Da Gianni Alioti 06/12/25
06/12/2025 Leonardo Boff

Alla COP 30 di Belém, l’Amazzonia ha acquisito centralità per la sua importanza nell’equilibrio climatico e nel rallentamento dell’aumento del riscaldamento globale. Sono state espresse opinioni di ogni tipo sull’Amazzonia. Vediamo cos’è e cosa non è.
Prima di qualsiasi considerazione, vale la pena di dire che l’Amazzonia ospita il più grande patrimonio idrico e genetico del Pianeta. Da uno dei nostri migliori studiosi, Enéas Salati, sappiamo: “In pochi ettari di foresta amazzonica esiste un numero di specie di piante e insetti maggiore di quello di tutta la flora e la fauna d’Europa”. Ma questa lussureggiante foresta è estremamente fragile, poiché sorge su uno dei terreni più poveri e dilavati della Terra.
Se non controlliamo la deforestazione, nel giro di pochi anni, l’Amazzonia potrebbe trasformarsi in un’immensa savana. È su questo che il grande esperto in materia, Carlos Nobre, ci mette continuamente in guardia.
Essa non è una terra vergine e intoccabile. Decine di popolazioni indigene che lì hanno vissuto e vivono ancora, si sono comportate da veri e propri ecologisti.
Gran parte dell’intera foresta pluviale amazzonica, in particolare la pianura alluvionale, è stata gestita da popolazioni indigene, promovendo “isole di risorse”, creando condizioni favorevoli allo sviluppo di specie vegetali utili come il babaçu, la palma, il bambù, gli alberi di noci brasiliane e frutti di ogni tipo, piantati o curati
per sé stessi e per chi passava di là. La famosa “terra nera degli indios” si riferisce a questa gestione.
L’idea che l’indio sia autenticamente naturale rappresenta un’ecologizzazione errata della sua natura, un prodotto dell’immaginario urbano, affaticato all’artificializzazione della vita. Egli è un essere culturale. Come attesta l’antropologo Viveiros de Castro: “L’Amazzonia che vediamo oggi è il risultato di secoli di intervento sociale, così come le società che la abitano sono il risultato di
secoli di convivenza con l’Amazzonia“.
Lo stesso dice nel suo istruttivo libro E.E. Moraes “Quando o Amazonas sfociava nel Pacifico” (Vozes 2007): “In Amazzonia rimane poca natura incontaminata
e inalterata dagli umani“. Per 1.100 anni i Tupi-Guarani hanno dominato un vasto territorio che si estendeva dalle pendici andine del Rio delle Amazzoni ai bacini dei fiumi Paraguay e Paraná.
Tra gli indigeni e la foresta, le relazioni non sono naturali ma culturali, in un’intricata tela di reciprocità. Loro sentono e vedono la natura come parte della loro società e cultura, come un’estensione del loro corpo personale e sociale. Per loro la natura è un soggetto vivo, pieno di intenzionalità. Non è, come per noi moderni, qualcosa di oggettivato, muto e senza spirito. La natura parla e l’indigeno ne comprende la voce e il messaggio. Per questo motivo è sempre in ascolto della natura e si adatta ad essa in un complesso gioco di inter-retro-relazioni. Hanno trovato un sottile equilibrio socio-ecologico e un’integrazione dinamica, nonostante ci fossero anche guerre
e veri e propri stermini come quelli del popolo sambaqui e di altre tribù.
Ma ci sono sagge lezioni che dobbiamo imparare da loro di fronte alle attuali minacce ambientali. È importante comprendere la Terra, non come qualcosa di inerte, con risorse illimitate che sopporta il progetto capitalista di una crescita illimitata. Essa è limitata nei suoi beni e servizi naturali. In quanto essere vivente, la Madre dell’indio deve essere rispettata nella sua integrità. Se un albero viene abbattuto, viene eseguito un rituale di scuse per salvare l’alleanza di fratellanza e appartenenza reciproca.
Abbiamo bisogno di una relazione sinfonica con la comunità della vita, perché, come è stato dimostrato, Gaia ha già superato il suo limite di sopportabilità. Abbiamo bisogno di più di una Terra e mezza per soddisfare il consumo umano e il consumismo malsano delle classi opulente.
Tuttavia, dobbiamo sfatare due miti. Il primo è: l’Amazzonia come polmone del mondo. Gli esperti affermano che la foresta pluviale amazzonica è in uno stato di massimo sviluppo. Vale a dire, si trova in uno stato di vita ottimale, in un equilibrio dinamico in cui tutto viene utilizzato e quindi tutto è bilanciato.
Pertanto, l’energia fissata dalle piante attraverso le interazioni della catena
alimentare viene pienamente utilizzata. L’ossigeno rilasciato durante il giorno dalla fotosintesi nelle foglie viene consumato dalle piante stesse di notte e dagli altri organismi viventi. Ecco perché l’Amazzonia non è il polmone del mondo.
Ma essa agisce come un grande filtro per l’anidride carbonica. Nel processo di fotosintesi, viene assorbita una grande quantità di carbonio. Ora, il carbonio è la causa principale dell’effetto serra che riscalda la Terra.
Se l’Amazzonia venisse mai completamente disboscata, circa 50 miliardi di
tonnellate di carbonio all’anno verrebbero rilasciate nell’atmosfera. Ci sarebbe una moria di massa di organismi viventi.
Il secondo mito: l’Amazzonia come granaio del mondo. Questo è ciò che pensavano i primi esploratori come von Humboldt e Bonpland, e i pianificatori brasiliani durante il regime militare (1964-1983).
Non è vero. La ricerca ha dimostrato che “la foresta vive di sé stessa” e in gran parte
“per sé stessa” (cfr. Baum, V., Das Ökosystem der tropischen Regeswälder, 1986, 39). È
lussureggiante, ma in un terreno povero di humus. Sembra un paradosso. Lo ha chiarito bene il grande esperto amazzonico Harald Sioli: “la foresta, di fatto, cresce sul suolo e non dal suolo” (A Amazônia, Vozes 1985, pag.60). E lo spiega: il suolo è solo il supporto fisico di un’intricata rete di radici. Le piante si intrecciano con le loro radici e si sostengono mutuamente alla base.
Si forma un’immensa, equilibrata e ritmica oscillazione. L’intera foresta si muove e danza. Per questo motivo, quando una pianta viene abbattuta, ne trascina con sé molte altre.
La foresta conserva il suo carattere lussureggiante perché esiste una catena chiusa di nutrienti. Non è il suolo che nutre gli alberi. Sono gli alberi che nutrono il suolo. L’acqua delle foglie e dei tronchi lava via gli escrementi degli animali arboricoli e di specie più grandi, così come la miriade di insetti che hanno il loro habitat tra le cime degli alberi.
Attraverso le radici, la sostanza nutritiva arriva alle piante, garantendo l’estasiante esuberanza dell’Hylea amazzonica. Si tratta di un sistema chiuso, con un equilibrio complesso e fragile. Ogni piccola deviazione può avere conseguenze disastrose.
L’humus, di solito, non supera i 30-40 centimetri di spessore. Con le piogge torrenziali, viene trascinato via. In breve tempo, emerge la sabbia.
L’Amazzonia senza la foresta può trasformarsi in un’immensa savana. Ecco perché l’Amazzonia non potrà mai essere il granaio del mondo. Ma continuerà a essere il tempio della più grande biodiversità.
Concludo con la testimonianza di Euclides da Cunha, uno scrittore classico della letteratura brasiliana e uno dei primi analisti della realtà amazzonica all’inizio del XX secolo, che commentò: “L’intelligenza umana non potrebbe sopportare il peso della prodigiosa realtà dell’Amazzonia.
Dovrà crescere con essa, adattandosi ad essa, per poterla dominare” (Um paraiso perdido, Vozes 1976, pag.15). Chico Mendes, martire della lotta ecologica in Amazzonia e tipico rappresentante dei popoli della foresta, vide con estrema chiarezza la necessità dell’essere umano di crescere con la foresta, sostenendo che solo una tecnologia che si sottometta ai ritmi dell’Amazzonia e uno
sviluppo guidato dall’estrazione della sua incommensurabile ricchezza forestale, preserveranno questo patrimonio ecologico dell’umanità.
Tutto il resto è inadeguato e minaccioso.
Leonardo Boff ha scritto “Todos os pecados capitais antiecológicos:a Amazônia” in “Ecologia: grito da Terra, grito dos pobres”, Vozes 1995.135-181.
(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti)