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30 Dic , 2025|Luigi Pandolfi
Nel saggio Eurosuicidio. Come l’Unione Europea ha soffocato l’Italia e come possiamo salvarci (Fazi Editore, 2025, con una prefazione di Lucio Caracciolo), Gabriele Guzzi sviluppa una critica radicale dell’Unione Europea che si colloca deliberatamente fuori dal perimetro interpretativo dominante. Contro l’idea largamente condivisa secondo cui le difficoltà dell’Europa sarebbero il risultato di fattori contingenti — crisi globali, shock esterni, inefficienze nazionali o incompletezza del processo di integrazione — l’autore sostiene che la crisi rappresenti invece un esito coerente e strutturale dell’architettura europea. Non un incidente di percorso, ma la manifestazione di un disegno istituzionale preciso.
In questa prospettiva, l’Unione Europea non appare come un progetto incompiuto da perfezionare, bensì come una costruzione funzionale all’affermazione di un paradigma economico e politico ben definito: il neoliberismo. L’euro, lungi dall’essere uno strumento tecnico neutrale, assume così il ruolo di perno attorno al quale si è riorganizzato l’intero assetto dei rapporti di forza nel continente.
Il punto di svolta individuato da Guzzi è l’introduzione della moneta unica, celebrata dal discorso pubblico come il momento più avanzato dell’integrazione europea. Questa narrazione viene radicalmente rovesciata: l’euro viene interpretato come una moneta priva dei presupposti statuali indispensabili al suo funzionamento. Mancano un bilancio federale di dimensioni adeguate, una sovranità fiscale condivisa, strumenti di trasferimento e compensazione, ma soprattutto manca una legittimazione democratica capace di rendere politicamente governabili gli effetti redistributivi delle scelte economiche.
Nonostante tali carenze strutturali, la moneta unica è stata progressivamente sottratta al terreno del confronto politico, trasformandosi in un dogma. La sua intangibilità ha svolto una funzione ideologica cruciale: impedire che gli effetti economici e sociali dell’Unione monetaria venissero sottoposti a una valutazione critica, naturalizzando scelte che rispondono invece a interessi materiali precisi.
Guzzi passa quindi in rassegna le principali promesse che avevano accompagnato l’adozione dell’euro — convergenza tra le economie, stabilità macroeconomica, rafforzamento del ruolo internazionale dell’Europa — mostrando come nessuna di esse abbia trovato riscontro nei dati empirici. L’Unione monetaria non ha ridotto le divergenze, ma le ha accentuate; non ha riequilibrato i rapporti economici interni, ma li ha irrigiditi; non ha messo in discussione l’egemonia del dollaro, né ha favorito una crescita armonica dell’area.
Al contrario, l’euro ha cristallizzato un modello asimmetrico che ha rafforzato la posizione della Germania, consentendole di perseguire una strategia mercantilista fondata sulle esportazioni e sulla compressione dei salari, senza assumere alcun ruolo di locomotiva della domanda continentale. L’assenza di meccanismi redistributivi ha trasformato l’Unione monetaria in un sistema competitivo tra Stati, nel quale gli squilibri non vengono corretti ma trasferiti.
È in questo contesto che l’Italia emerge come uno dei casi più emblematici degli effetti sistemici prodotti dall’euro. La perdita della sovranità monetaria e del controllo sui tassi di interesse ha eliminato strumenti fondamentali di aggiustamento macroeconomico. Privato della possibilità di intervenire sul cambio, il sistema economico italiano è stato costretto ad adattarsi attraverso la riduzione dei costi interni, dando luogo a un lungo processo di svalutazione interna.
Questo processo ha colpito in modo diretto il lavoro: stagnazione salariale, precarizzazione dei rapporti occupazionali, indebolimento delle tutele sociali. La forza-lavoro è diventata la variabile di compensazione degli squilibri dell’Unione monetaria, con effetti cumulativi su produttività, crescita e capacità industriale. Ne è derivata una lunga stagnazione che ha progressivamente eroso il tessuto economico e sociale del Paese.
I dati riportati da Guzzi restituiscono con efficacia la portata di questa regressione: nel 2022 il Pil pro-capite italiano a parità di potere d’acquisto risulta comparabile a quello del 1966; nel confronto con la Germania e la Francia, ai livelli dei primi anni Sessanta; rispetto agli Stati Uniti, addirittura al 1961. Da qui la potente metafora proposta dall’autore: per l’Italia, l’euro ha funzionato come una “macchina del tempo”, capace di cancellare decenni di sviluppo.
Guzzi respinge l’idea secondo cui tali dinamiche sarebbero il prodotto di presunte debolezze strutturali dell’economia italiana. Prima dell’ingresso nello SME e nell’euro, la flessibilità del cambio svolgeva una funzione di riequilibrio rispetto a modelli competitivi fondati sulla moderazione salariale, in primo luogo quello tedesco. L’Unione monetaria ha invece imposto una trasformazione profonda del modello economico nazionale, smantellando progressivamente quell’equilibrio pubblico-privato che aveva garantito crescita e coesione sociale nel secondo dopoguerra.
Particolarmente significativo è il paradosso che attraversa l’intera vicenda italiana: mentre la retorica europeista celebrava l’integrazione come fattore di modernizzazione e stabilità, l’Italia assumeva un ruolo centrale nell’attuazione delle politiche di austerità, registrando avanzi primari sistematici. Nonostante ciò, il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere, dimostrando l’inefficacia — se non la contro-produttività — dell’approccio restrittivo. L’origine di questa traiettoria viene individuata nel “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981, successivamente irrigidito dai vincoli europei.
L’analisi si allarga poi al quadro continentale. Negli ultimi trent’anni, la quota europea del Pil mondiale si è ridotta in modo significativo, mentre gli investimenti restano strutturalmente insufficienti. Il divario con gli Stati Uniti appare particolarmente marcato nei settori tecnologici avanzati e nell’intelligenza artificiale, ambiti nei quali l’Europa risulta schiacciata tra la strategia industriale americana e l’ascesa cinese. La guerra in Ucraina e le scelte adottate dalle classi dirigenti europee non hanno fatto che accelerare tendenze di declino già presenti.
Uno dei contributi più rilevanti del libro, come dicevamo, consiste nell’interpretazione dell’euro come dispositivo ideologico. La sua sacralizzazione ha permesso di occultare i rapporti di forza sottostanti, imponendo un ridimensionamento della costituzione materiale senza passare attraverso un confronto democratico. Il cosiddetto “vincolo esterno” assume così la funzione di strumento di disciplinamento politico e sociale, in aperta tensione con l’impianto redistributivo e sociale della Costituzione del 1948. L’Unione Europea appare, in questa chiave, come la forma istituzionale assunta dal neoliberismo nel contesto continentale.
Nella parte conclusiva, Guzzi affronta il nodo delle alternative. Un’uscita unilaterale dall’euro viene giudicata estremamente rischiosa, mentre una postura rigidamente anti-euro rischia di replicare, in negativo, il dogmatismo europeista. L’ipotesi avanzata è quella di una “fine concordata” dell’Unione monetaria, che coinvolga in particolare Francia e Germania, entrambe attraversate da crescenti difficoltà strutturali. In tale scenario, l’Italia dovrebbe prepararsi sin d’ora, elaborando una strategia autonoma sul piano monetario, industriale ed energetico.
Resta tuttavia una tensione irrisolta tra la solidità della diagnosi e la praticabilità delle soluzioni. La critica all’assetto europeo è rigorosa e coerente, ma le possibilità di intervento dipendono da processi politici e culturali di lungo periodo. Senza una trasformazione del senso comune e senza una rielaborazione collettiva del discorso sull’euro, nessuna soluzione tecnica può risultare sufficiente.
A meno che l’evoluzione del conflitto in Ucraina — ben oltre la dimensione territoriale dello spazio post-sovietico — non produca effetti sistemici tali da ridefinire radicalmente l’assetto europeo. Ma questo, come riconosce lo stesso autore, è un capitolo ancora tutto da scrivere. Di: Luigi Pandolfi