Dal blog https://jacobinitalia.it
Alberto Mazzoni Ibrahem Hanafi 24 Dicembre 2025
Ibrahem Hanafi, dottorando palestinese in visita in Italia, racconta la sistematica demolizione, fisica, politica e culturale, delle università di Gaza e della Cisgiordania. E invita la ricerca europea a dare una mano
I legami tra l’esercito israeliano e le università sono ben documentati: ad esempio, i programmi di addestramento dedicati ai soldati, come Talpiot e Brakim, mirano esplicitamente a sviluppare nuove tecnologie per l’esercito.
Non tutte le università seguono l’esempio. In Europa, e ancor di più negli Stati uniti, studenti universitari e ricercatori hanno svolto un ruolo significativo nei movimenti a sostegno di Gaza. Si sono espressi persino alcuni studiosi affiliati all’accademia israeliana. A sua volta, l’attivismo universitario è stato un pretesto per i governi occidentali per limitare la libertà di parola e di ricerca nei campus.
Eppure, mentre i riflettori spesso si spostano sulle università straniere, il mondo accademico palestinese raramente si trova al centro dell’attenzione. Può sembrare una preoccupazione secondaria di fronte a tali atrocità di massa, ma si inserisce anche in una più ampia disumanizzazione mediatica dei palestinesi, in cui le loro vite devono apparire il più diverse possibile da quelle occidentali. Comprendere il mondo accademico palestinese quindi non solo contrasta questa eccessiva semplificazione della vita dei palestinesi, ma può aprire possibilità per una futura cooperazione politica e accademica.
Il dottorando in neuroscienze Ibrahem Hanafi ha recentemente discusso di questi temi al convegno «Scienza in Palestina» tenutosi presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Alberto Mazzoni lo ha intervistato sulle difficoltà del mondo accademico palestinese.
Durante l’evento, ti sei presentato come un «rifugiato palestinese di terza generazione». Cosa significa questo per te?
Significa che l’esilio non è un episodio, ma l’architettura della vita della mia famiglia. Mio nonno fu espulso da Haifa, in Palestina, durante la Nakba del 1948, diventando uno degli oltre settecentomila palestinesi costretti ad abbandonare le proprie case. Da allora, lo sfollamento è stata la nostra unica costante. Quattro generazioni dopo, la mia famiglia è dispersa in quattro continenti. Nessuno di noi ha scelto questa dislocazione geografica; è stata imposta dalla guerra, dall’occupazione e dalla lenta violenza della cancellazione burocratica.
Anche la famiglia di mia madre fu costretta a sfollare dalle alture del Golan siriane durante la Naksa del 1967, quindi i miei genitori si incontrarono a Damasco, due persone il cui legame con la patria era già stato spezzato molto prima di essere abbastanza grandi da comprendere cosa fosse stato loro sottratto. Sono nato nel campo profughi di Al Yarmouk, vicino a Damasco, il più grande campo profughi palestinese. Questo lo ha reso – nonostante fosse un campo profughi non ufficiale – un centro pulsante della vita palestinese al di fuori della Palestina. È stato poi assediato e in gran parte distrutto durante la rivoluzione siriana (2013), quando la maggior parte dei suoi abitanti fu sfollata dal luogo in cui si trovava.
Come rifugiato, mi è stato rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo per vivere in Siria e un documento di viaggio simile al passaporto da utilizzare come prova d’identità al di fuori della Siria. Con questi documenti mi sono laureato in medicina nella Damasco devastata dalla guerra e ho pianificato di proseguire gli studi all’estero. È stato allora che mi sono reso conto che il termine formale usato per indicare il mio status legale all’estero era «apolide». Quando ho fatto domanda per gli studi universitari nel Regno unito, in Germania e in Cina, mi sono stati ripetutamente negati i visti nonostante abbia ricevuto offerte di ammissione incondizionate e finanziamenti garantiti. Poi, quando sono riuscito a raggiungere la Germania per conseguire un master in Neuroscienze, i miei documenti non indicavano alcuna nazionalità, o talvolta indicavano il campo della nazionalità con «indefinito» o «XXX». Col tempo, ho imparato che l’apolidia non è solo una condizione legale, ma piuttosto uno stigma globale che ti perseguita attraverso aeroporti, ambasciate e valichi di frontiera. Ricordo di essere stato decine di volte in piedi per ore al confine tra Siria e Libano, in attesa del permesso di entrare in Libano, spesso per non più di ventiquattro ore, solo per sostenere un colloquio per il visto o un esame internazionale che non era offerto in Siria. L’incertezza a quei posti di blocco, il diniego arbitrario di ingresso, le pile di documenti che portavamo con noi come fragile prova della nostra esistenza: tutto ciò ci ricordava che la possibilità di movimento, anche per il più semplice passo accademico, non è mai stato un diritto per noi, ma una questione di negoziazione. A questo proposito, mi sento in dovere di menzionare un funzionario dell’immigrazione giapponese che ho incontrato all’inizio di quest’anno, quando sono stato in Giappone per un congresso. Era indeciso se classificarmi come siriano, palestinese o semplicemente un’anomalia burocratica. Dopo due ore di domande e consultazioni con i suoi superiori, con una certa incertezza ha apposto la parola «palestinese», ignaro che questo piccolo riconoscimento significasse per me più di quanto avrebbe potuto immaginare. Era la prima volta in vita mia che vedevo la parola Palestina sui miei documenti non abbinata alla parola «rifugiato».
Ironicamente, più mi allontano dalla mia terra d’origine, più profondo diventa il mio legame con la Palestina. Da quando mi sono trasferito in Germania, ho fatto volontariato per due organizzazioni che sostengono scienziati palestinesi, ho fatto da mentore a studenti di medicina palestinesi e ho stretto subito un legame di parentela con qualsiasi palestinese incontrato nella nostra diaspora. Credo che ci aggrappiamo gli uni agli altri perché le nostre vite sparse sono i frammenti da cui sentiamo la nostra appartenenza a un’unica nazione. Ricordo che una volta in Germania un mentore mi chiese perché insistessi a definirmi palestinese quando né a me né a nessun altro membro della mia famiglia – o, per estensione, a nessun rifugiato palestinese – è mai stato permesso di mettere piede in Palestina, la terra delle nostre radici. Non ho risposto subito. Forse perché nelle famiglie palestinesi la seconda cosa che insegniamo ai nostri figli, subito dopo il nome, è l’appartenenza a quella terra vicina ma lontana. Non è semplicemente un’identità personale; è un’eredità collettiva, un peso politico e una responsabilità di portare avanti la memoria.
Come rifugiato palestinese di terza generazione, porto con me non solo l’orgoglio e la resilienza della mia famiglia, ma anche il trauma ereditato dello sfollamento. È un conto aperto di sofferenza che ci è stato consegnato settantasette anni fa, tramandato di generazione in generazione.
Abbiamo visto le immagini della distruzione degli edifici nei campus di Gaza. Qual era la situazione delle università di Gaza prima del 2023 e qual è la situazione attuale?
Prima ancora di parlare della distruzione, è importante ricordare cosa esisteva. Prima della guerra, Gaza aveva dodici istituti di istruzione superiore che accoglievano circa novantamila studenti. Questi istituti non erano semplici campus; erano punti di riferimento in un luogo che è stato sottoposto a un assedio intensificato dal 2007 e a severe restrizioni dagli anni Novanta.
All’inizio della guerra, ognuna di queste università è stata distrutta parzialmente o completamente. Oggi, biblioteche, laboratori e interi campus sono completamente rasi al suolo. Uno degli esempi più dolorosi è la più recente università di Gaza, l’Università Israa, fondata solo un decennio fa. Per mesi è rimasta in piedi, come se fosse stata temporaneamente risparmiata, poi rasa al suolo da un singolo colpo, in una scena che ricorda più una sequenza di demolizione hollywoodiana che un’operazione militare.
Sebbene il bilancio delle vittime sia più difficile da documentare con precisione, almeno novantaquattro professori universitari sono stati uccisi nei primi tre mesi di guerra, spesso insieme alle loro famiglie. In quel momento, tra loro c’erano tre professori universitari e quattro presidi. Poi, la guerra è continuata per altri ventuno mesi, con Israele che ha ucciso, paralizzato o detenuto centinaia di professori, insegnanti, personale universitario e studenti, in una scala completamente sproporzionata rispetto ad altri settori della società di Gaza. Gli attacchi non si sono fermati alle università. Persino l’Unrwa, che fornisce istruzione scolastica ai bambini palestinesi in tutta la regione, è stata presa di mira da una campagna coordinata per delegittimarla. Distruggere e tagliare i finanziamenti alle scuole non è una conseguenza della guerra; è un attacco alle fondamenta stesse su cui si sviluppa l’istruzione superiore.
Gli esperti delle Nazioni unite hanno espresso profonda preoccupazione per questo modello di «scolasticidio», sottolineando che non è casuale ma deliberato. L’istruzione a Gaza è stata in gran parte sospesa per quasi due anni. Sebbene i bombardamenti siano ora diminuiti, in termini relativi, le università non dispongono delle infrastrutture fisiche e del personale superstite necessari per riprendere la maggior parte dei programmi. Eppure, nonostante l’entità della distruzione, lo spirito accademico persiste. Come hanno affermato tre rettori universitari di Gaza nel loro messaggio pubblicato rivolto alla comunità accademica internazionale: «I nostri campus possono essere stati rasi al suolo… ma le nostre università continuano a esistere… siamo più che edifici, siamo comunità accademiche, composte da studenti, docenti e personale, ancora vive e determinate a portare avanti la nostra missione». Queste non sono parole vuote. Alcune attività didattiche sono continuate online a Gaza, nonostante le condizioni incredibilmente precarie.
Hai usato il termine «scolasticidio». Puoi spiegare cosa significa e perché si applica in questo caso?
Il termine «scolasticidio» è stato coniato dall’accademica palestinese Karma Nabulsi durante l’attacco israeliano a Gaza del 2009, per descrivere la distruzione sistematica delle istituzioni educative e l’uccisione e la detenzione di personale accademico e studenti. Da allora, il termine ha continuato a essere rilevante a causa delle restrizioni e dei rinnovati attacchi volti a soffocare il sistema di istruzione superiore in Palestina. Tuttavia, ha ricevuto maggiore interesse durante l’attuale guerra genocida, poiché stiamo assistendo non solo a danni collaterali, ma a un attacco intenzionale e prolungato all’istruzione stessa.
Secondo gli esperti delle Nazioni unite, ciò che sta accadendo potrebbe benissimo configurarsi come uno «sforzo intenzionale per distruggere completamente il sistema educativo palestinese». Persino lo storico ebreo-israeliano Avi Shlaim ha concluso in uno dei suoi recenti articoli che «contrariamente alle convinzioni prevalenti sulla natura e la legittimità degli attacchi israeliani al sistema educativo di Gaza e alle infrastrutture più ampie… le azioni israeliane sono state sproporzionate, ingiustificate e, soprattutto, illegali».
Non si tratta solo di edifici fisici. Quando accademici, professori, ricercatori e studenti vengono deliberatamente presi di mira, e quando aule, laboratori e biblioteche diventano rovine, non si stanno solo uccidendo persone: si sta cancellando la coscienza della società, il suo potenziale futuro e la possibilità di ricostruire.
Hai chiaramente sottolineato che, anche prima del genocidio in corso, il mondo accademico in Palestina si trovava ad affrontare sfide immense. Com’era la situazione in Cisgiordania?
Il panorama accademico della Cisgiordania è sempre stato sotto pressione, non con l’annientamento improvviso e totale che vediamo oggi a Gaza, ma in una forma di violenza più silenziosa e opprimente che si accumula da decenni. Le università vivono con la costante minaccia di raid, incursioni armate, arresti di studenti e interruzioni amministrative. Uno degli esempi più chiari è il caso dell’Università di Birzeit, la più antica università palestinese: durante i primi anni della prima Intifada, le autorità israeliane chiesero la chiusura dell’università. Quando l’amministrazione si rifiutò, i militari la chiusero autonomamente non per una settimana o un semestre, ma per quattro anni. La sua presidente, la dottoressa Hanna Nasser, dottore di ricerca in fisica nucleare, fu costretta all’esilio per diciannove anni. Questo la dice lunga sul tipo di ambiente intellettuale negato ai palestinesi.
Ma la pressione sul mondo accademico della Cisgiordania non si limita alla chiusura delle porte universitarie. Si estende a ogni aspetto della vita scientifica. Portare con sé i materiali di ricerca più elementari, una centrifuga, un reagente chimico o persino un set di libri di testo, richiede di destreggiarsi in un labirinto di restrizioni, controlli di sicurezza, divieti di importazione e doppia imposizione fiscale da parte di israeliani e palestinesi. Questi ostacoli non solo rallentano la ricerca, ma la soffocano. Sono la ragione per cui i programmi post-laurea in Palestina sono emersi così tardi: i master in discipline umanistiche sono comparsi solo negli anni Ottanta, mentre i corsi di laurea magistrale in scienze, tecnologia, ingegneria e matematica sono iniziati solo negli ultimi due decenni.
E poi c’è il movimento o, più precisamente, la sua assenza. Il movimento tra Gaza e la Cisgiordania non è un viaggio, ma una corsa a ostacoli progettata per spezzare la volontà di chi lo intraprende. Nel 2010, Hillary Clinton annunciò un programma di borse di studio per aiutare gli studenti di Gaza a studiare in Cisgiordania. Ma nel 2012, dopo che Israele si rifiutò di rilasciare permessi di viaggio, l’amministrazione Obama lo cancellò silenziosamente. Persino all’interno della Cisgiordania, studenti o accademici che viaggiano da una città all’altra devono passare attraverso molteplici posti di blocco militarizzati e affrontare interrogatori imprevedibili, in un viaggio estenuante da sopportare. Questo si estende all’impegno accademico internazionale, linfa vitale del mondo accademico moderno, che è quasi completamente ostacolato. Le università in Palestina faticano ad attrarre docenti stranieri o visiting scholar, perché agli accademici può essere rifiutato l’ingresso o possono essere concessi solo permessi a breve termine e imprevedibili. Questa porta girevole dell’incertezza mina direttamente sia la qualità della ricerca che lo sviluppo istituzionale.
Nonostante il peso dell’occupazione, un’ampia schiera di studenti fa ancora tutto il possibile per rimanere nel mondo accademico. Tuttavia, le limitate opportunità di finanziamento e gli investimenti insufficienti nella scienza fanno sì che molti studiosi promettenti semplicemente non riescano a sostenere i lunghi anni necessari per raggiungere un livello accademico più elevato. Anche quando abbandonano gli studi, entrano in un’economia soffocata da un’elevata disoccupazione e da scarse prospettive di innovazione o investimento. In queste condizioni, il risultato è prevedibile: una dolorosa fuga di cervelli. Studiosi palestinesi di talento finiscono per emigrare in Europa, nel Golfo o altrove, non perché vogliano andarsene, ma perché il sistema non offre loro altra scelta.
In precedenza hai accennato alla nascita e allo sviluppo di una cultura accademica palestinese. Com’è avvenuta e quali ostacoli ha dovuto affrontare anche prima del 2023?
L’impegno dei palestinesi nel mondo accademico è sempre stato straordinario. L’istruzione superiore è stata a lungo intesa sia come un percorso verso la leadership collettiva sia come un’ancora di salvezza per la mobilità sociale, soprattutto per i rifugiati che vivono in paesi ospitanti con livelli socioeconomici e diritti civili inferiori. Questo aiuta a spiegare perché sia la Palestina che la Giordania – quest’ultima con una popolazione di cui si stima che oltre la metà sia di origine palestinese a causa dello sfollamento durante la Nakba – registrino i più alti tassi di alfabetizzazione nel mondo arabo e nella regione in generale.
Tuttavia, dovremmo anche essere onesti: la vita accademica a Gaza e in Cisgiordania non era fiorente prima dell’inizio del genocidio. Piuttosto, sopravviveva. La storia del mondo accademico palestinese è quella di istituzioni costruite in circostanze in cui le istituzioni non sono destinate a esistere. Sotto il Mandato britannico, nonostante i palestinesi costituissero la stragrande maggioranza della popolazione, le uniche università fondate furono istituzioni ebraiche. I palestinesi dovettero formare la loro comunità accademica studiando all’estero, principalmente al Cairo e a Damasco.
Dopo la Nakba del 1948, i palestinesi si ritrovarono espropriati, frammentati e in seguito sottoposti all’occupazione militare dopo la Naksa del 1967. Un’università nazionale non è esistita fino al 1972. Da quel momento in poi, le università nei territori occupati hanno subito una cronica carenza di investimenti, chiusure, incursioni e instabilità. In tali condizioni, la ricerca scientifica non ha mai ricevuto l’ossigeno di cui aveva bisogno. I finanziamenti erano scarsi, le infrastrutture deboli, la mobilità limitata. Ciò significava che alcuni campi, in particolare le scienze sperimentali e di base, che richiedono laboratori stabili, attrezzature e collaborazione, hanno faticato a radicarsi. La cultura palestinese prosperava spesso nelle discipline umanistiche, in medicina e nella sanità pubblica, supportata da partnership internazionali che contribuivano ad aggirare il blocco delle risorse.
Eppure, nonostante i vincoli, l’attaccamento all’istruzione non si è mai indebolito. Molti palestinesi che hanno conseguito titoli di studio avanzati all’estero hanno scelto deliberatamente di tornare in Palestina, pienamente consapevoli degli ostacoli che li attendevano. La loro decisione non era semplicemente professionale; era politica, persino esistenziale. Sono tornati perché credevano che l’istruzione superiore fosse essenziale per la sopravvivenza della comunità e la sovranità futura. Il loro lavoro è continuato sotto assedio, sotto occupazione e ora, per alcuni, letteralmente sotto le macerie.
Oltre a tutto questo, il mondo accademico palestinese ha da tempo affrontato una forma di aggressione più subdola: la censura accademica. Un esempio lampante è il destino di Education and Palestine, un numero speciale commissionato dalla rivista Harvard Educational Review. Il numero era stato completamente curato, sottoposto a revisione paritaria e i contratti con gli autori erano già stati firmati. Eppure, nella fase finale, l’editore ha bruscamente annullato la pubblicazione senza alcuna giustificazione accademica trasparente. Gli studiosi coinvolti hanno in seguito descritto la decisione come un chiaro atto di pressione politica, un tentativo di impedire che una ricerca rigorosa sull’istruzione palestinese entrasse nel dibattito accademico tradizionale.
Questo non è stato un caso isolato. Si inserisce in una lunga serie di repressioni degli studi accademici palestinesi: dalle università che hanno disdetto gli inviti ai relatori palestinesi, agli enti finanziatori che hanno silenziosamente ritirato il sostegno a progetti percepiti come politicamente «sensibili». Un altro esempio è la soppressione della ricerca sulle testimonianze dei soldati su eventi come il massacro di Tantura del 1948. Quando il ricercatore israeliano Teddy Katz ha documentato i resoconti di testimoni oculari come parte della sua tesi di laurea magistrale all’Università di Haifa, il suo lavoro è stato rapidamente screditato sotto pressione politica. Katz è stato trascinato in un caso di diffamazione, ha dovuto affrontare un’intensa reazione pubblica e, infine, è stato costretto a firmare una dichiarazione in cui ritrattava le sue scoperte, cosa di cui in seguito ha dichiarato di essersi profondamente pentito. La sua ricerca non è stata smentita; è stata messa a tacere. Questi episodi rivelano un blocco intellettuale che rispecchia quello fisico. Non sono solo la terra e la circolazione dei palestinesi a essere limitate, ma anche la produzione, la circolazione e la legittimità della conoscenza palestinese.
Cosa possono fare oggi le accademie europee e statunitensi per supportare in modo più efficace le università e gli studiosi palestinesi?
C’è così tanto che deve essere fatto, con urgenza, collettivamente e con chiarezza morale. Questa, a mio avviso, non dovrebbe essere solo una reazione all’attuale guerra genocida, ma una risposta alla repressione e al silenzio intellettuale dei palestinesi che durano da decenni. La violenza contro i palestinesi non è una novità: solo da gennaio a settembre 2023, oltre 223 palestinesi sono stati uccisi e, secondo un rapporto dell’Ocha delle Nazioni unite, 6.412 palestinesi sono stati uccisi nei vent’anni precedenti gli attuali attacchi. Il conflitto in corso dovrebbe essere inteso come un’escalation di violenza continua che persiste almeno dalla Nakba, con le recenti ostilità che hanno infranto le linee di censura imposte sui media internazionali, che si estendono anche alla scienza.
A livello istituzionale, le università in Europa e Nord America devono riconoscere lo scolasticidio come un fenomeno reale e continuo, non semplicemente come un danno collaterale.
Dovrebbero stabilire partnership formali con le università palestinesi per contribuire a ricostruire le infrastrutture, scambiare programmi di studio e fornire moduli di insegnamento a distanza o ibridi.
Dovrebbero offrire soggiorni di ricerca e borse di studio specificamente rivolte ad accademici e studenti palestinesi, con accordi flessibili sui visti e supporto per coloro che non possono viaggiare facilmente.
Dovrebbero applicare il boicottaggio accademico laddove necessario: ci sono università complici dell’occupazione o dell’infrastruttura della violenza (la Dichiarazione di Uppsala, ad esempio, esorta ricercatori e istituzioni a riconsiderare gli investimenti e le partnership con organizzazioni che sono complici o contribuiscono alla violenza sistemica).
Dovrebbero promuovere un cambiamento politico: collettivamente, le istituzioni accademiche hanno un peso politico. Possono fare pressione su governi, finanziatori e organismi internazionali per garantire la ricostruzione umanitaria ed educativa, il sostegno ai programmi di borse di studio e la protezione degli accademici palestinesi.
A livello individuale, ogni studioso ha un ruolo da svolgere: potrebbe trattarsi di co-supervisionare una tesi, supportare una richiesta di sovvenzione, offrire un corso extracurriculare virtuale o dare voce a un lavoro accademico soppresso. La solidarietà che costruiamo ora può aiutare a ricostruire più di semplici edifici: può ricostruire comunità, speranza e le fondamenta intellettuali per il futuro della Palestina.
Infine, come si fa a mantenere viva la speranza, a livello personale, come scienziato e come palestinese?
La risposta è semplice. Come palestinesi di Gaza, della Cisgiordania e della diaspora, portando il peso di una perdita collettiva per quattro generazioni, non possiamo permetterci di perdere la speranza. Come scienziato tirocinante, considero la conoscenza stessa un atto di resistenza. Ogni esperimento che conduco, ogni articolo che scrivo, ogni ricercatore con cui collaboro è un piccolo atto di guarigione e ricostruzione. Il riconoscimento morale dei palestinesi da parte del mondo è cresciuto negli ultimi due anni, ma non dobbiamo essere visti solo come vittime. I palestinesi sono studiosi, scienziati, artisti e sognatori. Questa verità non può essere cancellata.
*Ibrahem Hanafi è medico e dottorando presso il Motor Control and Neuroimaging Research Group del Dipartimento di Neurologia dell’Ospedale Universitario di Würzburg, Germania. Alberto Mazzoni è professore associato di bioingegneria presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Italia.