Quando la sicurezza cancella le domande

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Emilia De Rienzo 28 Dicembre 2025

Negli ultimi giorni, tra arresti, dichiarazioni ufficiali e titoli di giornale, una parola ritorna con insistenza: terrorismo. È una parola che pesa, che chiude, che non ammette repliche. E proprio per questo dovrebbe essere maneggiata con cautela. Invece, sembra diventata una chiave universale capace di spiegare tutto – e di rendere superflua ogni domanda.

In Italia un’operazione giudiziaria ha portato all’arresto di alcune persone accusate di aver finanziato Hamas attraverso associazioni di beneficenza. È giusto che eventuali responsabilità penali vengano accertate nei tribunali, con prove e contraddittorio. Ma ciò che colpisce non è solo l’inchiesta in sé: è il contesto discorsivo e politico in cui essa viene collocata. Prima ancora che un processo abbia luogo, il linguaggio pubblico sembra aver già emesso un verdetto. Le formule rituali sulla presunzione di innocenza convivono con dichiarazioni politiche che parlano di “veli squarciati”, di “paraventi umanitari”, di “cellule terroristiche”. È una contraddizione che interroga: quanto spazio resta, oggi, per il dubbio e la distinzione?

Un’altra domanda si impone, più ampia.

Mentre singoli cittadini o associazioni finiscono sotto indagine per presunti finanziamenti a un’organizzazione considerata terroristica, uno Stato guidato da un governo formalmente sotto accusa nelle sedi del diritto internazionale continua a ricevere armi, fondi, sostegno politico.

La Corte Internazionale di Giustizia ha riconosciuto la plausibilità del rischio di genocidio a Gaza; la Corte Penale Internazionale ha chiesto mandati di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità.

Eppure, nulla sembra mutare nelle alleanze, né nelle forniture militari. Perché questa asimmetria?

Perché il diritto internazionale appare inflessibile verso alcuni e sospendibile verso altri?

C’è poi un ulteriore slittamento, forse il più delicato. L’uso estensivo delle leggi antiterrorismo non colpisce solo chi è indagato, ma produce un clima.

Un clima in cui la solidarietà verso la popolazione palestinese viene guardata con sospetto, in cui ONG, campagne umanitarie, manifestazioni pacifiche rischiano di essere assimilate a una contiguità ideologica con il terrorismo.

Lo si è visto nel Regno Unito, dove Greta Thunberg è stata arrestata per aver esposto un cartello di solidarietà, applicando una normativa antiterrorismo che l’Alto Commissario ONU per i diritti umani ha definito sproporzionata e inquietante. Non si tratta di criminalità violenta, ma di parole, simboli, prese di posizione.

Anche qui la domanda è inevitabile: quando la sicurezza inizia a colpire il dissenso, cosa resta dello spazio democratico?

Un altro elemento merita attenzione. Molte delle associazioni palestinesi finite nel mirino investigativo o politico sono state dichiarate illegali dallo Stato di Israele. Ma Israele è parte in causa nel conflitto.

È legittimo chiedersi se le categorie giuridiche prodotte da uno Stato in guerra possano essere assunte senza mediazione critica da altri ordinamenti democratici.

Chi decide, oggi, dove finisce l’assistenza umanitaria e dove comincia il sostegno al terrorismo? E con quali garanzie?

Forse il nodo più profondo non riguarda un singolo caso, ma una tendenza: la progressiva riduzione dello spazio della distinzione. Terrorismo e solidarietà, violenza e parola, assistenza civile e militanza politica vengono compressi in un’unica categoria opaca.

È una semplificazione che rassicura, ma che ha un costo altissimo: la rinuncia al pensiero critico.

Di fronte a tutte queste domande, una realtà rimane incontestabile: le migliaia di civili palestinesi uccisi, l’escalation di violenze in Cisgiordania e una condizione di vita che, anche dopo la fine proclamata della guerra, resta segnata da privazioni, soprusi e assenza di diritti.

Il popolo palestinese lotta per la sua sopravvivenza ma nulla sembra gridare contro questo crimine, nulla si muove per sbloccare gli aiuti che Israele continua a bloccare.

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