Dal blog https://www.terzogiornale.it/
Parla Andrea Noia, ingegnere
11 Dicembre 2025 Marianna Gatta
Andrea Noia, 56 anni, di cui cinque trascorsi in carcere, ci ha raccontato delle difficoltà incontrate nel tornare alla propria vita dopo l’esperienza detentiva, svoltasi tra il carcere circondariale di Pavia e la casa di reclusione di Bollate. Ingegnere, Noia si occupava di consulenza manageriale; oggi lavora in una società del settore immobiliare. Insieme a Caterina Ballardini, coordina la sezione italiana del Global Freedom Scholars Network (Gfsn), una rete internazionale nata all’interno della New York University e attiva in diciassette Paesi, che riunisce studenti, docenti e persone con esperienza diretta di detenzione, con l’obiettivo di promuovere l’accesso all’istruzione in carcere e sostenere percorsi di reinserimento che vadano oltre la fine della pena.
In Italia, chi esce dal carcere si trova spesso senza strumenti: non esistono percorsi strutturati per trovare un impiego, un’abitazione, o semplicemente per imparare nuovamente a muoversi nella vita quotidiana. Per molte persone, il ritorno all’esterno delle mura penitenziarie equivale a uno smarrimento profondo, come rientrare da un viaggio lunghissimo in un altro mondo, senza mappe e senza punti di riferimento.
Partiamo dalla fine: cosa significa davvero uscire dal carcere?
C’è un detto molto diffuso in galera: “è facile entrare, è difficile uscire”. Ed è assolutamente vero. È come la carta moschicida: entri facilmente, ma andarsene è un processo lungo, complesso, che aderisce alla tua vita, ti rimane addosso. Uno pensa: “esci, sei libero, è finita, puoi fare quello che vuoi”. Invece no, l’uscita è uno dei momenti più critici. Personalmente, sono quasi due anni che sono fuori e spesso ho ancora la sensazione di essere un fantasma. Per anni vivi in spazi compressi, chiusi, senza orizzonte; quando torni all’esterno, libero, il mondo ti sembra vasto, enorme, disorientante. C’è chi al primo permesso non riesce nemmeno a prendere la metro: va verso la carrozza, viene preso dal panico e torna indietro. Per chi, per esempio, ha alle spalle più di dieci anni di detenzione, è uno shock totale. Poi c’è la sensazione che tutti ti guardino, che tutti sappiano da dove vieni, che qualunque cosa fai sia sotto osservazione. La verità è che non sei più abituato alla vita fuori: hai imparato (a forza) altre regole, altri tempi, un altro modo di sopravvivere e riabituarti richiede tempo, energie, e un supporto che spesso non c’è.
Esistono percorsi di accompagnamento strutturati all’uscita?
Qualcosa c’è, ma sono frammentati, episodici, legati alla buona volontà di singole realtà, non a una strategia di sistema. Ci sono progetti giustamente concentrati sulla riduzione della recidiva, ma quasi nessuno si occupa davvero di come stanno le persone quando rientrano nel mondo: degli attacchi di panico, del senso di estraneità, del fatto che ti ritrovi in una società che è andata avanti mentre tu eri fermo. Io ho avuto il primo attacco di panico proprio andando a fare qualcosa che volevo fare: stavo in permesso a Catania, per una riunione del Global Freedom Scholars Network con dei rettori universitari. Sulla carta, una cosa bellissima: uscita, viaggio, un contesto intellettuale stimolante, eppure il corpo e la testa non reggevano. È un pezzo di percorso che oggi è quasi del tutto lasciato alla responsabilità del singolo.
Sei stato prima nella casa circondariale di Pavia e poi alla casa di reclusione di Bollate, hai riscontrato delle differenze tra questi due luoghi?
Una delle cose che mi ha colpito di più è proprio l’enorme disparità che c’è tra una struttura e l’altra. La distinzione fondamentale è proprio tra casa circondariale e casa di reclusione: la casa circondariale ospita persone in attesa di giudizio o che hanno pene brevi, sotto i cinque anni, spesso anche sotto i tre, mentre la casa di reclusione ospita persone condannate definitivamente. A Milano la distinzione è chiarissima, San Vittore è una casa circondariale, mentre Bollate e Opera sono case di reclusione. A Roma c’è Regina Coeli, che è circondariale, mentre Rebibbia è reclusione. Cambia l’obiettivo che c’è dietro: nella casa circondariale è soprattutto il contenimento, diventa un “porto di mare”, con persone che entrano ed escono, dov’è difficile creare percorsi veri e propri. Nella casa di reclusione, invece, esiste almeno teoricamente un trattamento, una sorta di rieducazione. Questa differenza, per chi vive dentro, è enorme: cambia la quotidianità, le possibilità, la convivenza, la qualità della vita.
Una volta uscito come hai ricostruito la tua vita sociale e relazionale fuori?
In carcere si dice: “entrerai solo, uscirai solo”. E c’è della verità: anche se hai una famiglia, una compagna, degli affetti fuori, la separazione forzata è uno degli aspetti più duri, che crea disagi emotivi forti. Uscendo, poi, ti accorgi che molte persone ti hanno lasciato, che il giudizio ha avuto un peso. Per quanto mi riguarda, ho deciso che non volevo passare la vita a nascondere il mio passato, né a cercare di convincere chi non aveva voglia di capire. Ho scelto di frequentare persone nuove, che mi conoscessero per come sono e sapessero fin dall’inizio: il mondo universitario, la rete del Global Freedom Network, persone che mi guardano per quello che sono ora, non solo per il reato che ho commesso. Oggi, fondamentalmente, frequento chi ha accettato questa parte della mia storia come dato di fatto. È una forma di protezione, ma anche di onestà: non devo spiegare ogni volta, non devo mettere in scena la mia biografia. Possiamo parlare di quello che c’è da fare adesso.
Sul piano lavorativo, qual è l’ostacolo più grande che hai incontrato dopo l’uscita?
Il problema non è solo trovare un lavoro: è la qualità del lavoro. Per esempio, io sono ingegnere e non posso più esercitare, pur avendo commesso un reato che non ha nulla a che fare con la professione. Ed è dovuto ai cosiddetti requisiti morali dell’Ordine. È folle. Ora ho un lavoro molto inferiore rispetto a quello che avevo prima, per età, per percorso, per tutto. E questo è solo il mio caso. Ci sono decine di istituti professionali, come per esempio per geometri, nelle carceri: i detenuti e le detenute studiano, si diplomano, e poi scoprono che non potranno mai iscriversi all’albo. Te lo dicono dopo: “Hai studiato, ma il geometra non lo potrai fare”. Sempre per i requisiti morali. È una cosa da fuori di testa. Faccio un altro esempio concreto: alla Statale di Milano c’è una persona che sta terminando il tirocinio come medico. Ha un passato con reati pesanti, per carità, ma sono passati venticinque anni e aveva diciotto anni quando ha commesso quei reati. Oggi è un’altra persona. Eppure non potrà fare il medico, studia e si impegna per dieci anni e poi alla fine gli dicono: “Bellissimo tutto, ma potrai essere assunto solo dalla cooperativa che fa le pulizie, perché loro sono obbligati a prendere un detenuto”. Non ci siamo proprio. Come fai a reinserire una persona se le metti altri ostacoli appena esce?
L’articolo 27 della Costituzione italiana sancisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, favorendone il reinserimento sociale. Pensi che sia rispettato?
Supponiamo che lo Stato abbia assolto quel compito: la persona è stata rieducata. Bene. Ma allora dobbiamo ricordarci anche l’articolo 3 della Costituzione: tutte le persone sono uguali e lo Stato deve rimuovere gli ostacoli di natura sociale che impediscono la piena realizzazione del cittadino. A che serve parlare di rieducazione se poi la condanna diventa, di fatto, una pena perpetua mascherata? Se non vengono rimossi gli ostacoli che incontra una persona uscendo dal carcere, il lavoro rieducativo serve a poco. Come associazione (Global Freedom Scholars Network, ndr) stiamo cercando di intervenire nella dimensione pratica. Sarà difficile, perché ogni ordine provinciale decide per sé, ma il problema è reale: ci sono persone che si laureano e non potranno mai esercitare.
Come nasce il tuo impegno nel Global Freedom Network?
Sono stato coinvolto quando ho iniziato a uscire con l’articolo 21 (l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario disciplina il lavoro all’esterno dei detenuti e internati, permettendo loro di lavorare fuori dal carcere, ndr). Studio all’università, a un corso in Politics, Law and Economics, e mi è stato chiesto se volevo essere il referente della sezione italiana. Ho accettato a patto di non essere da solo: per me era fondamentale che la guida fosse condivisa con una donna. Infatti, oggi il coordinamento in Italia è diviso tra me e Caterina Ballardini, anche per rappresentare le specificità del carcere femminile. Il Gfs promuove le opportunità formative e il sostegno post-carcerario per gli studenti detenuti in tutto il mondo. Nasce dall’impegno di una ricercatrice dell’Università di New York, che da anni lavora sull’istruzione in carcere, e oggi la rete è presente in diciassette Paesi. A un certo punto, ci si è resi conto che mancava la voce di chi aveva vissuto davvero questa esperienza nei singoli Paesi, e da lì sono nati i rappresentanti nazionali. In Italia, abbiamo deciso di concentrarci su un tema specifico: il reinserimento. A differenza di altri Paesi, dove il problema principale è l’istruzione durante la detenzione, da noi il buco nero è l’uscita.
Quali sono gli strumenti che state sviluppando?
Abbiamo attualmente due attività parallele. La prima riguarda la costruzione di un vademecum per chi esce dal carcere. Un documento semplice, pratico, che risponda a domande che oggi restano spesso sospese: “Il datore di lavoro può chiedermi se sono stato detenuto?”. Oppure: “Se me lo chiede, cosa posso fare?”, “quali sono i miei diritti e i miei doveri?”. Lo stiamo facendo insieme a diversi atenei, come Bicocca e Statale a Milano e l’Università di Brescia, perché vogliamo che sia uno strumento serio, ma anche facilmente utilizzabile da chi esce, dagli operatori, dalle associazioni. La seconda dimensione, invece, è quella dell’advocacy, che sembra una parola astratta ma non lo è. Significa sedersi ai tavoli con ordini professionali, magistrati di sorveglianza, avvocati, istituzioni, con chi ha il potere di incidere sulle leggi e sui regolamenti, e dire: “Queste norme sui requisiti di moralità producono esclusione, non sicurezza, e vanno cambiate”.
Ci sono Paesi da cui arrivano esempi positivi di gestione della fase detentiva?
In Spagna, per esempio, esistono strutture esterne al carcere, gestite a livello regionale, dove vivono persone con pene brevi o in fase avanzata di percorso. Non sono comunità terapeutiche per tossicodipendenti, sono luoghi pensati per chi ha una condanna ma può essere gestito fuori da un istituto di massima sicurezza. È un modello interessante, perché mette insieme tre elementi: riduzione dei costi per lo Stato, maggiore possibilità di reinserimento reale e diminuzione della recidiva. In Italia abbiamo circa il 60% delle persone detenute con pene sotto i tre anni. È assurdo che non ragioniamo seriamente su alternative strutturate alla detenzione in carcere per questa fascia.
Guardando al futuro, qual è il cambiamento minimo, ma decisivo, che vorresti vedere sulle politiche di reinserimento?
Bisognerebbe investire molto di più in un lavoro profondo sulla persona, creando le condizioni perché ciascuno possa fare una vera analisi critica dei propri atti. Oggi molte persone detenute non hanno né gli strumenti né le occasioni per intraprendere questo percorso, che invece è fondamentale. Servirebbe anche costruire molte più connessioni tra il dentro e il fuori: un impegno istituzionale per creare canali stabili di scambio, collaborazione, presenza della società civile. Sarebbero utili non solo durante la detenzione, ma soprattutto nel momento dell’uscita. Poi dovremmo sviluppare molto di più le alternative alla detenzione, come avviene in Spagna: strutture intermedie, comunità, percorsi di responsabilizzazione che evitano l’ingresso in carcere quando non è necessario.
E infine dovremmo smettere di fare finta che la pena finisca il giorno della scarcerazione. La pena, oggi, continua fuori: nello stigma, nelle barriere normative, nei requisiti morali che impediscono l’accesso alle professioni, nella difficoltà a trovare casa e lavoro. Mettere una persona nelle condizioni di stare bene, con se stessa e con gli altri, è essenziale. Chi ha un lavoro, chi può utilizzare le competenze che ha faticosamente acquisito, chi non viene bloccato da ostacoli inutili, ha molte meno probabilità di tornare a commettere reati. Continuare a tenere queste persone ai margini non è solo ingiusto: è anche profondamente miope.
(Si ringrazia Filippo Zingone per la collaborazione all’intervista).