L’economia di Israele sull’orlo del baratro

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Antonio Fiorentino 18 Dicembre 2025

In una recente intervista, pubblicata dalla rivista indipendente +972 Magazine, l’economista Shir Hever, che attualmente vive in Germania dopo aver rinunciato alla cittadinanza israeliana, descrive la profonda crisi economica dello stato di Israele e le ricadute in termini di tenuta sociale dell’intero sistema genocidario. “Economia zombie” è l’appellativo attribuito al sistema economico israeliano durante questi ultimi anni di massacri impuniti. Si tratta di un’economia fortemente orientata alla guerra che, pur avendo militarizzato l’intera società, non può mettere a tacere le contraddizioni di questo sistema strutturato sostanzialmente a una dimensione. “I pilastri che un tempo ne sostenevano la crescita – investimenti esteri, innovazione tecnologica e integrazione globale – stanno iniziando a erodersi”, mentre è diventato insostenibile il costo sociale ed economico di una prolungata mobilitazione di massa. Il crescente, e fortemente temuto, isolamento di Israele nei mercati globali può segnalare l’inizio di un declino a lungo termine.

L’economista tedesco sostiene che “il problema economico di Israele è multiforme”. Lo sfollamento delle aree di frontiera, ormai improduttive, il reclutamento di quasi 300.000 riservisti sottratti alle normali attività lavorative, l’emigrazione di migliaia di famiglie del ceto medio, gli ingenti trasferimenti dei risparmi delle famiglie all’estero, stanno lentamente corrodendo dall’interno un sistema apparentemente monolitico ma che in realtà potrebbe precipitare in una crisi irreversibile. Non ultimo in ordine di importanza è il crescente boicottaggio e isolamento internazionale dello stato sionista: il marchio di Israele è diventato tossico.

In un recente articolo pubblicato dalla rivista israeliana Ynet, “gli industriali segnalano un grave deterioramento delle relazioni commerciali con l’estero: “Gli incontri con i rappresentanti delle aziende israeliane vengono annullati. Quelli che si svolgono, anche in paesi da sempre considerati amici, si svolgono in segreto su richiesta degli ospiti; alcune richieste di estensione dei contratti di esportazione per i prodotti blu e bianchi vengono respinte e, in alcuni casi, aziende e catene di distribuzione di vari paesi annunciano che ‘a questo punto’ smetteranno di importare da Israele: questi sono solo alcuni dei problemi che stanno arrivando in massa all’economia israeliana da paesi di tutto il mondo”. Le campagne BDS di boicottaggio e di disinvestimento contro le aziende israeliane e di isolamento economico e sociale del sistema sionista stanno mostrando i loro effetti. Abbiamo a disposizione un’arma, pacifica, che deve essere sostenuta e potenziata affinché l’economia genocidaria si inceppi.

Non è quindi un caso che in Israele stia aumentando la sofferenza sociale di ampi strati della popolazione. C’è addirittura chi descrive “un’emergenza sociale sempre più grave in cui la fame e la cronica crisi finanziaria si stanno diffondendo dalle fasce più deboli della popolazione israeliana alla classe media inferiore”. Aumenta la propensione delle famiglie a indebitarsi mentre “la percentuale di persone che non sono in grado di acquistare cibo a sufficienza – classificate come insicure dal punto di vista alimentare – è aumentata di quasi il 29% nel 2025. …. Il costo della vita aumenta e il livello dei servizi governativi sta crollando, in termini di qualità dei trasporti, dei servizi sanitari e dei servizi educativi. Il reddito sta diminuendo per quasi tutti tranne che per i riservisti, che però non spendono più di quanto guadagnano”.

I media finanziari internazionali sono poco propensi ad affrontare criticamente la situazione economica di Israele. “Temono che se riportassero i fatti, verrebbero accusati di essere ‘anti-Israele’. Vedono come i governi di Stati Uniti, Regno Unito e Germania diffondano menzogne ​​e si comportino come se Israele stesse semplicemente subendo una battuta d’arresto temporanea. Se i media finanziari contraddicono questi governi, rischiano la repressione, quindi preferiscono nascondere le informazioni ai loro lettori”. Le agenzie di rating internazionali si adeguano.

Non è detto che questa situazione possa durare, le contraddizioni emergeranno e forse sarà troppo tardi per lo stato sionista, apparentemente monolitico, inattaccabile. In realtà, mentre massacra il popolo palestinese, sta costruendo le basi della propria disintegrazione.

Intanto, l’Associazione dei Produttori ha curato un sondaggio tra i suoi associati sul tema “L’impatto della guerra sul commercio internazionale”.
Questi sono i primi risultati elaborati dal Dipartimento di ricerca economica dell’Associazione, basati sulle risposte di 132 operatori economici: circa la metà degli esportatori ha riscontrato l’annullamento o il mancato rinnovo di transazioni esistenti da parte dei clienti; il 71% degli esportatori afferma che le cancellazioni sono dovute esclusivamente a motivi politici.

Solo il 9% ha dichiarato che le ragioni delle cancellazioni non erano legate alla guerra; l’Ue si è distinta negativamente, con l’84% dei produttori che hanno segnalato cancellazioni dai suoi stati membri. Il 38% degli esportatori ha segnalato cancellazioni da altri paesi europei e il 31%, sorprendentemente, ha segnalato cancellazioni da clienti negli Usa.

Nessun esportatore ha segnalato cancellazioni dall’America Latina; il 76% degli intervistati ha dichiarato che la guerra ha causato danni alle proprie esportazioni.

Di questi, il 21% ha dichiarato che l’entità dei danni ha superato il 40% delle esportazioni totali; il 54% ha riferito che i nuovi clienti ora rifiutano di lavorare con Israele.

Il 49% ha riscontrato difficoltà logistiche e normative insolite: di questi, il 38% ha recentemente riscontrato difficoltà con le spedizioni internazionali, mentre il 29% ha subito ritardi in dogana e nei porti esteri.

Il 22% degli importatori ha subito l’annullamento degli ordini da parte dei fornitori.


Pubblicato anche su Perunaltracitta.org

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