Gli Agnelli, la Juve e il capitalismo italiano

dal blog https://jacobinitalia.it/

Vincenzo Scalia 15 Dicembre 2025

L’offerta, per ora rifiutata, presentata dal fondo bitcoin Tether per l’acquisto della Juventus, apre una serie di riflessioni sia sullo stato del calcio che su quello del sistema produttivo del nostro paese

La Exor, cassaforte della famiglia Agnelli, proprietaria della Juventus, ha rispedito al mittente l’offerta presentata dal fondo bitcoin Tether (guinzaglio in inglese) per rilevare la società più titolata d’Italia, tifata da un terzo degli appassionati di calcio del nostro paese. Le motivazioni addotte al rifiuto dell’offerta hanno fatto leva sui sentimenti e sull’identità, ricordando che il controllo della società bianconera, da oltre un secolo in mano ai proprietari della Fiat, ha un significato che, al di là della resa dell’asset Juventus, attiene alla sfera sentimentale. 

Una risposta che sembra chiudere la partita, ma in realtà apre una serie di riflessioni sia sullo stato del capitalismo italiano, sia su quella del calcio. A leggere tra le righe si capisce che la questione non è tanto quella del sentimento, quanto del valore dell’offerta. Gli attuali proprietari sanno che la Juventus, malgrado gli affanni degli ultimi anni, rappresenta un marchio appetibile per gli investitori e la valutano 2 miliardi di euro, molto al di sopra del miliardo e rotti offerto da Tether. Di sentimentale, in questo, c’è ben poco. 

Inoltre, non si capisce come mai, se la Juventus suscita il richiamo ai sentimenti, non si possa dire lo stesso delle altre attività controllate dai proprietari della squadra torinese. A partire dalla gestione di Sergio Marchionne il settore automobilistico è stato sistematicamente smantellato, con la chiusura di stabilimenti come Termini Imerese, mentre altri poli produttivi, come Mirafiori, attendono con ansia di conoscere il loro futuro, con le voci di chiusura che circolano insistenti. La scelta di dismettere i marchi storici di famiglia è già stata portata avanti vendendo l’Iveco, uno dei comparti storici della produzione di veicoli industriali, nonché di indiscussa qualità, l’estate scorsa. È poi di questi giorni la vendita prossima dei quotidiani La Stampa, da anni proprietà della famiglia Agnelli, e de La Repubblica a una proprietà greca in cui comparirebbe anche lo sceicco saudita Bin Salman, distintosi per il brutale omicidio del suo compaesano giornalista Khassoggi. 

Si tratta di precedenti che lasciano pensare a una prossima cessione del club bianconero di fronte a un’offerta ritenuta più vantaggiosa, segnando il culmine di una parabola che, iniziata alla fine degli anni Ottanta, ha riguardato non soltanto la famiglia Agnelli ma anche il capitalismo italiano nel suo complesso. Alla fine del 1987, l’allora amministratore delegato Fiat, Cesare Romiti, quello della marcia dei 40.000 che pose fine allo sciopero dei 35 giorni, proclamò che la strategia del gruppo sarebbe stata quella di «differenziare gli investimenti». In altre parole, si scelse di non investire sulla modernizzazione del comparto produttivo. Una scelta esplicitata con il licenziamento di Vittorio Ghidella, responsabile del settore auto, che insisteva sulla necessità di puntare sull’auto elettrica, in un periodo in cui la Fiat avrebbe potuto giocarsi qualche carta. La finanziarizzazione del capitalismo italiano, catalizzata da Tangentopoli – che sancì il termine del sostegno all’industria assistita – e dalla globalizzazione, seguì alla scelta strategica del principale gruppo privato italiano. 

In altre parole, si è trattato della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti, non soltanto in termini di licenziamenti, casse integrazioni e prepensionamenti a carico della collettività. Gli aspetti relativi alla distruzione dei saperi, delle professionalità, delle comunità che si formano e gravitano attorno al tessuto produttivo, del deperimento economico, rappresentano i frutti avvelenati della differenziazione degli investimenti.

Sfoltito l’ambito materiale, gli eredi degli Agnelli si stanno volgendo a quello immateriale, sempre più fondamentale in una società basata sulla centralità crescente della sfera cognitiva. Identità, idee, emozioni, innervano le relazioni sociali. Il capitalismo immateriale fa di tutto per invaderle, per ridurle alle logiche binarie, per anteporre il brand alle rappresentazioni collettive. Quest’ultimo aspetto è centrale in relazione al calcio. Le squadre si formano come articolazione sportiva di comunità locali e nazionali, di cui incarnano i valori e le aspirazioni. Una tendenza che negli ultimi vent’anni tende a venire sempre meno, fagocitata dalla spinta a ridurre lo sport a un’ennesima industria dell’intrattenimento. 

È il caso della Juventus, la cui popolarità nazionale va messa in relazione con la massiccia immigrazione meridionale nella Torino degli anni Cinquanta e Sessanta, dove il tifo bianconero costituiva un canale di socialità alternativo in risposta all’esclusione che siciliani, pugliesi e calabresi subivano dalla società locale, ma anche dalla classe operaia torinese. Granata, comunista, che vedeva con diffidenza i terun arruolati con la lettera del prete in catena di montaggio, che accettavano stipendi da fame e facevano deteriorare le condizioni di lavoro e i salari. Eppure fu da questa frattura che si generarono i fatti di piazza Statuto, che nacquero le sollevazioni spontanee, che partì un ciclo di lotte destinato a durare fino alla marcia dei 40 mila del 1980. 

Furino, Anastasi, Longobucco, Causio, Brio, meridionali che giocavano nella Juventus, rappresentavano la proiezione delle aspirazioni a una vita migliore delle centinaia di migliaia di Gasparazzo (operaio meridionale immortalato nelle vignette di Lotta Continua) che lavoravano negli stabilimenti Fiat e miravano a riprendersi la città. Il seguito di cui la squadra bianconera gode al Sud e nelle Isole, riflette il tentativo di sanare la ferita della migrazione. Si rimaneva uniti tifando per la stessa squadra. Discorsi analoghi potrebbero trovarsi nei dualismi tra Roma e Lazio, Genoa e Sampdoria, Milan e Inter, o nelle rivalità in nome del campanilismo e della fede politica contrapposta di altre tifoserie.

Tutto questo patrimonio di memoria e aggregazioni collettive, nel calcio odierno, vengono liquidate o soppresse, in nome del marchio da valorizzare e della vittoria agganciata al conseguimento degli utili. Da oltre un decennio, il calcio italiano, è diventato terra di conquista di investitori che fanno capo a oscuri fondi stranieri, soprattutto statunitensi, attratti in Italia da faccendieri specializzati nell’acquisizione e nella vendita di proprietà calcistiche. Lo stesso fondo Tether, pur formalmente presieduto da imprenditori torinesi, ha la sua sede legale in El Salvador, evidentemente attratto da una legislazione fiscale favorevole. Fino ad ora, le proprietà globali che hanno investito nel nostro calcio non hanno avviato politiche aziendali finalizzate al potenziamento dei settori giovanili o al coinvolgimento attivo delle tifoserie nella gestione delle società calcistiche. Seguendo le leggi della valorizzazione della rendita, hanno puntato a far quadrare i bilanci, a investire per periodi di tempo limitati, forse in relazione alla necessità di far circolare le risorse in loro possesso, oppure a valorizzare le squadre di loro proprietà in relazione alla possibilità di operare in circuiti esclusivi.

Pensiamo al Como, squadra rivelazione della serie A, che non schiera nemmeno un italiano tra i titolari. La società lariana è stata rilevata da un fondo indonesiano che ha intravisto la possibilità di operare in un milieu caratterizzato dalla presenza di ultramiliardari globali che posseggono la residenza, formale o di fatto, in riva al Lago. Scegliendo di creare, utilizzando l’ossatura e la tifoseria della vecchia società, un giocattolo destinato a sollazzare i vip globali. Un progetto che nel breve termine sta rendendo, ma che a lungo andare, dato che si tratta di una squadra senza grosso seguito, confinata all’ambito locale, finirà come è finita col Parma e col Chievo, a discapito delle tifoserie e della comunità locali. Come sta succedendo a Livorno, dove la proprietà brasiliana, dopo avere investito nella squadra amaranto e averla riportata nel calcio professionistico, di colpo ha bloccato anche l’erogazione degli stipendi, facendo presagire una fine drammatica per il calcio labronico.

Di fallimenti, finanziari e sportivi, è costellato il calcio italiano. Delle 146 società professionistiche in vita negli anni Novanta, ne rimangono oggi 90, alcune delle quali sempre a rischio di cancellazione. Una situazione drammatica, che si rispecchia nella mancata partecipazione agli ultimi due campionati mondiali della nostra Nazionale, nonché nel rischio di non qualificarsi nemmeno stavolta. Sarebbe necessaria una politica di intervento attivo su un settore nevralgico della vita nazionale, indagando sulla natura delle proprietà, regolamentando le acquisizioni, programmando una politica orientata verso le tifoserie locali e la valorizzazione dei settori giovanili. Invece si chiede di liberalizzare le scommesse, e si punta il dito sugli ultrà, additati come responsabili del degrado del sistema-calcio e avamposti di penetrazione della criminalità organizzata. Molto probabilmente, se si indagasse a fondo sui passaggi di proprietà e sugli investitori, verrebbe alla luce uno scenario diverso. Forse, più che del guinzaglio, sarebbe necessario un contropotere sportivo. 

*Vincenzo Scalia è professore associato in Sociologia della devianza presso l’Università degli Studi di Firenze. Si occupa di carceri, criminalità organizzata, abusi di polizia. Ha insegnato e svolto ricerca in Messico, Argentina e Inghilterra. Il suo ultimo libro è Incontri troppo ravvicinati? (manifestolibri, 2023).

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.