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13 Dic , 2025|Giuseppe Giannini
I soliti noti — Google, Amazon e Microsoft — hanno messo le mani sul settore di cui si straparla: l’intelligenza artificiale. Ancora una volta, essi sono i padroni da cui dipenderanno tutte le realtà, aziendali e statali, che vorranno investire per migliorare la propria efficienza. L’oligopolio tecnologico conferma una tendenza già emersa in passato, nel pieno della globalizzazione economica, quando, sul finire del secolo scorso, pochi grandi gruppi dettavano legge sopra governi e nazioni, imponendo regole basate unicamente sulla competitività e, quindi, prive di etica, sacrificando territori, ambiente e popolazioni.
È avvenuto soprattutto nei settori dell’agrobusiness, con il monopolio delle sementi, e della farmaceutica, con i brevetti. Qualcosa di simile è alle porte. La mancanza di trasparenza e la sudditanza delle classi dirigenti al profitto di pochi sono evidenti. Abbiamo a che fare con tecnologie e dispositivi immediatamente operativi, usufruibili da tutti (si pensi alla messaggistica WhatsApp con IA incorporata). Un monopolio, quindi, che impatta direttamente sulle vite, rendendo normali procedure di acquisizione, estrazione e diffusione di contenuti che, invece, richiederebbero la supervisione delle autorità governative.
Un conto è l’accessibilità in contesti nei quali già sussiste un patrimonio culturale-esperienziale (conoscitivo), nei quali l’IA viene vista come supporto che aiuta a rendere più facili i compiti. Tutt’altra cosa è la diffusione di strumenti autogenerativi di contenuti, sostitutivi delle attività umane, dai quali bisognerebbe diffidare e prendere le distanze (si pensi ai video che riproducono le sembianze di persone e che possono essere utilizzati per gli scopi più diversi, anche per nuocere agli avversari). Una sorta di doppelgänger, un doppio malefico prestazionale, che appare quasi perfetto, presentabile, ma, in quanto tale, irreale.
Urge, dunque, una regolamentazione seria del settore, onde evitare che, con le sue infinite possibilità, possa spingere ancora oltre la disumanizzazione delle vite (già modellate e sconvolte dall’internet delle cose, nel quale l’orizzontalità, invece di essere sinonimo di democrazia, è diventata strumento di asservimento e dipendenza). Non meno rilevante è l’impatto ambientale. Le energie richieste dai data center, infatti, comportano l’utilizzo eccessivo di elettricità e acqua. Alla pari delle tecniche di estrazione delle terre rare o delle monete dei circuiti dei mercati paralleli (le criptovalute), esse si risolvono in meri consumatori di risorse, determinando, di conseguenza, desertificazione e impoverimento diffuso, nonché fenomeni estremi, tra i quali ricomprendere anche possibili blackout elettrici causati dal sovraccarico delle reti.
È del tutto evidente che il tanto decantato progresso sia qualcosa di riservato a pochi eletti, che ne detengono le redini e agiscono nelle retrovie come manovratori delle esistenze altrui. Anzi, esso sarà la causa di forme inedite di sfruttamento: la cacciata degli indesiderati (il controllo intelligente delle frontiere, l’attacco ai migranti, le nuove guerre ipertecnologiche) e l’espulsione dal mercato del lavoro di centinaia di milioni di persone. Posti persi e mai più recuperabili, per i quali non è pensata alcuna forma di risarcimento o di sostegno di base al reddito.
L’intelligenza artificiale come risultante della divisione sociale dei (e nei) lavori: gerarchie, specializzazioni, inasprimento delle differenze sociali. Con la stessa forza-lavoro che la produce, si impegna nell’apprendimento e, alla fine, viene abbandonata al proprio destino. Il sapere condiviso è messo a disposizione dei diktat calati dall’alto, i quali impongono, così come avvenuto con internet, la rimodulazione delle produzioni, dei servizi e dei lavori. La nascita di nuove competenze darà luogo a nuovi lavori, che rimarranno in essere sino a quando il mercato lo vorrà; altre, vecchie mansioni, scompariranno. Il meccanismo di sostituzione sarà ancora più intensivo.
Il fine, malgrado l’apparente leggerezza nell’esecuzione delle attività, è sempre quello dell’estrazione del plusvalore. Se nei settori meno qualificati (riguardo alle competenze dei lavoratori e ai mancati investimenti nelle innovazioni) permangono antiche forme di sfruttamento, con turni, retribuzioni e scarse protezioni sociali, in quelli adattati al cambiamento il plusvalore è determinato dal risparmio di tempo. Ciò non vuol dire che vi sia assenza di servilismo: in questi casi esso corrisponde alla prestazione che segue i dettami della macchina-mostro intelligente. Il lavoratore accetta gli ordini e mette a disposizione le proprie competenze per garantire i profitti, mentre gli eventuali miglioramenti restano tutti da verificare.
Rimangono contesti — i costi sociali e ambientali — da sacrificare via via che si scende nella scala dei lavori e le operazioni richiedono manualità a basso costo. Più le innovazioni sono sofisticate, maggiori sono le potenzialità dei dispositivi di indurre alla subordinazione e al controllo di quanti non riescono ad avere la capacità di districarsi all’interno di un mondo che si autoalimenta da sé.
Quando il mezzo della tecnica viene a sostituire l’operatività umana, ne elimina conseguentemente ogni possibile futura attività. La vita disciplinata dalla tecnologia rende subumane le esistenze, indottrinate dalle magnifiche sorti progressive di soggetti alieni che trasformano il tempo, lo spazio, la percezione stessa. L’evoluzione che, da internet all’intelligenza artificiale, diventa qualcosa di strumentale al dominio: sorveglianza, controllo da remoto, spersonalizzazione. Tutti connessi, ma distanti dal sé e dagli altri. L’assenza come fatto normalizzato dal totalitarismo digitale.