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Monica di Sisto 23 Dicembre 2025
Il Consiglio europeo ha deciso di fermare il trattato di libero commercio tra Unione europea ed America del Sud. Ma non basta il protezionismo per assicurare pace e giustizia
Proteste e fitti lanci di patate, barbabietole e letame. Accompagnati da una marcia inarrestabile di trattori che ha convinto, dopo ore di guerriglia per le strade di Bruxelles, la belligerante presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, a rinviare la firma del trattato di liberalizzazione commerciale tra Unione europea e paesi dell’area Mercosur, ripiegando sulla posizione dilatoria della premier italiana Giorgia Meloni. Quest’ultima ha, così, risolto anche un problema «di famiglia»: è il suo ex cognato, il primo ministro per la sovranità alimentare della storia repubblicana, ad aver perso la faccia e (quasi) la poltrona sotto le bordate all’unisono delle principali organizzazioni agricole nazionali e continentali, che pure hanno sostenuto attivamente la sua carriera e nomina.
L’appuntamento per la firma sarebbe fissato per il 12 gennaio prossimo in Paraguay, paese che assumerà la presidenza del Mercosur ma i cui contadini sono in fortissima ebollizione contro le condizionalità aggiuntive che l’Ue starebbe elaborando per sbloccare la firma del trattato. Per la società civile, i sindacati, i movimenti indigeni e ambientalisti delle due sponde dell’Oceano, anche per questo, lo stop è una grande occasione per spingere la governance europea e nazionale ad ammettere che il trattato, così come costruito, presenta squilibri strutturali non emendabili con semplici clausole volontarie. Sarebbe opportuno, infatti, ripensare complessivamente priorità e impatti della politica commerciale comune sulle nostre economie, salari, diritti e futuro.

Uno degli argomenti più ricorrenti tra i supporter del trattato poggia sulla bilancia commerciale. È vero che l’Unione europea è il secondo partner commerciale del Mercosur e che nel 2024 le esportazioni europee verso il blocco sudamericano hanno raggiunto circa 57 miliardi di euro. Tuttavia questo dato non racconta come quei flussi si distribuiscano tra gli Stati membri e, soprattutto, tra i diversi settori. Nel rapporto bilaterale tra Italia e Mercosur, l’interscambio commerciale nel 2024 ha superato i 15 miliardi di euro complessivi. L’export italiano verso l’area si è attestato intorno agli 8,5 miliardi, concentrato prevalentemente in macchinari industriali, meccanica strumentale, chimica, farmaceutica, componentistica e, in misura minore, agroalimentare trasformato ad alto valore aggiunto. Le importazioni, pari a circa 6,5 miliardi, sono invece dominate da materie prime agricole e agroindustriali: soia e derivati per mangimi, mais, zucchero, carne bovina e pollame, oltre a minerali e prodotti a basso valore unitario ma ad alto impatto sulle filiere interne. Questa asimmetria non è neutrale. L’Italia esporta valore concentrato in un numero relativamente ristretto di imprese medio-grandi, mentre importa volumi enormi di prodotti che incidono direttamente sui prezzi agricoli interni, sulla sostenibilità delle filiere e sulla capacità di reddito di centinaia di migliaia di aziende.
Nel 2024 il deficit agroalimentare Italia-mondo ha superato i 10 miliardi di euro, con importazioni cresciute più rapidamente delle esportazioni, in particolare per materie prime agricole, mangimi e prodotti di base. Questa dinamica non è casuale, ma il risultato di un modello che incentiva l’export di prodotti trasformati «Made in Italy», che a livello di materie prime sono sempre meno italiani. Questa fame di importazioni a basso costo non è neutrale sul piano sociale: tra il 2010 e il 2023 il numero di occupati in agricoltura in Italia è diminuito di oltre il 20 per cento, il reddito agricolo reale per unità di lavoro ha mostrato una forte volatilità e una tendenza al ribasso, soprattutto per le aziende medio-piccole. Quando prodotti agricoli e alimentari a basso costo entrano in un sistema che è autosufficiente in molti comparti, come quello europeo e italiano per carne bovina, pollame, zucchero e riso, il risultato non è un beneficio per i consumatori, ma una compressione dei prezzi alla produzione, mentre i benefici lungo la filiera si concentrano nella trasformazione industriale e nella grande distribuzione, indebolendo il potere contrattuale del lavoro agricolo e agroindustriale. Nel medio periodo, questo processo alimenta la desertificazione produttiva delle aree rurali e la concentrazione della produzione in poche mani.
Allargando il perimetro d’analisi agli scambi complessivi Italia-mondo, tra il 2010 e il 2024 il valore complessivo delle esportazioni italiane è passato da circa 370 miliardi di euro a oltre 625 miliardi, con una crescita superiore al 65 per cento in termini nominali. Nello stesso periodo, tuttavia, i salari reali hanno seguito una traiettoria opposta: secondo i dati Ocse e Ilo, l’Italia è l’unico grande paese europeo in cui i salari reali medi nel 2024 risultano più bassi rispetto al 2008, con una perdita cumulata stimata intorno al 7–8 per cento.
Questo scollamento strutturale tra crescita dell’export e impoverimento del lavoro è uno degli effetti più evidenti delle liberalizzazioni commerciali non accompagnate da politiche di programmazione, industriali e redistributive. Anche sul versante manifatturiero la crescita dell’export italiano non ha arrestato la deindustrializzazione. Tra il 2010 e il 2023 l’occupazione manifatturiera in Italia è diminuita di circa 400 mila unità, nonostante l’aumento del valore delle esportazioni. Questo paradosso è spiegabile con l’aumento dell’intensità di capitale, con la frammentazione delle catene del valore e con le delocalizzazioni produttive, che hanno spostato fasi rilevanti della produzione verso paesi con costi del lavoro e standard ambientali e qualitativi più bassi. ll trattato bloccato, in questo contesto, favorirebbe l’esportazione verso il Mercosur di macchinari industriali europei, in particolare nel settore automotive e meccanico, incluse linee produttive mature. Questo processo facilita le delocalizzazioni e contribuisce a una scarsa capacità industriale locale e alla deindustrializzazione europea: la quota dell’industria manifatturiera sul Pil dell’Ue, peraltro, è scesa da circa il 20% dei primi anni Duemila a poco più del 14% nel 2023, con una perdita consistente di occupazione stabile, Italia inclusa.
La conseguenza macroeconomica di questa traiettoria è una fragilità crescente del mercato interno europeo e italiano. Quando i salari stagnano o diminuiscono, i diritti si fanno inesigibili, l’incertezza indebolisce la domanda interna e l’economia si affida in modo eccessivo all’export per sostenere la crescita. Una scelta perdente che il Governo Meloni ha recentemente confermato, dichiarando di puntare ai 700 miliardi di export, senza esplicitarne le condizioni, le conseguenze, i vincitori e i vinti. Questo modello espone il paese a shock esterni e rende strutturale la competizione al ribasso sui costi, con la quale stiamo rosicchiando quote di export perse dagli Stati uniti di Trump con la guerra dei dazi. D’altronde la Banca d’Italia ha chiarito come negli ultimi quindici anni la crescita italiana è stata trainata quasi esclusivamente dalla domanda estera, mentre i consumi interni hanno avuto un contributo nullo o negativo. In questo contesto, ulteriori liberalizzazioni commerciali rischiano di aggravare la spirale: più importazioni a basso costo, meno redditi, meno domanda interna, maggiore dipendenza dall’estero.
Il trattato Ue-Mercosur accentua questi squilibri perché prevede l’eliminazione dei dazi su oltre il 91% delle merci europee esportate verso il Mercosur e su circa il 92% delle merci Mercosur esportate verso l’Ue, includendo prodotti agricoli sensibili senza meccanismi realmente vincolanti di reciprocità normativa. Le conseguenze, però, non sono solo economiche: molti prodotti, ad esempio, sono realizzati utilizzando sostanze chimiche vietate nell’Unione europea, a partire dai pesticidi. Quasi ironicamente, come hanno provato organizzazioni ambientaliste come Pan Europe, oltre il 20% dei pesticidi esportati dall’Ue verso paesi come Brasile e Argentina nel 2023 conteneva principi attivi banditi sul territorio europeo per motivi sanitari o ambientali. Questo paradosso normativo consente l’esportazione di sostanze considerate pericolose per la salute dei cittadini europei, che rientrano poi indirettamente nel mercato Ue sotto forma di residui nei prodotti agricoli importati. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha più volte segnalato i limiti dei controlli sui residui multipli di pesticidi, evidenziando rischi crescenti per la salute pubblica.
Questa dinamica si intreccia direttamente con la pressione crescente sulla deforestazione amazzonica, sulle terre e le comunità indigene. In Brasile, Argentina e Paraguay, l’espansione delle monocolture di soia e degli allevamenti intensivi destinati all’export verso l’Europa è uno dei principali motori della deforestazione amazzonica e della distruzione del Cerrado. Almeno il 17% delle esportazioni di carne bovina brasiliana verso l’Ue sono direttamente collegate alla deforestazione illegale. Secondo il Conselho Indigenista Missionário e l’Instituto Socioambiental, inoltre, nel solo 2023 sono stati registrati oltre 1.200 casi di violazioni dei diritti territoriali delle popolazioni indigene e delle rappresentanze sindacali in Brasile, con decine di agguati legati a conflitti per la terra. Le comunità denunciano l’uso sistematico di milizie private e sicari da parte dell’agribusiness, responsabili di intimidazioni, sgomberi forzati e violenze contro unità contadine e popoli originari. In questo contesto, un accordo commerciale che incentiva ulteriormente l’export di carne e soia senza condizioni stringenti equivale, nei fatti, a una condanna a morti, feriti e devastazione.
Tutto questo avviene mentre la Commissione europea rinvia ancora l’entrata in vigore della direttiva per la tracciabilità e la salvaguardia delle foreste, e di quella per la certificazione della responsabilità delle imprese mentre annacqua quella per l’accertamento delle violazioni dei diritti umani e del lavoro nelle filiere multinazionali. Ma c’è di più: con una raffica di provvedimenti Omnibus, Von Der Leyen vuole rafforzare la competitività allentando tutte le regole europee su sicurezza sociale, alimentare, della chimica, residui di pesticidi, controlli ambientali e norme sul lavoro, per ridurre drasticamente i costi di produzione, aumentando la propria dipendenza dall’export, e con essa la propria fragilità.
In questo scenario, le proposte avanzate da La Via Campesina e dalle reti sociali e sindacali europee e sudamericane indicano, tutte e insieme, una strada diversa. Un vero accordo di partenariato equo che dovrebbe fondarsi sulla sovranità alimentare e la complementarietà delle produzioni, sulla partecipazione diretta alla stesura e implementazione degli accordi delle comunità coinvolte, su standard sociali e ambientali vincolanti progressivi, garantiti a livello globale, e su meccanismi di salvaguardia capaci di intervenire tempestivamente e con cogenza quando le importazioni mettono in crisi settori produttivi, redditi, diritti, ai livelli locali o regionali. Il commercio non può essere ridotto a un gioco di volumi e tariffe: deve diventare uno strumento di cooperazione tra territori, non di competizione al ribasso.
Lo stop deciso dal Consiglio europeo può, così, non esaurirsi in un riflesso protezionista o in un rifiuto ideologico dell’interdipendenza necessaria per abitare in pace e sicurezza lo stesso pianeta. Deve far emergere che il trattato Ue-Mercosur, così com’è, rafforza un modello economico che concentra i benefici e socializza i costi. Bisogna, dunque, fermarsi per il tempo necessario a riorientare il senso stesso di una politica commerciale europea la cui ricaduta non va data per scontata. Dobbiamo assicurare, come prevedono i Trattati fondativi, la sua coerenza con gli obiettivi di giustizia economica, sociale, climatica che l’Unione stessa, fino a un anno fa, dichiarava di voler perseguire. Oltre 140 eletti stanno chiedendo al Parlamento europeo che sia la Corte europea di giustizia a condurre questa verifica, ma la loro richiesta non è stata ancora messa all’ordine del giorno. Il fitto lancio di derrate e cassette che ha offuscato i cieli della Capitale europea, da parte di rappresentanti e membri di alcune delle organizzazioni datoriali e di produttori più influenti del Continente, ci ha confermato, così, nel sospetto che nessuno di questi passaggi necessari si potrà ottenere per le vie ordinarie della rappresentanza e del dialogo sociale, senza un di più di organizzazione, di convergenza e di conflitto, tra soggetti, valori e interessi anche molto diversi tra loro. Serviranno teste, cuori, stomaci saldi, e una sonora sveglia per gli istituti non pervenuti o dormienti.
*Monica Di Sisto è giornalista e vice presidente dell’associazione Fairwatch