimoli e di motivazioni che coinvolge, a suo dire, tanto gli ospiti quanto gli operatori.

Il paradosso è che, mentre la medicina e la ricerca scientifica avanzano (pensiamo alla gerontologia, alla geriatria, alla psicologia dell’età anziana), nelle RSA sembra che il tempo si sia fermato. Qui c’è poca traccia di innovazione, di un salto di paradigma. Questa la conclusione di Michelotto.

Il suo messaggio è chiaro: serve un cambio di prospettiva. Le case di riposo devono aprirsi alla comunità, diventare luoghi di vita condivisa e non semplicemente di attesa. Le scuole, le Università, i centri ricreativi e culturali potrebbero, ad esempio, svolgere attività e lezioni all’interno di questi spazi; associazioni, artisti, studenti potrebbero così portare stimoli nuovi, nuove pratiche di ascolto, rianimando la trama delle relazioni quotidiane. Solo aprendosi realmente alla società, integrando il sociale con il socio-sanitario, è possibile creare un circolo virtuoso di energia positiva, dal quale non traggano beneficio soltanto gli utenti, ma anche gli operatori, gli infermieri e, più in generale, l’intera comunità che attorno a queste strutture vive e si muove.

In questo quadro, emerge con forza l’esigenza di una nuova urbanistica, fatta di quartieri inclusivi e di strutture residenziali integrate, affinché le RSA non siano un punto esterno o peggio estraneo, ma una componente viva della comunità, sostenuta da una presenza capillare di servizi sociali e sanitari territoriali. Perché, a proposito del rapporto tra spazio e diritto, là dove lo spazio non è adeguatamente valorizzato, anche i diritti di chi lo abita tendono a esserlo meno.

Come sappiamo, la storia delle nostre città e dei nostri borghi è anche una storia di luoghi di naturale incontro e confronto tra generazioni: le piazza, su tutte. Oggi, soprattutto nelle grandi metropoli, questa dimensione è andata in parte perduta. A Roma, ad esempio, negli ultimi decenni la periferia ha conosciuto la nascita di quartieri spettrali, costruiti non attorno a una piazza o a uno spazio polifunzionale, dove si possa fare sport, musica, teatro, ma attorno ai centri commerciali, concepiti come non-luoghi di aggregazione privilegiati. Sono l’immagine più emblematica di una visione urbanistica indifferente alle esigenze di una qualità della vita più ricca dal punto di vista delle relazioni e dei legami sociali.

Insomma, attorno a una residenza per anziani devono nascere attività di invecchiamento attivo, in collaborazione con gli enti del Terzo settore operanti sul medesimo territorio. Perché se è vero che, con il passare degli anni, si restringe il mondo, lo spazio delle relazioni e delle possibilità, è altrettanto vero che ciò che si perde in estensione si può recuperare in profondità: nella qualità dei legami, nella trasmissione tra generazioni, nella capacità di dare un senso alla sostanza delle cose più vere.

La situazione ovviamente si fa ancora più complicata in caso di disagio psichico. Oggi più che mai persone e famiglie si trovano sole nel compito, enorme e faticoso, di accompagnare un proprio caro in una condizione di sofferenza mentale.

Viviamo in un’epoca in cui la tecno-scienza e la medicina sembrano aver esteso il suo raggio d’azione a ogni aspetto dell’esistenza, eppure, paradossalmente, proprio nei momenti di maggiore vulnerabilità, le persone e i loro familiari, soprattutto quelle con maggiori difficoltà economiche, si scoprono privi del supporto medico e non solo medico necessario. Alla capillarità della dimensione diagnostica e classificatoria, che tende a moltiplicare etichette, codici e protocolli, si contrappone così la povertà delle pratiche di accompagnamento e di cura effettiva, vale a dire l’insufficienza di una rete di sostegno pubblico realmente efficace e di prossimità.

Il tema della territorialità dei servizi è dunque, ieri come oggi, cruciale. Soprattutto nei disturbi psichiatrici, dove la continuità della relazione e la vicinanza umana rappresentano una parte essenziale della cura. Durante la pandemia, questa rete già fragile si è ulteriormente incrinata: un’indagine della Società italiana di psichiatria ha mostrato che oltre un decimo dei Centri di salute mentale è stato costretto a chiudere, e molti altri hanno ridotto drasticamente gli orari di apertura. Solo le urgenze sono state garantite; tutto il resto (psicoterapie, riabilitazione, attività di gruppo, consulenze territoriali) ha subito una radicale contrazione. Nel frattempo, le richieste di aiuto sono aumentate e i Dipartimenti di salute mentale fanno fatica oggi persino a garantire i livelli essenziali di assistenza.

Una recente lettera pubblica alle Istituzioni di Gisella Trincas, presidente dell’Unione nazionale associazioni di salute mentale, denuncia con precisione di dati la situazione di sofferenza dei servizi di salute mentale territoriali e dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, che non riescono a rispondere tempestivamente alla complessità dei bisogni delle persone che vivono una condizione di disagio psichico. Tutto questo non è determinato solo dalla grave carenza di risorse e personale, che non permette una presa in cura tempestiva e continuativa, multidisciplinare e personalizzata, ma anche da una visione che ha trasformato gran parte dei servizi di cura in semplici dispensatori di farmaci.

L’altra nota dolente, di cui abbiamo già in parte scritto, è la mancanza di un sistema integrato che metta ad esempio in rapporto i servizi territoriali di salute mentale con i servizi sociali comunali, consentendo così il miglior utilizzo delle risorse professionali lì operanti.

Per costruire percorsi di ripresa individuali in salute mentale, serve insomma una nuova stagione di investimento nella salute territoriale, non solo economico, ma anche culturale e politico. Bisogna certamente intervenire rilanciando gli strumenti della programmazione pubblica, affinché i servizi di salute mentale e i servizi per le dipendenze siano realmente luoghi della prevenzione e della presa in cura, aperti tutti i giorni, ventiquattr’ore su ventiquattro. In modo da ricostruire quella rete di prossimità che renda possibile una presa in carico reale, continua, personalizzata, capace di sostenere le persone e le famiglie nel loro vissuto quotidiano.

La psichiatria, commenta giustamente Gisella Trincas, forse più di ogni altro ambito medico, si regge sulla presenza umana, sulla costruzione di legami, di fiducia, sull’importanza della dimensione relazionale diretta. Senza psicologi, educatori, infermieri di comunità, assistenti sociali, è impossibile dare attuazione allo spirito della Legge 180 e della Legge 833, che avevano posto al centro la persona e la sua dignità, in un quadro di relazioni non segnate da indifferenza e polverizzazione sociale.

Ritorna il grande paradosso già segnalato prima: mentre la società tende a una iper-medicalizzazione crescente, il diritto alla salute diventa sempre meno effettivo. Così, alla proliferazione diagnostica corrisponde, in modo altrettanto paradossale, l’unidimensionalità degli interventi terapeutici e la loro insufficienza complessiva. Se questo è lo scenario, resta da interrogarsi sul significato stesso del concetto dinamico e poliedrico di “cura”, in un contesto segnato da un crescente impoverimento dei legami e della presenza pubblica.

Ma un’ulteriore contraddizione è la seguente: mentre si assiste, foucaultianamente parlando, a una moltiplicazione del discorso sulla qualità della vita, che passa per la diffusione di un’infinità di parametri, indicatori e standard per definirla, misurarla, fissarla in schemi più o meno rigidi e quindi anche per delimitarla (dall’Indice di sviluppo umano dell’ONU alla Dichiarazione di Istanbul del 2007, fino al rapporto Stiglitz-Fitoussi del 2009), questa abbondanza di dati quantitativi si colloca in un contesto nel quale il grande rimosso è una narrazione egemonica su un’alternativa possibile di sistema, oltre i confini del liberal-capitalismo e l’orizzonte asfittico dell’emergenzialismo, oggi anche bellicista. I “dispositivi” di potere pubblico operano infatti dentro un quadro di compatibilità e di vincoli estremamente ristretto. E tutto ciò non consente alcun vero “salto dalla quantità alla qualità”.

Si può dunque osservare questo: alla moltiplicazione degli indicatori sul benessere umano corrisponde un’idea di benessere mai veramente colta nella profondità delle sue implicazioni. E così, la domanda di una forma di vita in comune diversa e più alta, dove possano fiorire insieme libertà e legami comunitari, contro la “subcultura dello scarto” che subordina il principio di esaltazione della dignità a logiche di utilità e performance narcisistica, rimane confinata alla semplice evocazione.

Di: Giulio Di Donato

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