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20 Dic , 2025|Giuseppe Libutti e Angelica Cavone
Il patto di collaborazione viene da anni presentato come uno strumento neutro e virtuoso, capace di ricomporre il rapporto tra amministrazioni e realtà sociali, di valorizzare esperienze dal basso e di superare il conflitto attraverso la partecipazione. In realtà, dietro questa narrazione rassicurante, il patto rappresenta uno dei dispositivi più efficaci di normalizzazione del conflitto sociale e di riconduzione delle esperienze autonome entro l’indirizzo politico dell’ente pubblico. Il caso Askatasuna, lungi dall’essere un incidente di percorso o una deviazione improvvisa, ne è la dimostrazione più chiara. Ma non è l’unico. Roma, da questo punto di vista, rappresenta un laboratorio ancora più avanzato e strutturato.
Sottoscrivere un patto di collaborazione significa accettare che il riconoscimento di uno spazio o di un’attività sia interamente subordinato agli equilibri politici del momento. Il patto non cristallizza diritti, non stabilizza posizioni, non mette al riparo le esperienze coinvolte: vive e muore in funzione del clima politico, delle maggioranze, delle priorità amministrative e delle convenienze contingenti. Ciò che oggi viene riconosciuto come virtuoso e meritevole di collaborazione può domani essere ritenuto incompatibile, problematico o semplicemente sacrificabile. Askatasuna è stata prima assunta come interlocutore legittimo e poi rapidamente espulsa dal perimetro della collaborazione, a dimostrazione del carattere eminentemente politico – e non garantista – dello strumento.
A rendere il quadro ancora più problematico è l’uso della categoria di “bene comune”. Definire uno spazio come bene comune non lo rafforza, non ne riconosce il valore politico o sociale, ma ne ridefinisce il senso entro parametri amministrativi. Nei regolamenti comunali il bene comune non è più uno spazio di autodeterminazione o di sperimentazione politica, ma un oggetto di gestione, sottoposto a criteri di compatibilità, decoro e ordine pubblico. Il conflitto, per definizione, viene espulso: ciò che è conflittuale non può essere ammesso come bene comune, perché il bene comune è accettabile solo se innocuo, prevedibile e governabile. In questo modo il riconoscimento si trasforma in neutralizzazione.
Roma mostra con particolare chiarezza un ulteriore aspetto, spesso taciuto. Il patto di collaborazione non serve soltanto a governare gli spazi, ma anche a ridefinire il perimetro delle responsabilità pubbliche. Attraverso il patto, funzioni che dovrebbero essere garantite direttamente dall’amministrazione (welfare, servizi sociali, inclusione, presidio territoriale) vengono progressivamente scaricate sulle associazioni, sui comitati e sulle realtà di base. Il Comune arretra sul piano dell’intervento diretto, ma mantiene il controllo politico e amministrativo, presentando questa ritirata come partecipazione, cura condivisa, sussidiarietà. Il patto diventa così uno strumento di esternalizzazione del welfare, che trasferisce oneri e responsabilità senza trasferire potere reale.
In questo contesto, i regolamenti romani sui beni comuni, la delibera 104 e i regolamenti sui poli civici non tutelano le realtà sociali esistenti, ma contribuiscono a ridefinirle e, in molti casi, a sostituirle. L’obiettivo è quello di favorire soggetti compatibili, finanziabili, controllabili, politicamente allineati, a discapito di esperienze autonome, indipendenti e potenzialmente conflittuali. Non si tratta di partecipazione, ma di selezione politica delle soggettività ammesse nello spazio pubblico.
A rendere ancora più fragile la retorica del “bene comune” interviene il quadro normativo regionale. La legge regionale del Lazio n. 10 del 2019, approvata sotto una giunta a guida Partito Democratico, consente infatti che il bene comune possa essere affidato, attraverso il patto di collaborazione, anche a soggetti privati a carattere commerciale. Il bene comune, dunque, non è affatto garantito come bene pubblico: può legittimamente essere gestito da operatori privati, anche con finalità economiche, con buona pace di tutta la retorica sul carattere pubblico e collettivo di questi beni. Il bene comune si rivela così per ciò che è: una categoria amministrativa flessibile, adattabile agli equilibri politici ed economici del momento.
Il patto di collaborazione, in questo quadro, non garantisce autonomia né stabilità. Trasforma le esperienze sociali in articolazioni funzionali delle politiche pubbliche, chiedendo in cambio compatibilità, moderazione e rinuncia al conflitto come elemento costitutivo. Quando il contesto politico cambia, quando il conflitto riemerge o quando l’esperienza non è più funzionale, il patto cessa di essere uno strumento utile e diventa sacrificabile.
Il patto di collaborazione, dunque, non è una conquista. È uno strumento di governo del conflitto e di arretramento del pubblico, fortemente dipendente dagli equilibri politici. Accettarlo significa affidare la propria esistenza a un riconoscimento revocabile e instabile. Chi pensa di essere al sicuro perché oggi “riconosciuto” sta solo rimandando il momento in cui quel riconoscimento verrà meno.
C’è un’ipocrisia che va finalmente smascherata. Non basta, e ormai non serve, a sinistra prendersela solo con il governo Meloni per la sua repressione brutale ma perfettamente coerente con la propria visione autoritaria del mondo, dove tutto ciò che è autonomo, non conforme o apertamente conflittuale va represso. È troppo facile, troppo comodo. La verità è che molti degli spazi oggi sgomberati o messi sotto attacco sono stati prima depotenziati e resi innocui proprio sotto governi di centrosinistra.
Nel tentativo di blindare stabilità e continuità di potere, molte amministrazioni progressiste hanno reso organiche al proprio disegno istituzionale esperienze nate per essere autonome, come esperienze dal basso, capaci di generare rottura e nuove visioni. E lo hanno fatto non da sole. Perché a questa istituzionalizzazione degli spazi sociali, molte organizzazioni sul territorio si sono prestate consapevolmente. In un gioco di reciproca convenienza: da un lato l’amministrazione si assicura voti, consenso e legittimazione; dall’altro le realtà sociali ottengono piccoli finanziamenti, spazi in deroga, la possibilità di “vivere” – ma a patto di non disturbare troppo. Un equilibrio fragile, fatto di mancette e pacche sulle spalle, che consente a entrambe le parti di vivacchiare, ma non di trasformare nulla.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: pratiche nate per creare comunità e conflitto vengono riassorbite dentro i binari della compatibilità politica. L’autonomia si trasforma in funzione. Il dissenso in gestione. E quando l’equilibrio si rompe, quando cambia la giunta, quando la destra sale al potere, quelle stesse esperienze, ormai depoliticizzate e isolate, diventano facili da colpire. La destra non ha bisogno di costruire nulla: trova già pronti strumenti, regolamenti, dispositivi messi a punto e normalizzati dal centrosinistra. Le basta attivarli. E lo fa.
Forse è il momento di smettere di difendere rendite di posizione che durano quanto un mandato elettorale, e iniziare a porre seriamente la questione politica: cosa significa davvero gestione dal basso? Che spazio vogliamo dare oggi al conflitto nella democrazia? Che ruolo dovrebbero avere le istituzioni? E la partecipazione, è tale solo se addomesticata? Siamo pronte e pronti, davvero, a riprenderci autonomia, parola e potere e a costruire insieme dal basso percorsi che pongono domande scomode?
Non si riparte dai patti. Si riparte dalle crepe. Da quelle contraddizioni che i patti cercano di coprire, ma che restano lì, vive, e prima o poi tornano a farsi sentire.