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di Francesco Cosimato26 Dicembre 2025
Per il generale Cosimato, la retorica bellica viene usata per orientare il consenso e normalizzare l’idea di un conflitto armato in Europa
Una sezione dell’installazione Belief+Doubt di Barbara Kruger presso l’Hirshhorn Museum di Washington (2012). Foto di Steve Rhodes/Flickr. Licenza CC BY-NC 2.0.
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Dalle parole di Ursula von der Leyen alle dichiarazioni dell’ammiraglio Cavo Dragone, il linguaggio bellico è entrato a pieno titolo nel discorso pubblico europeo. Ma la «guerra ibrida», concetto vago e ripetuto ossessivamente, serve soprattutto a spostare il terreno dello scontro sull’opinione pubblica, inducendola ad accettare l’idea dell’inevitabilità del conflitto convenzionale. Un’operazione di influenza che, spiega Francesco Cosimato, coinvolge politica, apparati militari e media. E trasforma i cittadini nel vero obiettivo strategico.
Ascolta l’articolo, narrato da Elisabetta Burba:
Retorica bellicista Il concetto di «guerra ibrida» viene usato per normalizzare l’idea di un conflitto inevitabile in Europa, trasformando l’opinione pubblica nel vero obiettivo strategico.
Ruolo delle élite Lobby e istituzioni agiscono in zone grigie per orientare il consenso, scaricando le colpe sull’avversario e inducendo i cittadini ad accettare la guerra classica.
Dissonanze tecnico-militari Nonostante la propaganda, i parametri tecnico-militari indicano che la Russia non ha le forze per attaccare l’Europa. Eppure, questo dato di fatto viene ignorato.
Sconfinamenti di responsabilità Le dichiarazioni dei vertici militari e dei burocrati scavalcano le responsabilità politiche, spingendo verso il conflitto aperto in contrasto con le direttive ufficiali.
Interessi nascosti Dietro la difesa dei valori occidentali si celano i profitti dall’industria bellica e la volontà delle classi dirigenti di mantenere il potere in un Occidente in regresso.
«Dobbiamo sviluppare e impiegare nuovi strumenti per essere in grado di combattere una moderna guerra ibrida». La dichiarazione d’intenti di Ursula von der Leyen pronunciata il 17 dicembre 2025 al Parlamento Europeo a Strasburgo non è stato il proclama di una burocrate. Ha rappresentato il segnale che la guerra è entrata ufficialmente nel lessico civile di Bruxelles. Il senso di urgenza espresso dalla presidente della Commissione europea si rispecchia nelle dichiarazioni dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del comitato militare della Nato, pubblicate dal Financial Times lo scorso primo dicembre.
Non si è trattato di un’intervista vera e propria, ma di alcune citazioni di una conversazione avvenuta mesi prima con il corrispondente da Kiev del quotidiano londinese che cercava di influenzare la pubblica opinione ricorrendo a interpretazioni non certo univoche del concetto di «guerra ibrida». Lo scopo dell’articolo era evidentemente quello di indurci a pensare non solo che dobbiamo far guerra alla Russia, ma che la dobbiamo anticipare facendo quello di cui accusiamo Mosca con l’Ucraina.
La vicenda dell’Ammiraglio Cavo Dragone e la bulimia mediatica alla quale siamo sottoposti da quando è scoppiata la guerra tra Russia e Occidente in Ucraina mi induce a riflettere con attenzione alle tecniche di comunicazione di cui siamo oggetto e che servono a modificare le nostre percezioni e orientare il nostro consenso.

Questa ormai famosa, ma non chiara, «guerra ibrida» può essere definita come l’utilizzo di ogni ambito, o dominio, del contendere. Ne deriva un conflitto che diventa fumoso perché si svolge solo su alcuni di questi piani e mai dichiaratamente su tutti. In questo modo, la guerra assume una forma subdola e non ufficiale, rivolta contro qualsiasi nemico, senza una chiara distinzione delle responsabilità e senza che sia possibile capire se, e in quale misura, siamo effettivamente in guerra.
Agli ambiti tradizionali della guerra, quello terrestre, navale e aereo, si sono aggiunti nel tempo quello spaziale, quello cibernetico, quello mediatico, quello giuridico, quello economico, quello religioso, quello etnico e, chissà, altri ancora se ne aggiungeranno.
Non si tratta di una novità. Già quand’ero un giovane ufficiale si parlava di queste cose. Eravamo negli anni Novanta e nelle crisi di allora (per esempio Somalia e Mozambico) si capiva che c’erano molti attori non militari e non statuali. Al giorno d’oggi, la volontà di ribadire ossessivamente un concetto non chiaro serve esclusivamente al facile gioco di scaricare la colpa sull’avversario per perseguire di nascosto i propri fini.
Ne nasce una situazione assai pericolosa in cui le lobby, gli istituti di studio, gli influencer e, più in generale, gli organismi di pressione sulla politica e sulla pubblica opinione si muovono in una zona grigia per condurre operazioni di influenza sui cittadini. Obiettivo: far nascere la convinzione che abbiamo un nemico che ci vuole distruggere, che dobbiamo necessariamente tornare alla guerra classica, anche se nessuno lo vuole ammettere e, tantomeno, dichiarare.
A chi serve tutto ciò? L’ipotesi più semplice è che serva ai leader che vogliono consolidare la loro posizione o che la vedono traballare. La propaganda di oggi mira a persuadere l’opinione pubblica che siamo nel giusto e che la guerra in Europa è inevitabile.
Gli ambasciatori delle nazioni occidentali, ad esempio, sono molto «proattivi» (parola incriminata nell’articolo del Financial Times) nel criticare l’avversario e proporre sanzioni. Lo sono meno quando si tratta di trarre l’ovvia conclusione, cioè che siamo in guerra. La parola «guerra» spaventa l’immaginario occidentale, la «guerra ibrida» sembra un giocattolo che comunque si può maneggiare con disinvoltura. La disinvoltura nella professione delle armi è un errore tremendo e pericolosissimo.

Sono quattro anni che sentiamo figure pubbliche d’ogni tipo dichiarare che, dopo l’Ucraina, toccherà a noi. Quest’affermazione, martellante e ripetuta all’infinito, è entrata nel nostro inconscio, anche se l’esame dei parametri tecnico-militari di un ipotetico conflitto non fornisce questo risultato. Nessuno può validamente sostenere, sulla base dei parametri tecnico-militari oggi disponibili, che la Russia disponga delle forze – soprattutto in termini di personale – per attaccare l’Europa. Ma quest’argomentazione viene semplicemente ignorata e nascosta.
Il primo problema dell’articolo del Financial Times che ha strumentalizzato le dichiarazioni del tutto improvvide dell’ammiraglio, è che parte dal presupposto che noi siamo stati aggrediti dalla Russia in un conflitto ibrido e che quindi ci dobbiamo difendere attaccando. Il tentativo di persuasione parte dal dare per assodato un fatto che andrebbe dimostrato: l’idea che l’Occidente sia già sotto attacco in una guerra ibrida.
Innanzitutto, esiste un ambito, o dominio, legale e di civiltà che ci dice che la Nato è un organismo difensivo e che la sua natura non può essere mutata nemmeno da coloro che siedono nel suo organismo più importante, il Consiglio Atlantico (figuriamoci il personale in divisa). La politica può fare qualsiasi cosa, ma ne deve rispondere ai propri cittadini. In ogni caso, risponde anche delle «voci dal sen fuggite», come quelle del Segretario Generale dell’Alleanza e del Presidente del Comitato Militare, le quali affrontano concetti che non risalgono alla loro responsabilità. Responsabilità che, ribadisco, non è politica.
Unendo i puntini tracciati da Mark Rutte e da Cavo Dragone, esce fuori una freccia «proattiva» che porta al conflitto aperto con la Russia, ma che contrasta con le direttive del Consiglio Atlantico. Non è chiaro perché queste affermazioni non siano state apertamente sconfessate, come si sarebbe dovuto, visto che nessun membro dell’Alleanza le ha sostenute. Certo, la politica occidentale rischia di apparire debole quando, come il Presidente del Consiglio italiano, si limita a dire che «bisogna misurare le parole».
L’esame attento dell’articolo del Financial Times mi ha fatto intravvedere due pericoli principali: la completa perdita di senso della funzione dei media come elementi di informazione e il grave rischio di utilizzare schemi ideologici apparentemente difensivi, come la «guerra preventiva», per spingere la pubblica opinione ad accettare l’idea della guerra convenzionale.
Dall’incidente dei missili ucraini che colpirono la Polonia (15 novembre 2022) in avanti, i media prendono a pretesto ogni evento per tentare di allargare il conflitto e giustificare l’intervento della Nato o dei «volenterosi», i cosiddetti «willing Countries».
Dietro i grandi principi di difesa dei «valori occidentali», cioè delle nostre ideologie, ci sono interessi gretti, come la vendita delle armi, i profitti ottenibili dallo smembramento della Russia e il mantenimento al potere dell’attuale classe dirigente occidentale.
Il mondo occidentale, in regresso sociale ed economico, viene visto con sempre maggiore sospetto dalle nazioni orientali che ne notano le storture. Io posso sicuramente sospettare che russi, cinesi e altri popoli non siano democratici come noi. Ma noto con sempre maggiore evidenza che noi, se va bene, siamo democraticamente autocratici quanto loro.
L’utilizzo surrettizio dell’espressione «guerra ibrida» rischia di diventare come il tamburo di una rivoltella, in cui ci sono alcuni colpi e qualche buco vuoto. Continuando a fare il gioco della roulette russa, per l’appunto, rischiamo di farci saltare le cervella. Il problema è che quella pistola è sempre puntata alla nostra tempia.
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Autore
Francesco CosimatoNato a Roma il 12 novembre 1959, ha frequentato il 162° Corso Allievi Ufficiali presso l’Accademia Militare di Modena. È paracadutista militare, direttore di lancio e ispettore per attività di controllo degli armamenti. Ha ricoperto numerosi incarichi di comando e staff, tra cui missioni in Somalia (1993), Bosnia (1998 e 2006) e Kosovo (2000). Ha comandato unità come il I Gruppo del 33° Reggimento artiglieria terrestre Acqui e il 21° Reggimento Artiglieria Trieste. E ha operato presso lo Stato Maggiore dell’Esercito e presso la NATO.