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10 Dicembre 2025 Piero Orteca
A un anno dal cruento epilogo della rivolta contro Assad, la nuova Siria islamista di al-Sharaa continua a lottare contro la tribalizzazione mentre aumenta il rischio di una nuova guerra civile. A Nord il problema curdo resta la ferita aperta che, più degli attriti con i drusi o gli alawiti, può provocare escalation tra le milizie e il nuovo esercito di Damasco. Un’altra Libia del dopo Gheddafi?

I curdi non si piegano
La storia è vecchia e i problemi altrettanto antichi. La cultura curda non ci sta a farsi assimilare da quella araba e lotta indomita per la sua autonomia. In Siria questo si traduce, innanzitutto, in un vero e proprio scontro di organizzazioni militari, che tocca l’esercito nazionale. Il nuovo leader, Al-Sharaa, vorrebbe che tutte le milizie disarmassero (comprese quelli curde), per poi confluire (in parte) nelle forze armate di Damasco. I curdi, però, considerato anche il fatto che il miglior alleato di Sharaa è il turco Erdogan, non ci stanno. Temono che, cedendo le loro armi, potrebbero essere esposti ai mutevoli (e spicci) umori del governo islamista, “consigliato” dai turchi. Insomma, la vasta regione del Nord-Est è ancora un fronte aperto, pronta a infiammarsi ogni giorno che passa. La situazione delle alleanze politiche, poi, è un vero ginepraio, dato che le Forze Democratiche Siriane (FDS, curde) sono tutte sotto la fibbia degli americani, che le sostengono generosamente. Per cui, pensare che Damasco le possa attaccare, significa ipotizzare un vero azzardo: al-Sharaa ha disperato bisogno di Trump per “sdoganarsi” e ricevere aiuti finanziari internazionali. In fondo, anche lui ha le stimmate dell’ex terrorista di marca jihadista. Questo per dire come orientarsi nel guazzabuglio siriano post-Assad sia una vera impresa, non esente dal rischio di puntare sul cavallo sbagliato.
Al-Monitor mette in guardia
Uno dei think-tank più autorevoli sul Medio Oriente, Al-Monitor, riporta in primo piano la Siria, dedicandole l’approfondimento del suo outlook quotidiano. E cita le recenti prime lauree di studenti all’Università curda del Rojava (a Qamishi) che l’attuale governo siriano non riconosce. “Le controversie sull’istruzione – scrive Al-Monitor – sono solo la punta dell’iceberg. Un anno dopo l’offensiva a sorpresa guidata dall’ex jihadista Ahmed al-Sharaa, che ha rovesciato il dittatore siriano di lunga data, Bashar al-Assad, l’entità a guida curda e Damasco rimangono più distanti che mai. Un accordo mediato dagli Stati Uniti, firmato il 10 marzo tra Sharaa e Mazlum Kobane, comandante delle Forze Democratiche Siriane, avrebbe dovuto fungere da modello per l’integrazione, ma non è stato ancora attuato”. La verità è che Al-Sharaa, sulla questione, ha fatto delle promesse che poi non ha mantenuto, alimentando l’ostilità della popolazione. “In cima alla lista delle questioni risolte – prosegue Al Monitor – c’è l’integrazione poi delle SDF nell’esercito nazionale in fase di formazione. I colloqui mediati dagli Stati Uniti tra le SDF e Damasco rimangono congelati e il governo centrale non ha ancora spiegato il motivo. Scontri sporadici tra le SDF e le forze legate al governo potrebbero degenerare in un conflitto più ampio, alla luce delle notizie secondo cui la Turchia starebbe inviando nuove truppe e armi pesanti nelle zone della Siria settentrionale sotto il suo controllo”.
La Turchia s’intromette
Dunque, come già sospettavano molti analisti, la longa manus della Turchia prosegue nella sua opera di condizionamento della politica siriana. D’altro canto, il chiodo fisso di Erdogan è quello di risolvere una volta per tutte il problema curdo. Per questo, ha spedito recentemente a Damasco il suo Capo di Stato maggiore, Selcuk Bayraktaroglu, dove ha incontrato Sharaa e il Ministro della Difesa siriano, Murhaf Abu Qasra. Nel frattempo, il Ministero della Difesa siriano ha inviato alle SDF una nuova proposta per disarmare. Secondo diversi osservatori, sembra che il testo, completamente ispirato da Ankara, preveda la completa sottomissione curda all’esercito nazionale. Ma quello che è più grave, riguarda le aspettative suscitate dalla notizia. “Tali mosse – scrive Al Monitor – hanno alimentato le speculazioni secondo cui la Turchia e Damasco stanno pianificando un’offensiva militare da tempo minacciata contro le SDF, mentre si avvicina la scadenza di dicembre, fissata per l’integrazione di queste ultime nell’esercito nazionale. Le SDF, il cui nucleo di combattimento è composto da uomini e donne curdi fermamente laici, hanno svolto un ruolo centrale nel favorire il crollo del cosiddetto Califfato dello Stato Islamico in Siria, guidato dagli Stati Uniti, perdendo oltre 11.000 dei loro combattenti nei cinque anni di lotta. Questo di per sé dovrebbe giustificare un maggiore sostegno da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente ai curdi, che cercano di ottenere garanzie costituzionali per preservare i loro diritti etnici a lungo negati, affermano i funzionari curdi siriani”.
Un conflitto, molte incognite
Insomma, per quanto abbiamo detto, le prospettive di stabilizzare definitivamente i fragili equilibri della regione non sembrano incoraggianti. Anzi, diversi segnali fanno pensare che, ancora una volta, si pensi di fare geopolitica senza tenere conto di una storia millenaria. “La simpatia per i curdi scarseggia tra gli arabi sunniti – ammette Al Monitor – che li accusano di avere sostenuto il regime di Assad in virtù della loro decisione di non combatterlo e di essersi concentrarsi invece sulla loro ‘agenda separatista’. Poiché nessuna delle due parti è disposta a fare marcia indietro, il rischio di uno scontro violento è in aumento, con i canali di informazione favorevoli al governo che diffondono una retorica anti-curda come per incitarne una, affermano i funzionari curdi siriani. Come si presenterebbe il conflitto? Due terzi delle SDF, che contano circa 70.000 combattenti, sono di etnia araba. Resterebbero con i curdi o i leader tribali diserterebbero a Damasco? Come reagirebbe il Congresso degli Stati Uniti, pronto ad abrogare completamente le sanzioni sulla Siria? E Israele si precipiterebbe in difesa dei curdi, come ha fatto con i drusi durante le violenze di Suwayda a luglio? Lo Stato Islamico non ne sarebbe il principale beneficiario? E che dire degli attuali sforzi della Turchia per forgiare una pace duratura con i propri curdi?”
Come si vede tutte domande di grosso calibro, per le quali è difficile ipotizzare una risposta preventiva. Certo, a guardare i curricula di chi oggi governa la Siria, non vorremmo che l’Occidente stesse semplicemente costruendo un’altra Libia del post-Gheddafi.