Che fine ha fatto il Green Deal?

Dal blog https://comune-info.net/

Paolo Cacciari e Aldo Femia 19 Maggio 2024

Sembra passato un secolo da quando l’Europa sbandierava il Green Deal per superare il neoliberismo in direzione di una società più ecologica. La corsa alle armi ha messo una pietra tombale su quella enorme riforma. Il fallimento dell’operazione non sta nella sua eccessiva radicalità, ma al contrario nella sua titubanza. Una autentica transizione energetica ed ecologica – scrivono Paolo Cacciari e Aldo Femia nella rivista Quaderni della decrescita – si può affermare solo nel quadro di un superamento delle regole del gioco del mercato, ovvero dei paradigmi sociali capitalistici: modi di produzione, stili di vita, sistemi di valori

Nascita, ascesa e caduta del Green Deal

Nel breve arco di una legislatura il Green Deal1 ha attraversato i cieli d’Europa come una meteora. A provocarne l’inabissamento sono stati, prima, l’emergenza sanitaria generata dalla pandemia da Covid, poi la crisi delle forniture di combustibili fossili, quindi l’inflazione, la recessione produttiva e persino le accise sul diesel dei trattori, infine è arrivata la chiamata generale alle armi contro la nuova “minaccia esistenziale”: la Russia2. La crisi climatica e – tanto più – quella ecologica sono scese dalla prima all’ultima delle preoccupazioni dei governanti. Questo mutamento di interesse è vero anche per le cittadine e i cittadini europei? Una incognita a cui le prossime elezioni potrebbero fornire qualche risposta e a cui è appeso il futuro del Green Deal.

Eppure sulla sostenibilità le cancellerie europee avevano costruito la loro immagine moderna e progressista mettendo in gioco il prestigio dell’“alleanza Ursula” tra conservatori, liberali, socialdemocratici e (spesso) verdi. La retorica delle “future generazioni” e della “lotta al cambiamento climatico” aveva contrassegnato l’“ambizioso” discorso pubblico della Commissione europea fin dal momento del suo insediamento. La “transizione ecologica” veniva indicata anche in campo economico come leva per superare le austere dottrine neoliberiste (in auge ininterrottamente da trent’anni, dal Trattato di Maastricht) a favore della riscoperta dei criteri keynesiani declinati in chiave green. La “crescita verde”, l’“economia circolare”, il decoupling (la teoria della dissociazione tra aumento del Pil e pressioni e impatti sull’ambiente, che consente di salvare l’obiettivo della crescita infinita), l’efficientizzazione e la decarbonizzazione energetica, gli standard ESG (Environmental and Social Governance) certificati da una “tassonomia” applicata a monte sugli investimenti finanziabili, l’ETS (Emissions Trading System, nient’altro che un mercato delle autorizzazioni all’emissione di gas climalteranti), le tasse ecologiche imposte anche all’importazione delle merci extraUE, lo Zero Net Land Take… ed altri complicati stratagemmi tecnocratici avrebbero posto l’Europa alla guida di un cambiamento epocale, persino morale, oltre che tecnologico, costringendo i recalcitranti Stati Uniti (Trump si era ritirato dall’Accordo di Parigi) e Cina (penosamente soffocata dai gas di scarico) a seguirla verso un mondo più pulito e più giusto: “nessuno sarà lasciato indietro” – si diceva. Insomma, l’European Green Deal (proposto da Ursula von der Leyen nel novembre del 2019) si presentava come un vasto programma capace di implementare le politiche europee in ogni settore economico attraverso una impressionante serie di raccomandazioni, direttive e regolamenti: Regolamento sulla Tassonomia degli investimenti (2020), Legge sul clima (2021), Next Generation Eu (2021), Farm to Fork Strategy (2022), Fit for 55 (2022), REPower Eu (2022), CBAM, Carbon Border Adjustment Mechanism (2023), direttiva sulla estensione dell’applicazione a tutte le società quotate in borsa della Corporate Sustainability Reporting Directive (2022), Nature Restoration Law (proposta nel 2023), Regolamento sulle catene di approvvigionamento a deforestazione zero (2023), Sustainability Due Diligence Directive (2024), estensione del regolamento sui conti ambientali (in attesa dell’approvazione formale). Ma molti di questi provvedimenti, alla fine di estenuanti trattative tra Parlamento, Commissione, Consiglio e stati nazionali si sono via via svuotati di contenuti o arenati del tutto. La loro applicazione e implementazione, poi, è affidata a procedure complesse, a sistemi di controllo farraginosi e richiede la creazione di apparati burocratici costosi e sgraditi sia alle imprese che dovrebbero subirli, sia alle amministrazioni dei singoli stati che dovrebbero attuarli. Non si contano i contenziosi e rimangono aperti ampi margini di elusione (in particolare per le verifiche di impatto ambientale), se non di truffe da parte delle imprese (tanto che si è reso necessario proporre una direttiva contro le pratiche di greenwashing, la Green claims) e di aperto boicottaggio da parte di alcuni stati.

Sempre più lontani dai target

Tra gli ultimi clamorosi voltafaccia c’è il ritiro della proposta di regolamento Sur (Sustainable Use Regulation), in applicazione della strategia Farm to Fork, “dalla fattoria alla forchetta”, lungo tutta la filiera agroalimentare per realizzare un sistema “giusto, sano e rispettoso dell’ambiente”. Il suo obiettivo concreto era dimezzare l’uso dei fitofarmaci e pesticidi chimici più pericolosi entro il 2030. Il Sur è stato l’agnello sacrificale offerto per chetare i bollenti spiriti degli agricoltori scesi nelle strade di mezza Europa con i loro potenti trattori diesel (sussidiati). Per la verità la proposta di regolamento era già stata respinta dal Parlamento europeo nel novembre dello scorso anno, ben prima delle proteste, sotto il tiro incrociato dei Verdi che giudicavano la proposta troppo debole, e del Partito popolare alleato alle destre perché, al contrario, troppo limitante le attività delle grandi imprese dell’industria agrochimica. Ciò a conferma di quanto affermano da tempo la Confédération Paysanne, Via Campesina e le varie reti dei contadini biologici: l’agroindustria megaintensiva, sintetica, digitale, “di precisione”, biotecnologica… non va d’accordo con la preservazione dei cicli vitali del suolo.

Altro recente colpo inferto al Green Deal è l’annacquamento della Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), proposta dalla Commissione già nel 2022 e approvata il 15 marzo di quest’anno ma ora osteggiata dai governi della Germania (con i Grünen intrappolati nelle dinamiche del governo con i liberali) e dell’Italia (il cui governo opera sotto dettatura della Confindustria) che si sono astenuti nell’ultimo passaggio nelle trattative tra stati e Commissione. Definita come un provvedimento cruciale per accompagnare la transizione delle imprese verso la sostenibilità, la legge prevedeva l’introduzione – peraltro, molto graduale e soft – di obblighi sul rispetto dei diritti umani e della tutela dell’ambiente per le imprese che operano nella Ue a cui dovrebbe essere chiesto di rendere pubbliche le performance ambientali attraverso un Corporate Sustainability Reporting, già in vigore per le grandi imprese, in linea con gli impegni dell’Accordo di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico. (Per comprendere l’importanza di tali regolamentazioni nel settore della moda – ad esempio e in particolare – si legga il saggio di Deborah Lucchetti su questo stesso fascicolo).

Il colpo più grave al Green Deal è stato inferto dal Consiglio dell’Ue che con un voto a sorpresa, il 22 marzo scorso, ha rinviato a data da destinarsi (cioè, salvo miracoli, a dopo le elezioni di giugno) l’approvazione del regolamento sulla Nature Restoration Law. Un voltafaccia vergognoso per mano dei governi caduti nelle mani delle destre negli ultimi due anni (tra cui l’Italia) – segno dei mutati equilibri politici all’interno della Ue – e, per di più, uno sgarbo inusuale al Parlamento europeo che aveva approvato il provvedimento già due volte, l’ultima nel febbraio scorso sulla base di un compromesso al ribasso che ne aveva depotenziato di molto l’efficacia. Un esempio davvero eclatante di quanto poco democratica sia l’intera impalcatura delle istituzioni europee. È accaduto che tra i rappresentanti (ambasciatori) dei governi dei 27 stati membri si è formato un “blocco di veto” comprendente Ungheria, Austria, Finlandia, Paesi Bassi, Polonia, Svezia e Italia che ha messo nell’angolo Francia, Germania e Spagna. La legge sul ripristino della natura veniva considerata il “regolamento simbolo” del Green Deal, uno dei suoi pilastri più importanti e innovativi sotto il profilo naturalistico che puntava a tutelare il 20% della superficie terrestre e marina dell’Unione entro il 2030, per poi estenderle ad una serie di ecosistemi entro il 20503. Le reazioni non sono mancate. Il WWF ha lanciato un appello di scienziati e naturalisti per chiedere al governo italiano di rivedere la sua posizione. Špela Bandelj Ruiz di Greenpeace ha dichiarato: «È una vergogna che i governi silurino i primi piccoli passi verso il ripristino della natura europea. Stanno giocando con la vita delle generazioni future e con il sostentamento degli agricoltori che affermano di proteggere. Senza natura, non c’è cibo e non c’è futuro». Alessandro Polinori, presidente della Lipu, ha dichiarato: «Dopo aver superato enormi difficoltà e il sostegno di 300 tra associazioni, università, enti che hanno aderito al Manifesto per la Restoration Law della nostra associazione non possiamo che esprimere rabbia e delusione per quanto accaduto». La coalizione #RestoreNature, composta da BirdLife Europe, ClientEarth, EEB e WWF EU ha scritto un comunicato in cui si dice: «Condanniamo tutti gli Stati membri che non sostengono la legge – nella migliore delle ipotesi, ciò suggerisce una profonda incapacità di comprendere la situazione in cui ci troviamo e cosa significa per i diritti dei cittadini. (…) È del tutto incomprensibile e spaventoso vedere la legge sacrificata sull’altare del sentimento populista anti-verde, privo di qualsiasi spiegazione razionale, e minando il processo decisionale democratico».

L’elenco completo dei colpi di maglio inferti al Green Deal è ancora lungo: marcia indietro sui tempi dello stop dei motori termici alimentati a benzina e diesel; opposizione al regolamento sugli imballaggi; annacquamento della direttiva sulle “case green”; via libera ai nuovi Ogm basati sulle tecniche genomiche; insabbiamento del regolamento REACH sui rischi associati alle sostanze chimiche; retromarcia nella Politica Agricola Comune sugli obblighi alla rotazione delle colture e la messa a riposo di una quota (minima) di terreni. Infine lo stop al regolamento per impedire la “deforestazione importata”, ovvero sulla tracciabilità e vigilanza dei prodotti (la lista è particolarmente lunga: beni alimentari come cacao, caffè, soia, olio di palma o carne bovina, oltre a legnami, caucciù, cuoio, carta, carbone, pneumatici, cosmetici) che possono provenire da aree tutelate.

Il tutto avviene mentre anche il principale obiettivo della transizione ecologica, l’abbattimento delle emissioni (dirette e indirette) di gas climalteranti, rimane lontano dalla road map stabilita. Nonostante i toni trionfalistici da primi della classe usati dai commissari europei, l’“ambizioso” obiettivo della riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 sul 1990 è entrato nel mirino delle politiche europee solo in maniera relativa e nominale. Una diminuzione c’è stata (da 3.500 a 2.800 milioni di tonnellate di gas climalteranti), ma le attuali 6,2 tonnellate pro capite medie nei 27 paesi della UE continuano ad essere esorbitanti. Se guardiamo poi ai principali aggregati di fonti di emissione scopriamo che le diminuzioni derivano soprattutto dall’industria, mentre quelle generate dai trasporti persino aumentano e quelle per gli approvvigionamenti energetici (in transizione dal carbone alle rinnovabili passando attraverso il gas) rimangono sotto la prevista tabella di marcia. Ciò vuol dire che i “risparmi” e il decoupling (nella misura in cui si è verificato, ridotto e limitato solo ad alcune pressioni ambientali) sono stati possibili grazie all’esternalizzazione e alla delocalizzazione delle filiere produttive più pesanti, energivore e sporche4. I paesi del sud globale chiamano questa pratica neocolonialismo del carbonio. Il carbon border adjustment mechanism, (il regolamento adottato dalla UE nel 2023 che produrrà effetti concreti solo dal 2026) si presenta più come un’azione protezionistica che non un’operazione di giustizia climatica.

Le performance ambientali sarebbero ancora peggiori se dovessimo assumere come punto di riferimento i nuovi indicatori di sostenibilità elaborati dall’Istituto di ricerca delle Nazioni Unite per lo sviluppo sociale (UNRISD) per valutare le prestazioni delle aziende, l’Authentic Sustainability Assessment, che fanno riferimento non solo alle emissioni di CO2, ma all’insieme dei cosiddetti planetary boundaries, le soglie di sostenibilità delle risorse vitali del pianeta, come il consumo di acqua, la perdita di biodiversità, la qualità dell’aria.

Chiediamoci perché

A fronte della divaricazione crescente tra obiettivi annunciati e risultati ottenuti bisogna quindi chiedersi apertamente e con animo sincero quali sono i motivi per cui il Green Deal e, in generale, le strategie riformiste di direzionamento del sistema capitalistico alla sostenibilità, non solo in Europa, stanno incontrando così pesanti ostilità, conseguenti ripensamenti e battute d’arresto. Gli stessi attivisti climatici dal 2019, dall’emergere del fenomeno Greta ad oggi, sembrano in sofferenza.

La prima spiegazione che i greennewdealer, i sostenitori dei movimenti ambientalisti, si danno è che le lobby fossili sono ancora troppo potenti e hanno a disposizione così tanti “mezzi di persuasione” (come si è visto nella gestione delle Cop dell’Onu sul clima) da poter influenzare le politiche energetiche dei governi e sorreggere le oligarchie petrolifere nel mondo, Russia compresa. Le grandi corporazioni Oil & Gas hanno ancora a disposizione vasti giacimenti fossili da sfruttare e infrastrutture da finire di ammortizzare. Insomma, saremmo in presenza di una inerzia che ritarda e impedisce la transizione energetica.

Secondo un’altra interpretazione – ancora più intrigante e condizionante – la mancata attuazione del Green Deal non dipenderebbe solo dalla volontà malefica delle lobby fossili, ma da una condizione strutturale dell’intero apparato produttivo industriale che rimane dipendente dall’energia concentrata e ad alto rendimento termico5. Da ciò deriva il fatto che il sistema termoindustriale non ha alcun interesse ad uscire dal fossile e decarbonizzare la produzione di energia, poiché si verrebbe a verificare una difficoltà insormontabile alla base della catena della creazione del valore, del profitto, dell’accumulazione e della stessa riproduzione sociale. In altri termini: senza fossili i modi di produzione e l’organizzazione sociale basati sulle ragioni del capitale entrerebbero in crisi. Per di più, vi sarebbe anche una motivazione politica circa l’impossibilità di attuare una transizione energetica nel capitalismo dal fossile al solare (produzione di energia rinnovabile e decentrata) – pure tecnicamente e finanziariamente possibile -, poiché aumenterebbe il potere di autodeterminazione e autogoverno delle popolazioni locali insediate nei territori (sovranità energetica, alimentare, uso del territorio e delle risorse naturali, ecc.) affrancandole potenzialmente dal dominio dei poteri centralizzati del sistema di comando politico capitalistico. Rischio questo esiziale per i poteri costituiti delle società transnazionali. Lo scontro, insomma, per la transizione ecologica si farebbe immediatamente politico.

Nell’uno o nell’altro caso, comunque la valutazione è che il sistema capitalistico fondato sull’energia fossile stia combattendo una battaglia di retroguardia, di resistenza, volta a procrastinare la propria inevitabile fine, causata dagli insostenibili impatti ambientali e dalle contraddizioni sociali (diseguaglianze, marginalizzazione del sud globale, zone di sacrificio, ecc.). Gli attacchi al Green Deal sarebbero i colpi di coda di un sistema che non vuole rassegnarsi al nuovo; il “morto” gramsciano che impedisce il sorgere della nuova società.

Una spiegazione più convincente

A noi sembra, però, che questi scenari – per quanto veritieri – non siano di aiuto al crescere e alla incisività dei movimenti ecosociali, senza la spinta dei quali non vi sarà alcuna conversione ecologica. Per due motivi paradossalmente opposti. Da un lato le spiegazioni sulla forza del capitalismo morente – un ossimoro, per l’appunto – possono apparire consolatorie della debolezza dei movimenti stessi: è sempre l’avversario ad essere troppo forte, mai noi troppo deboli. D’altro lato prospettano fatalisticamente e ottimisticamente la auto-implosione del capitalismo, destinato a perire per le sue contraddizioni interne. Non ci rimarrebbe quindi che aspettare sulla riva del fiume che passi il suo cadavere.

Ma il nostro problema è precisamente politico: realizzare il superamento del sistema capitalistico il più presto possibile impedendo che continui a trascinare nella sua catastrofica crisi parti crescenti dell’umanità e interi ecosistemi. Se ciò non dovesse verificarsi il rischio che corriamo non è solo un ritardo nella realizzazione degli interventi di conservazione ambientale e umanitari, ma il deflagrare dei conflitti geopolitici: dal Green Deal al “War Deal”, appunto6. Il collasso del sistema senza valide e contestuali alternative non porterà certo i governanti a più buoni consigli, non ci chiederanno scusa per i ritardi accumulati, non richiameranno i loro eserciti, ma più probabilmente diventeranno più aggressivi e conflittuali, riempiranno gli arsenali e militarizzeranno gli stati, ci faranno entrare in un’economia di guerra e ci chiederanno sacrifici non per salvare il pianeta e per condividere più equamente l’accesso alle risorse tra tutti gli abitanti della Terra, ma per impossessarsene. Il prezzo del fallimento della transizione energetica ed ecologica è la guerra combattuta a pezzi a scala mondiale. Questo è esattamente lo scenario che abbiamo di fronte ai nostri occhi e che dobbiamo evitare per quanto ancora possibile. Urgentemente7.

Dovremmo allora riuscire a fornire una spiegazione convincente e utile alla comprensione dei fallimenti delle risposte alla crisi ecologica e sociale fin qui fornite dall’ecologismo pragmatico della realgreenpolitik della Ue. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di mobilitare soggetti sociali in carne ed ossa interessati e attratti dalla costruzione di una alternativa di sistema: ecologica, equa, solidale, nonviolenta, empatica, compassionevole, cioè fondata sull’aspirazione a una vita ricca di relazioni umane e di godimento della natura.

A noi sembra che le ragioni di fondo dei fallimenti del Green Deal, del riformismo verde ispirato da una “transizione debole” dipendono dalla loro incoerenza interna, da una parte, e dalla loro timidezza nel prospettare la profondità del cambiamento necessario, dalla loro mancanza di visione, dall’altra8. Non c’è nulla di peggio che farsi prendere dalla incertezza quando si è in mezzo al guado.

Il primo errore commesso dalle tecnocrazie europee che ha portato in stallo il Green Deal è pensare di poter ottenere un minor impatto sull’ambiente delle attività umane utilizzando i vecchi strumenti e meccanismi di mercato. Provate voi ad avvitare una vite con un martello! C’è una contraddizione insanabile tra la logica di mercato e l’accettazione dei limiti biogeofisici del pianeta. Il modello dell’impresa capitalistica è incapace di autoregolare la propria espansione, è concepito per competere, produrre profitti e accumulare denaro, e per non distribuirne abbastanza in tempi di crisi. Non per altro. Inoltre, pensare che il cammino verso la sostenibilità ambientale possa essere economicamente conveniente per il complesso dei bilanci aziendali si è rivelato un inganno, anche se lo è per alcuni settori o singole imprese. L’idea che, in virtù del presunto decoupling, si possano continuare ad accrescere le produzioni e i consumi senza distruggere il pianeta legittima le politiche espansive. Ma un’idea non basta: se il decoupling non è una reale possibilità, almeno uno dei due estremi del rapporto non andrà nella direzione desiderata: le attività economiche andranno in crisi, o la situazione ambientale non migliorerà. Oppure, come sembra sia il caso, entrambe le cose si verificheranno parzialmente: l’economia non crescerà abbastanza da giustificare il Green Deal agli occhi delle élite economiche e dei lavoratori la cui fonte di reddito è in pericolo, né l’ambiente migliorerà abbastanza da giustificare il Green Deal agli occhi dei cittadini.

Più in profondità ancora nei sostenitori del Green Deal (anche tra gli attivisti climatici e i movimenti ecologisti) vi è una generale scarsa consapevolezza degli effetti sconvolgenti (nel bene, se bene gestiti, nel male, se lasciati all’arbitrio dei poteri dominanti) che potrebbe generare una vera transizione ecologica sull’insieme della società. Sottovalutare questi effetti potenzialmente trasformativi, minimizzarli per timore di spaventare troppo il business as usual, non sembra essere una buona strategia. Sia perché in tal modo si rinuncia al fascino che contiene la proposta di una nuova società ecologica, sia perché non si presta la dovuta attenzione alla gestione pratica delle trasformazioni dei meccanismi economici e dei riposizionamenti delle persone (le “cinture di sicurezza” cui dotare le persone coinvolte). Il “trasferimento” delle attività umane da un sistema energetico ad un altro deve essere accompagnato da un cambiamento dell’insieme dell’organizzazione della società (tempi e modi di lavoro e di vita, sistemi di potere e tecnologie, mentalità e comportamenti) pena la perdita di efficacia. Non si tratta solo di “aggiungere” nella produzione di energia una certa quota di rinnovabili, di piantare un certo numero di alberi, di riciclare una certa quantità di materie prime, di spostare una quota di consumi insostenibili (carne, voli aerei, moda di lusso…) ecc., ma di modificare in profondità ed estesamente il “metabolismo sociale”, ovvero le relazioni tra attività umane e natura, al contempo garantendo alle popolazioni l’accesso alle risorse economiche necessarie per una vita dignitosa, superando – se è il caso – l’abitudine all’opulenza, o il potente miraggio della stessa, o la paura dell’indigenza, che sorreggono l’adesione all’ideologia della crescita. Una rivoluzione certo fisica e tecnologica, ma prima di tutto mentale, antropologica, culturale, politica. Detto in un altro modo: se i benefici del nuovo modo di ricavare energia e, in generale, di interagire con la natura in modo equilibrato, non vengono indirizzati a fini desiderabili e condivisi da tutti gli esseri umani presenti e futuri sulla faccia della Terra, se la transizione ecologica non corrisponderà anche ad una acquisizione di potere e consapevolezza da parte delle cittadinanze, allora il cambiamento non avrà mai una sufficiente base di consenso per potersi realizzare9. In altri termini ancora – per ripetere uno slogan – giustizia ambientale e sociale sono due facce della stessa medaglia. È esattamente questo il motivo per cui le destre politiche in tutto il mondo vedono l’ambientalismo come fumo negli occhi e si adoperano (con successo, ahi noi!) per demonizzare e affossare qualsiasi tipo di politiche ambientali, definite: “frenesia verde”, “eco-loon”, “ideologia verde”, ecc.

Green Deal sotto attacco

Chiediamoci anche perché le forsennate campagne delle destre contro le politiche ecologiche riescono ad attecchire nell’immaginario popolare, a dispetto dell’evidenza degli sconvolgimenti ambientali – e non solo – in atto.

Innanzitutto, le destre enfatizzano oltre il necessario il ruolo e il peso che dovrebbero avere gli investimenti pubblici nella conversione energetica e in genere nella conservazione degli ecosistemi. “Serve denaro pubblico”, continuano a dire sottintendendo: “troppo”. Così si evoca lo spettro del deficit di bilancio e dell’aumento delle tasse; nuova “austerità” e nuovi “sacrifici”. Dando per scontato che le imprese private non dovrebbero “contribuire” ai costi delle ristrutturazioni dei loro impianti. Per chi poi? “Per le farfalle!”, strilla Salvini, ma non solo lui. È stato proprio il ministro alla Transizione ecologica del governo Draghi, Roberto Cingolani (ora ad del gruppo Leonardo ex Fincantieri), ad annunciare per primo un «bagno di sangue» provocato da un Green Deal «troppo accelerato». La stessa Ursula von der Leyen, in vena di autocritica, sul regolamento sui pesticidi (Sustainable use regulation), ha affermato: «Solo se i nostri agricoltori potranno vivere della terra potranno investire nel futuro». Un ragionamento estendibile ad ogni settore economico: Primum vivere. Gabriel Attali, nuovo primo ministro di Macron le ha fatto eco: «Faremo in modo che gli interventi sul clima facciano rima con la crescita».

L’attacco più subdolo alle politiche ecologiche usa l’argomento della “rinuncia altruistica”. Ad esempio, il pensatore geopolitico belga Sven Biscop, fautore del riarmo della UE, afferma: «L’UE ha la maggiore responsabilità storica del cambiamento climatico e dell’esaurimento delle risorse naturali. È anche una delle parti più prospere del mondo. Se dobbiamo rinunciare alla crescita economica, è naturale che l’UE sia all’avanguardia in prima linea»10. Presentando la sostenibilità come una diminuzione, un sacrificio la si condanna automaticamente agli occhi della “gente comune”, che – come abbiamo visto in molte circostanze – se viene posta nella scomoda posizione di dover scegliere tra la “fine del mondo” e la “fine del mese” sceglie quest’ultimo.

In definitiva il ragionamento che muove i detrattori del Green Deal è molto semplice e lineare: la transizione ecologica, mettendo in difficoltà le imprese, peggiorerà di conseguenza le condizioni economiche dei ceti popolari. Mentre i benefici (auto elettriche e insalate biologiche, ville passive in campagna e desalinizzatori per riempire le piscine…) saranno riservati a chi potrà permetterselo.

Come dargli torto? Il Green Deal concepito e gestito all’interno dei meccanismi di mercato e del paradigma tecnologico-prometeico non può che portare a questi risultati.

Lavorare per produrre meno

A noi sembra, tuttavia, che non sia una buona tattica negare il fatto che una vera transizione ecologica avrà necessariamente un impatto negativo sul funzionamento dell’ “economia dei soldi”, così come è attualmente organizzata. Sarebbe come dire che la transizione non cambierebbe nulla. L’immagine rassicurante del win-win che i sostenitori tendono a dare del Green Deal non è veritiera. Ogni tentativo volto a bilanciare perdite e guadagni economici della trasformazione ecosostenibile degli apparati termoindustriali esistenti (fabbriche, infrastrutture, mobilità, edilizia…) è inevitabilmente in perdita. Per quanta buona volontà si possa mettere nel tentativo di dimostrare che i posti di lavoro perduti in un settore si possono recuperare in un altro (dal fossile alle rinnovabili, dall’industria all’artigianato, dagli investimenti a breve agli “investimenti pazienti” con rendimenti a lungo termine, dalla produzione alla riparazione, dal materiale al cognitivo, dai servizi standardizzati alla cura personalizzata, dal cemento alla paglia…) alla fine della fiera una società ecologica (in equilibrio con i tempi e i modi di rigenerazione dei cicli vitali naturali) dovrà sicuramente ridurre non solo prelievi, scarti e accumuli di materie, migliorando i bilanci di materia e di energia e rispettando il suolo, ricomponendo la “frattura metabolica” provocata dalle società industriali, ma anche l’input complessivo di lavoro salariato. Occorre sempre tenere presente che – semplificando al massimo – la quantità di lavoro necessaria, dal punto di vista delle famiglie, a garantirsi un reddito sufficiente per l’acquisto delle merci di cui si ha bisogno o si desiderano, e quella necessaria, dal punto di vista delle imprese, a realizzare la produzione delle stesse merci non sono altro che due facce di una stessa medaglia. Negarlo, per assurdo, sarebbe come sminuire lo scopo stesso di una società ecologica, che è quello di avere meno bisogno di prelevare materie prime, trasformarle in oggetti per commercializzarli e alla fine disfarsene, e di impiegare minori quantità di lavoro nelle produzioni orientate al mercato. Transitare da un’economia lineare ad una “circolare” – per quanto possibile – è illusorio senza ridurre la portata degli input, dei flussi di materia e di energia – anche umana – impiegati nei cicli produttivi e di consumo. Mettere in discussione la quantità e la velocità dei processi di sfruttamento/trasformazione delle risorse naturali ha una conseguenza inevitabile in una economia di libero mercato: significa ridurre l’apporto di lavoro umano “occupabile”, cioè retribuibile attraverso il ricavato delle merci vendute. A meno che le merci non crescano nel loro valore complessivo diminuendo la loro quantità (ipotesi poco verosimile in un sistema economico di libera concorrenza), al diminuire delle produzioni diminuirà anche l’ammontare di reddito riservato al lavoro nella lotta permanente per la spartizione degli utili tra capitale e lavoro. Ci pare evidente che ogni politica, norma, regolamentazione rivolte alla conservazione dei patrimoni naturali attraverso la riduzione dei flussi di materie e di energia impiegati nei cicli produttivi si risolva necessariamente, in un sistema che tende a minimizzare l’input di lavoro salariato, in una diminuzione di tempo e di valore dell’ammontare del lavoro impiegato nella produzione per il mercato. Una sciagura per tutti coloro che soddisfano i propri bisogni grazie ad un reddito da lavoro, le grandi masse dei lavoratori e delle lavoratrici. Come suole dire Serge Latouche: «Non c’è nulla di peggio che rimanere senza lavoro in una società lavorista»11.

Come riuscire allora a soddisfare le due esigenze (sussistenza e sostenibilità) che nella nostra società si presentano contrapposte, come se ci trovassimo di fronte al tragico dilemma del gioco della torre? Non potendo noi – che non siamo Dio – cambiare le leggi della fisica che regolano materia ed energia (i principi dell’entropia e della termodinamica, oltre che della biologia e dell’ecologia), sarà bene operare negli ambiti d’azione che sono a nostra disposizione, vale a dire, delle scienze sociali e dell’economia – ovviamente non pensando l’economia nel senso ristretto del mainstream accademico, ma nel senso epistemologicamente aperto delle scuole economiche eterodosse, da Marx a Keynes, da Polanyi a Georgescu Roegen, dall’economia istituzionalista a quella evoluzionista. Qui è il regno dei patti sociali e delle convenzioni, delle consuetudini e delle finzioni giuridiche che le società possono determinare a proprio piacere secondo sistemi di valori e convenienze condivisi.

Per “integrare” e armonizzare sistemi produttivi e ecologici dobbiamo quindi entrare nell’ordine di idee di modificare profondamente gli assetti socioeconomici oggi dominanti, in maniera da garantire a tutti un reddito dignitoso, una generalizzata e quanto meno possibile alienata partecipazione alla creazione dei beni e dei servizi di cui vi è effettivamente bisogno, una condizione di vita soddisfacente svincolata dalla dipendenza dalle merci – che è l’altra faccia della medaglia della riduzione dei flussi di materia ed energia. Non facile, visti gli interessi in gioco, ma possibile e, soprattutto, desiderabile. Dovremmo riuscire ad immaginare di rovesciare, di ribaltare (se non vogliamo usare il verbo rivoluzionare) le basi “morali” stesse dell’ordine capitalistico – agire per proprio conto, competere per massimizzare il profitto, accrescere la produzione, accumulare ricchezza… – e fare il contrario. Dovremmo riuscire a pensare di vivere in una società ecologica dove si lavora (nel senso di operare e agire) per produrre e consumare di meno.

Facile a dirsi, meno ad attuarsi, ma da questa cruna passa la scommessa della transizione, “conversione” – nella accezione ampia di Alex Langer – ecologica. Una transizione che, nel farsi, trasforma le regole del gioco, fa cambiare significato ai singoli elementi del sistema. Serve quindi inserire il Green Deal in un più vasto programma di politica economica post e beyond growth12, concreto, graduale, a incominciare proprio dal lavoro.

Dal Green Deal al Post Growth

Dedicare meno tempo e fatica ad estrarre materie prime e trasformarle in merci non significa affatto ridurre le attività umane, sia fisiche che mentali. Si tratta di riorientare il loro impiego per aumentare il benessere psicofisico, materiale e spirituale, individuale e comunitario di tutti gli esseri umani. Il passaggio da un impiego eterodiretto ad una attività liberamente scelta implica il cambiamento delle stesse finalità del lavoro, i suoi modi di impiego, il suo riconoscimento sociale, il compenso e la soddisfazione che gli individui ne ricavano. In una lettera aperta sottoscritta da movimenti per la decrescita c’è scritto: «Invece della crescita economica e dello spreco di produzione, dobbiamo mettere la vita al centro dei nostri sforzi. Mentre alcuni settori dell’economia devono essere abbattuti il più velocemente possibile, altri devono essere promossi» 13.Per iniziare questo percorso di liberazione delle energie psicofisiche degli individui verso «il pieno sviluppo della personalità umana», a cui si riferisce anche la nostra Costituzione (Art. 3), è necessario sbrogliare alcuni nodi, sia pratici che teorici, urgenti e di lungo periodo, locali e globali. Vediamone alcuni.

  • Il primo elemento di una strategia di uscita dalla follia crescitista del capitale è il “decoupling” tra le attività svolte (a qualsiasi titolo) e la loro retribuzione in moneta corrente. Le attività umane devono liberarsi dal giogo che le lega come lavoro subordinato, salariato alla ruota della macina capitalista, produttrice di profitti, accumulatrice di denaro. Le attività umane devono potersi muovere liberamente e applicarsi a fare ciò che è più soddisfacente per ognuno/a. I benefici che la società nel suo complesso trarrà da queste libere attività umane determineranno il livello di benessere generale raggiungibile e consensuale. Non si potranno più chiedere maggiori generi di comfort per alcuni gruppi sociali e per alcune comunità sacrificandone altri. Così come non si potrà decretare la morte di alcuni ecosistemi (“territori di scarto”) compensandoli con la protezione di altri. Il “commercio delle indulgenze” (mercato delle autorizzazioni ad inquinare, compensazioni, concessioni ad estrarre risorse non rinnovabili e a rilasciare inquinanti, altri stratagemmi di mercato) dovrà essere abolito, così come lo sfruttamento dei lavoratori migrati ed ogni forma di lavoro schiavo. Per usare un linguaggio macroeconomico, la società ecologica – per poter funzionare – ha bisogno di un’altra teoria generale del valore, anzi dei valori,dove natura e lavoro si liberano dalla loro umiliante condizione di merce. È questa, in grande sintesi, la scommessa del reddito universale individuale incondizionato. Cosa ciò potrà comportare non lo sappiamo. Avremo meno soldi in tasca e più accessi ai servizi pubblici? Divideremo il nostro tempo giornaliero in più occupazioni? Avremo meno oggetti a disposizione e più calde relazioni umane? Non si può sapere, non abbiamo ricette preconfezionate da vendere nelle cucine del futuro, ma crediamo che varrebbe la pena incominciare a provarne alcune.
  • Un secondo elemento è il “separare” quote sempre più grandi delle retribuzioni del lavoro (in qualsiasi sua forma e titolo) dal denaro emesso con la divisa ufficiale dalle banche. Fumagalli e Ruzzene in questi stessi Quaderni della decrescita (Sentieri per uscire dalla morsa del denaro. Le diverse forme di moneta e di crediti mutuali) ci spiegano come potrebbe essere possibile attribuire alle attività/lavoro un valore effettivo, misurabile e riscontrabile attraverso sistemi di scambio non monetari. Una pluralità di “monete altre” appropriate per le diverse tipologie di attività/lavoro: autonome, comunitarie, mutualistiche, locali, bioregionali, ecc.
  • Un terzo elemento non costa nulla, è stramaturo e può essere decretato in un giorno dal prossimo G7, senza aspettare una nuova Breton Woods: abolire il Pil come indicatore e misura del progresso sociale e sostituirlo con un pacchetto di indicatori di salute socio-ecologica. Ne esistono diversi: i sistemi di misure sottostanti lo Human Development Index, il Genuine Progress Indicator (GPI), o la Gross National Happiness (GNH), i bilanci di benessere, i 169 indicatori per il monitoraggio dei 17 Sustainable Development Goals, ecc. Da noi esiste il sistema Benessere Equo e Sostenibile (BES). (Vedi la rubrica su Statistica e decrescita, in questa stessa rivista).
  • Un quarto elemento strategico, decisamente più impegnativo, è riprendere il controllo democratico sulla ricerca scientifica e sulle applicazioni tecnologiche. Sta crescendo una pericolosissima fede nelle miracolose doti delle innovazioni tecnologiche che sarebbero capaci di risolvere ogni tipo di problema (tecno-ottimismo, pantecnologia). A questa tendenza va contrapposto un rigido principio di precauzione e un sistema di controllo su ogni tipo di attività, a partire da quelle sviluppate in ambito militare – che anzi andrebbero abolite, costituendo la vetta più alta dell’umana incapacità di perseguire, di fronte a problemi e conflitti, soluzioni condivise e durature, e della tendenza a cercare di sopraffare la concorrenza con una crescita della propria potenza distruttrice14. I brevetti – a cominciare da quelli sul vivente – devono essere socializzati. La geoingegneria vietata. I social media comunitarizzati. I saperi locali, esperienziali, contestuali e gli strumenti conviviali restituiti alla sovranità delle popolazioni.
  • Un quinto elemento è mettere le mani sull’architettura dei poteri. Riterritorializzare non solo le produzioni, ma i centri di decisione, le istituzioni amministrative e politiche e – di fondamentale importanza – finanziarie (di nuovo, si veda l’intervista a Fumagalli e Ruzzene in questa rivista). Nel primo numero dei Quaderni abbiamo pubblicato un documento che un gruppo di discussione dell’Associazione per la decrescita ha portato alla Conferenza internazionale di Zagabria lo sorso anno sulla nozione di comunità. (https://quadernidelladecrescita.it/2024/01/01/comunita-e-decrescita/). Sarebbe importante che se ne discutesse. Forse le esperienze zapatiste del Chiapas (“reti comunitarie di base”) e curde del Rojava (“confederalismo democratico”) apparirebbero meno esotiche di quel che sembrano a prima vista.

In definitiva, la società ecologica è una ipotesi che sfida tutti i paradigmi del sistema attuale (mercato, profitto, accumulazione, crescita, denaro) a favore di un’idea di autodeterminazione e autogoverno in capo a comunità ben insediate nei territori, responsabili e curatrici del loro carico antropico, capaci di autosufficienza locale fondamentale. Si tratta di una visione molto vicina a quella ben delineata dalla scuola eco-territorialista e bioregionalista. Scrivono Alberto Magnaghi e Ottavio Marzocco: «un approccio culturale che sottrarre le strategie di conversione ecologica alla loro astrazione globalizzante»15.La nostra simpatia, date queste premesse, – si sarà capito! – non può che andare a un’idea di società della decrescita comunitarista o communitarista (commons) che si organizza attorno alla cura dei beni comuni.

Un progetto che può apparire improbo, persino ingenuo e utopico, ma lo crediamo necessario per contrastare anche in Europa il primato del mercato, dell’ortodossia liberista, della libera concorrenza, del capitale, incompatibili con una società ecologica.


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1«Il cambiamento climatico e il degrado ambientale sono una minaccia esistenziale per l’Europa e per il mondo. Per superare queste sfide, il Green Deal europeo trasformerà l’UE in un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva, garantendo nessuna emissione netta di gas a effetto serra entro il 2050, crescita economica disaccoppiata dall’uso delle risorse, nessuna persona e nessun luogo lasciati indietro». European Commission. The European Green Deal – Striving to be the first climate-neutral continent, https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/priorities-2019-2024/european-green-deal_en

2Nel discorso pronunciato della presidente della Commissione al Parlamento Europeo a fine febbraio, Von der Leyen ha affermato: «Collettivamente, dobbiamo inviare un segnale forte alle imprese. […] L’industria della difesa in Europa ha bisogno di accedere ai capitali. […] Dobbiamo convincere i nostri finanziatori, sia pubblici sia privati a sostenere la nostra industria della difesa». Riguardo le armi, secondo von der Leyen, serve una spesa migliore e maggiore che passa in primo luogo per la realizzazione di appalti pubblici su scala europea per la difesa. «Così come siamo riusciti a fare per i vaccini». Andrea Baranes, su “Valori” del 29/2/2024. (https://valori.it/von-der-leyen-armi-vaccini/ ).

3 Il regolamento prevedeva che gli stati dovessero approntare Piani nazionali di ripristino del buono stato di salute degli ecosistemi, compresi quelli agricoli (foreste, praterie, zone umide, fiumi e laghi) con l’obiettivo di risanare almeno il 30% delle aree degradate terrestre e marine entro il 2030; il 40% entro il 2040 e il 90% di queste entro il 2050. Ciò a fronte di una situazione europea attuale che, secondo recenti stime, indica che l’80% degli habitat naturali versano in cattive condizioni, il 10% delle specie di api e farfalle rischiano l’estinzione, il 70% dei suoli sono in condizioni insalubri. I principali obiettivi della NRL erano: incrementare gli spazi verdi urbani; recuperare la continuità naturale dei fiumi rimuovendo o adattando sbarramenti, dighe e barriere; invertire il declino delle popolazioni di insetti impollinatori; imporre una diversa gestione degli ecosistemi agricoli con caratteristiche paesaggistiche a elevata diversità (presenza di siepi, alberature, filari ecc.); riumidificare torbiere e zone bonificate, tenendo conto del loro ruolo chiave naturale nello stoccaggio di CO2; migliorare la biodiversità delle foreste e piantare almeno tre miliardi di alberi aggiuntivi entro il 2030. Sulla base di questo regolamento comunitario ogni stato membro dovrebbe poi monitorare i miglioramenti ottenuti attraverso indicatori che utilizzano idonee specie “sentinella” (farfalle, uccelli ecc.). Per contro, il compromesso raggiunto in febbraio nel Parlamento europeo ha cassato la riduzione del 50% dell’uso dei pesticidi, previsto inizialmente entro il 2030, ed ha inserito un “freno d’emergenza” secondo cui in «circostanze eccezionali» la Ue potrebbe sospendere l’efficacia del regolamento qualora vi sia una riduzione della superficie coltivata al punto di compromettere la produzione alimentare rispetto ai consumi interni.

4Le emissioni considerate nei trattati internazionali e prese a riferimento per gli obiettivi dell’Ue non comprendono le emissioni incorporate nei beni e servizi prodotti fuori dai confini della Ue ma qui importati e utilizzati. Queste rimangono quindi attribuite ai paesi esportatori. Questo è stato definito degli economisti ecologici e da molti ecologisti un odioso trucco contabile. In realtà ciò che è odioso non è che la statistica ufficiale, attenendosi ai propri principi, certifichi solo le misurazioni che ritiene sufficientemente trasparenti e accurate (cioè le emissioni generate direttamente nei processi di trasformazione fisico-chimica della materia, attribuite a chi controlla direttamente tali processi), bensì che la politica non abbia compiutamente adottato a fini di regolazione (anche) le stime delle emissioni indirette, che sono già in buona parte disponibili sulla base delle analisi del ciclo di vita e dei modelli di Analisi Input-Output estesa alle variabili ambientali. Queste stime potrebbero essere notevolmente migliorate se fosse dato alla statistica il necessario mandato e le fossero forniti i mezzi necessari. In un’ottica trasformativa, andrebbe creata l’infrastruttura informativa di base necessaria per fornire agli utilizzatori e alla politica conoscenze sufficienti per scelte consapevoli (ad esempio, una adeguata etichettatura e tracciatura dei prodotti in ogni fase della filiera). Ovviamente questo discorso può essere esteso a tutti i flussi materiali che attraversano il confine tra l’economia e l’ambiente naturale, dei quali le emissioni climalteranti rappresentano una parte (importante, ma solo una parte). Ma soprattutto non vanno dimenticate le esclusioni che i trattati internazionali e gli stessi obiettivi della Ue operano, quanto ad emissioni derivanti dall’uso del suolo e dai suoi cambiamenti nonché dalle operazioni belliche e più in generale, soprattutto a livello globale, dell’apparato militare (si vedano l’articolo di Armino nella monografia di questo volume e https://www.nature.com/articles/d41586-022-03444-7).

5Una conferma del carattere onnicomprensivo dell’opposizione dell’industria alle politiche ambientali ci viene dalla Dichiarazione di Anversa per un Patto Industriale Europeo (vedi il testo completo: https://antwerp-declaration.eu/ del 20 febbraio 2024) sottoscritta dalle principali aziende e associazioni imprenditoriali della chimica presso ila sede della BASF. Una vera dichiarazione di guerra al Green Deal con cui si chiede, tra l’altro, l’adozione di «misure per eliminare l’incoerenza normativa, gli obiettivi contrastanti, l’inutile complessità della legislazione e l’eccesso di relazioni [nonchè] azioni correttive su tutte le normative europee esistenti».

6 Sotto la pressione dell’invasione della Federazione russa in Ucraina l’Europa è di fatto entrata in guerra, impegnandosi sempre di più nella fornitura a Kiev di armi sempre più pesanti e gestite direttamente dalla Nato (come se l’Ucraina ne facesse già parte), aumentando i propri contingenti militari e preparandoli ad un intervento diretto nel conflitto, come auspicato dal presidente francese Macron. I governi e la quasi totalità delle forze politiche europee sono d’accordo nella necessità di aumentare la spesa militare “indicizzandola” sul Pil (dal 2 al 3% almeno), rafforzando gli apparati industriali di produzione di armi e munizioni, trovando forme di finanziamento comunitarie attraverso la Bei ed emettendo “bomb bond” sul modello di quanto è avvenuto per l’acquisto dei vaccini anti-covid, cioè sfondando i vincoli del debito. L’idea è che la costruzione dell’Europa, dopo la creazione della moneta unica, debba passare attraverso l’esercito unico o, quantomeno, una “integrazione della difesa”. Come ha affermato un ex presidente del Consiglio Europeo, il premier polacco Donald Tusk, «L’infanzia geopolitica» dell’Europa è finita. La sua adolescenza la vede in tuta mimetica e giubbotto antiproiettile. L’Europa è attratta dall’idea di giocare in proprio la carta della Grande potenza o, quantomeno, rafforzare il proprio peso nella Nato. Vanno in questa direzione le decisioni del Parlamento europeo (risoluzione del 28 febbraio per la «fornitura di armi continua, sostenuta e in costante aumento

di tutti i tipi di armi» all’Ucraina) e del Consiglio sul programma europeo di investimenti nella difesa e per il rilancio dell’industria bellica. Per ora i denari non sono molti (1,5 miliardi), ma i soldi sono l’ultimo problema. (Per altre informazioni e commenti sulla drammatica preparazione di un conflitto totale, vedi la Monografia in questa stessa rivista).

7 Il filosofo psicoanalista franco-argentino Miguel Benasayag ha voluto richiamare l’attenzione sulla pericolosità di certi atteggiamenti intellettuali fatalistici da “profeti dell’apocalisse”: «Il pessimismo è un lusso aristocratico e narcisista che i miei amici delle banlieue o delle comunità contadine sudamericane, giusto per fare un esempio, non possono permettersi». (Intervista di Annachiara Sacchi, Il pessimismo è un lusso che i poveri non possono permettersi, La Lettura, 24 marzo 2024, Corriere della Sera.

8Ovviamente, non vanno confuse le incerte, frammentate politiche del Green Deal europeo con il Green New Deal proposto a suo tempo dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez e dal senatore Ed Markey. Secondo Naomi Klein quel pacchetto di interventi ha le potenzialità per rappresentare una “cornice” atta ad unire i movimenti eco-sociali in una «visione olistica di trasformazione sociale ed economica». Vedi: https://www.dinamopress.it/news/le-linee-battaglia-sul-green-new-deal-ormai-segnate/ ; https://www.nybooks.com/online/2019/09/17/the-green-new-deal-a-fight-for-our-lives/.

9 Va detto anche che le politiche per la conservazione della natura e la salvezza delle generazioni future non avranno l’appeal necessario neppure se non dimostreranno, prefigurandola, la bellezza di nuovi modi di vivere il territorio (di vivere dalla, nella, con la natura e in quanto natura, secondo le categorie coniate dall’IPBES). Ma questo è abbastanza al di là dell’orizzonte delle politiche europee da poter essere considerato fuori tema qui.

10Intervista con Sven Biscop di Richard Wouters, L’Europa può difendersi senza crescita? https://www.egmontinstitute.be/app/uploads/2022/09/Sven-Biscop_PolicyBrief285_vFinal.pdf?type=pdf

11Nel suo ultimo lavoro apparso in Italia, Lavorare meno, lavorare diversamente o non lavorare affatto (Bollati Boringhieri, 2023), Serge Latouche scrive: «Le tre promesse della modernità avanzata – lavorare meno guadagnando sempre di più grazie alla società dell’abbondanza, lavorare tutti in modo sempre più piacevole grazie alla civiltà del divertimento e, in futuro, non lavorare affatto grazie alle nuove tecnologie – rimangono del tutto mistificatorie finché si resta in una economia capitalistica». Occorre quindi elaborare un «programma di transizione», un «percorso a tappe», con «compromessi transitori» per cambiare i contenuti, le modalità e le finalità del lavoro. Insomma, una sorta di transizione/superamento del lavoro attraverso una progressiva ibridazione tra logiche di mercato e del dono, dello scambio reciproco.

12Sono ormai molti e molto dettagliati i tentativi di formulare un elenco delle azioni possibili in linea con la decrescita. Il più completo è quello elaborato da Parrique “The political economy of degrowth”: Final list of degrowth policies (2019). La lista riunisce le agende fin qui elaborate. Il programma è strutturato in 19 temi, ognuno dei quali comprende obiettivi. In totale le proposte sono 232 su 60 obiettivi, 32 obiettivi e 140 strumenti. https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0959652617302202.

Un’altra elaborazione è Elenco delle politiche in Cosme et al. (2017). Le prime 10 politiche sono: 1. Reddito di base universale 2. Riduzione dell’orario lavorativo 3. Garanzie di lavoro e salario di sussistenza 4. Limite/Tetto del reddito 5. Forum deliberativi 6. Modelli no-profit 7. Limiti decrescenti all’utilizzo delle risorse e alle emissioni 8. Recupero dei beni comuni 9. Eco-villaggi 10. Cooperative di abitazione/housing.

13 Il testo della lettera è il risultato di un processo di collaborazione all’interno della rete internazionale della decrescita. È stato firmato da oltre 1.000 esperti e 66 organizzazioni di diversi paesi in occasione della conferenza sulla decrescita di Vienna 2020. (https://www.decrescitafelice.it/2020/05/lettera-aperta-del-movimento-internazionale-per-una-nuova-economia-degrowth-new-roots-for-the-economy-degrowth-info/).

14 Il giurista Michele Carducci nel saggio I diritti della natura e i suoi nemici, che segue in questo stesso Quaderno, ricorda come il principio in dubio pro natura va oltre il principio di precauzione europeo (che è posto pur sempre a tutela dei soli diritti umani) e prefigura «un obbligo di protezione unilaterale» connesso al «valore intrinseco degli elementi naturali».

15 Alberto Magnaghi e Ottavio Marzocca (a cura di), Ecoterritorialismo, Firenze University Press, 2023. In particolare, vedi il saggio di Magnaghi che preconizza «nuove pratiche federative multiscalari, dal locale al globale».


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