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Christian Elia Laila Hassan 29 Novembre 2025
Le due vite di un giovane palestinese: prima attivista poi arrestato senza processo, fanno incontrare un giornalista e una ricercatrice ed esprimono venti anni di oppressione
Abbiamo conosciuto Bilal in due vite diverse, che per lui sono la stessa. Nel 2003, mentre raccontava a un giovane reporter come il muro costruito dagli israeliani avesse cancellato per sempre l’orizzonte con il quale erano cresciute generazioni intere della sua famiglia. E ancora, molti anni dopo, quando a una giovane laureata raccontava un paese che lei sentiva suo, ma che non aveva potuto conoscere davvero. A Betlemme, in entrambi i casi. Nella sua casa, prima, e a cena nel campo profughi di Dheisheh, al centro Laylac.
Attirava subito l’attenzione: «Perché un ragazzo palestinese parla italiano con questo marcato accento romano?», ti chiedevi. Ecco chi è Bilal: palestinese del vicino campo profughi di Aida, figura centrale del centro per bambini Amal Al Mustakbal, con il suo inconfondibile accento romanaccio. Che non smetteva mai di impegnarsi per la sua comunità: raccontandola, denunciando occupazione e apartheid, facendola toccare al giornalista e all’attivista, alla ricercatrice e alle delegazioni in visita, nei suoi effetti quotidiani sulla vita e sulla salute mentale delle persone. Raccontava, mostrava, mentre lo accompagnavi nelle sue faccende quotidiane, tra spese e lavori nel campo, o con un fotografo durante un’intervista. Nel gelo di dicembre, nel Natale in Terra Santa, o in una torrida estate. Sempre con lo stesso umorismo.
Mentre raccontava al giornalista, nel 2003, il muro in Palestina era ancora un’idea ed eravamo convinti che sarebbe caduto. E, con amarezza, Bilal faceva notare – chiedendo di scriverlo – che l’Italia forniva parti di tecnologia per quel muro. E non se ne faceva una ragione. Anni dopo, un 24 dicembre, tra i campi di Aida e Dheisheh, Betlemme era piena di italiani e decidemmo di preparare un pranzo natalizio all’italiana: lasagne. Mangiammo al centro Ibdaa; Bilal portò alcuni ragazzi del campo, prese in giro le nostre doti culinarie e finimmo per litigare. In quei giorni iniziai a conoscere davvero quell’omone palestinese, segnato dalla fatica della vita sotto occupazione. Un compagno che ama i compagni, soprattutto gli italiani. Davanti al centro Amal Al Mustakbal non mancano graffiti in italiano, dedicati a Dax e Renato, due compagni uccisi dalla violenza fascista italiana, tracce di una solidarietà che oggi appare così lontana, ora che la Palestina sembra irraggiungibile. E anche Bilal.
Da gennaio 2023 è in carcere, senza accusa e senza processo. Sono quasi tre anni, 1.095 giorni senza un suo messaggio o una sua chiamata; tre anni senza essere rimproverati, senza un incontro, senza un confronto con Bilal. Si chiama detenzione amministrativa.
Questa si basa su prove secretate e la persona arrestata non conoscerà mai i motivi per cui è stata arrestata e poi detenuta. Sulla carta viene garantito un diritto di difesa, ma non viene applicato. La detenzione viene giustificata per motivi di sicurezza e né le persone né i loro avvocati sono a conoscenza delle ragioni specifiche di tale ordine. Per la legislazione israeliana è sufficiente che un comandante militare sospetti che una persona costituisca una minaccia allo Stato di Israele. Il concetto di minaccia risulta molto vago, e soprattutto in un contesto di occupazione è ampiamente soggetto ad abuso. Il capo d’imputazione può essere qualsiasi cosa: un lancio di pietre nei confronti di oggetti, ad esempio il muro di separazione, può comportare pene altissime, così come la pubblicazione di un post sui social media.
Le corti militari sono un ulteriore problema, hanno la competenza di decidere sulla richiesta di detenzione amministrativa presentata dal comandante militare che nella maggior parte dei casi si limitano a ratificare senza mettere in discussione. Sono veramente pochi i casi in cui viene rifiutata la richiesta dell’esercito israeliano e questo dice molto sulla non indipendenza dell’apparato giudiziario militare israeliano.
Questo avviene in chiara violazione del diritto umanitario internazionale, in particolar modo dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta alla potenza occupante di deportare una persona per qualsiasi motivo dal territorio occupato al territorio occupante, in questo caso da quello palestinese a quello israeliano.
Qualche settimana fa i nostri Bilal si sono incontrati, per caso, senza che ne avessimo parlato mai. Archivio di Via Avesella, a Bologna. Tra documenti, opuscoli e volantini dell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi in Italia, la ricercatrice ha trovato un articolo del giornalista. Un vecchio reportage, per la rivista Peace Reporter, il progetto editoriale di Emergency. In quelle pagine c’era un’intervista al nostro Bilal. Sono passati almeno vent’anni da allora. Ci siamo scritti, ci siamo sorpresi e commossi. Abbiamo pensato entrambi alla stessa cosa: a Bilal, al carcere, alla sua assenza. Abbiamo pensato ai nostri Bilal, che sono lo stesso. Mentre, ancora ragazzo, sfidava i soldati delle torrette del muro per far vedere quanto ci metteva un bambino ad andare a scuola nel 2003, o nel 2022, quando insieme ai bambini e alle bambine di Battir accompagnava il gruppo ad arrampicare, Bilal era lo stesso, mentre denunciava e documentava l’occupazione e il colonialismo, e mentre sullele colline illuminate cantava e suonava canzoni della Resistenza italiana e palestinese. Non c’erano Israele, né la Nakba, né il campo, né il carcere, né il muro. Bilal, ieri come oggi, sapeva bene cosa voleva: era un uomo innamorato della giustizia e della sua causa, ma soprattutto del futuro palestinese, della gioventù. E il sionismo questo lo sa. E cerca di soffocarlo con tutti i mezzi, tutti illeciti, perché quello che conta è negare l’umanità a tutti i Bilal, deumanizzarli.
Ogni estate Bilal, insieme a tanti ragazzi e ragazze del campo di Aida, organizzava un campus estivo a cui accorrevano volontari da tutta Italia. Sport, attività ricreative, calcio, danza, canti. Decine di bambini che urlano, ridono, giocano, tutti con una maglietta rossa con il volto di Ghassan Kanafani. Il passato nel futuro. Amal Al Mustakbal, in arabo, significa «speranza nel futuro». Questo era il «nostro» Bilal. Un uomo che aveva già conosciuto carcere, violenza, paura. Sua madre se n’è andata senza poterlo salutare, vittima del sistema coloniale. Un dolore impossibile da misurare. A sua volta nato profugo, da una famiglia scacciata da Gerusalemme nel 1948.
In questi anni – per vie diverse – siamo sempre rimasti in contatto con Billo, come lo chiamano gli amici: per raccontargli la nostra vita, per chiedergli della sua. Con chi lo conosce bene abbiamo cercato di attenuare la paura immaginando quante ce ne urlerà dietro Bilal quando uscirà dal carcere. Le sue battute ciniche, il suo essere sempre su di giri, e allo stesso tempo quel cuore enorme, grande come l’amore per quella causa e per quella terra, che oggi lo inghiotte.
Billo è stato arrestato a gennaio 2023. Perché nulla è iniziato il 7 ottobre, se non l’ultima fase del genocidio e dell’annessione della Cisgiordania. Betlemme, senza di lui, ha un altro sapore, un altro suono. Il centro Amal Al Mustakbal è chiuso: niente urla di bambini, niente caffè in strada con sua madre, niente saluti a suo fratello, barbiere del campo.
Bilal, come oltre diecimila prigionieri e prigioniere palestinesi, aspettano di tornare alla vita, che possano riavere amal al mustakbal. Dal 7 ottobre 2023, secondo l’associazione dei detenuti palestinesi Addameer, sono oltre 20mila le persone arrestate in Cisgiordania. Le riflessioni che sono nate da questo incontro casuale, attorno a un vecchio articolo in un archivio, ci hanno posto di fronte a quante cose sono cambiate in questi anni. A molte riflessioni, a come il dovere di raccontare si deve confrontare con una generazione che ha il diritto di farlo senza essere invisibilizzata. A come chi si occupa da sempre di Palestina, per scelta o per nascita, finisca per essere meno ascoltato di chi è saltato sull’occasione, raccontando solo «vittime», o criminalizzando un popolo intero. Che invece è fatto di Bilal, da sempre e per sempre.
Bilal, come lo ha conosciuto il giornalista e come lo ha conosciuto la ricercatrice, che ama la vita. La amava nel 2003 e la amava vent’anni dopo, anche se tutto il mondo è cambiato. È cambiata l’Italia, sono cambiate le forme di solidarietà, è stata lacerata anche la parvenza di un diritto internazionale, è stata manipolata la narrazione della resistenza palestinese. Ma Bilal, il nostro Bilal, e tutti i Bilal conosciuti per vie differenti in Palestina, continuano ad amare la vita.
I nostri Bilal si sono incontrati grazie al lavoro di mantenimento della memoria fisica e cartacea, grazie all’archivio. Questo non può non farci riflettere sull’importanza e sul significato dell’archivio. Ieri come oggi. In un futuro non troppo lontano dove andremo a cercare le tracce, i documenti, gli articoli, le analisi politiche – palestinesi e non – oggi inghiottite dalle fauci di internet? Questa è una domanda necessaria, in un mondo digitale, dove il corpo, la carta, la materia, la relazione sono diventati beni effimeri, superflui come combatteremo contro l’oblio?
Questo piccolo esempio, l’incontro tra i nostri Bilal, ci ha portato a riflettere sull’importanza della collezione della memoria. In questi due anni abbiamo assistito a qualsiasi violazione della vita palestinese, saremo in grado di tenere traccia di ciò che è accaduto come monito per il futuro e come strumento di rivendicazione di giustizia per il popolo palestinese? Ricorderemo la strage dell’ospedale Al Ahli dell’ottobre 2023? la distruzione del campo di Nuseirat, l’attacco a Rafah? L’assassinio programmato di centinaia di giornalisti? Dove metteremo le centinaia di migliaia di storie di vita di uomini, donne, bambini, anziani palestinesi? Costruire un archivio del futuro è una responsabilità collettiva, per non dimenticare tutti i Bilal dannati della terra, per gridare al posto loro e chiedere giustizia.
Amiamo la vita, se solo possiamo viverla
Ovunque ci stabiliamo, seminiamo piante
Che crescono in fretta
E mietiamo la morte
Soffiamo nel flauto il colore della lontana distanza
Disegniamo un nitrito sulla polvere del selciato
E scriviamo i nostri nomi
Pietra per pietra
Ecco il lampo, illumina per noi la notte
Rischiarala almeno un po’.
Anche noi amiamo la vita, se solo possiamo viverla.
Mahmoud Darwish
*Christian Elia è giornalista e scrittore. Ha fondato e condirige dal 2013 la rivista online Q Code Magazine ed è direttore di ArabPop. È autore, con Francesca Albanese, di J’accuse! (Fuoriscena, 2023). Laila Hassan è ricercatrice presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ed è militante dei Giovani Palestinesi d’Italia, organizzazione politica dell’esilio palestinese in Italia.