– Andrea Sceresini, 17.03.2022
Crisi ucraina
Da Donetsk a Torez, dove antifascismo è imperialismo sovietico. E la falce e
martello non è tanto in antitesi con i ritratti di Nicola II e le tesi dei suprematisti
Nel centro di Donetsk, su un piedistallo di marmo, sorge una grande statua di Lenin. Ci sono
anche tante bandiere rosse, a Donetsk, come quelle che si sono viste sventolare negli
scorsi giorni sui carrarmati in corsa verso ovest. Quando sono andato per la prima volta in
Donbass, nel 2014, speravo di poter raccontare una nuova guerra di Spagna. Mi ero lasciato
illudere da tutte quelle bandiere (anche se veder sventolare una bandiera rossa su un tank
invasore un po’ dovrebbe far riflettere), dagli slogan antifascisti e dal “No pasaran!” scritto
a caratteri cubitali sulla “Doma administratsiya” di Donetsk. Ma poi avevo visto anche altre
cose. C’erano le bandiere zariste, quelle putiniane, e c’erano le centinaia di volontari di
estrema destra che erano venuti a combattere sotto quelle insegne. Ho poi capito che
l’antifascismo, a Donetsk, è ben diverso dal nostro. L’antifascismo, per i russi, è l’Armata
patriottica di Stalin che respinge l’invasore tedesco (deriva da qui il concetto di
“denazificazione” utilizzato da Putin, che non significa la sconfitta del nazismo come
ideologia reazionaria, ma più genericamente la sconfitta dei nemici della Russia).
LA BANDIERA ROSSA
simboleggia il potere imperiale sovietico, che aveva barattato
l’uguaglianza col sogno di dominare il mondo. Perciò la falce e martello, a Donetsk, non era
poi così in antitesi con i ritratti di Nicola II e le tesi dei suprematisti russi – e accorgersene,
stando lì, non era per nulla difficile. Un giorno, dovendo trascorrere una mezza mattinata
con un leader locale del Partito comunista del Donbass – e parlando io poche parole di
russo e lui nessuna d’inglese – volli provare a fare un gioco. Gli elencai alcuni personaggi
storici, chiedendogli di farmi capire chi gli piacesse e chi no. I nomi di Stalin e dell’ultimo
zar furono accolti con un sonoro «karasciò». Più moderato fu l’entusiasmo per Mussolini –
che in fondo li aveva invasi ma era pur sempre un nazionalista – mentre Lenin fu salutato
con una mezza storta di naso. I più strapazzati furono Marx ed Engels, che il mio
interlocutore bollò con un lapidario aggettivo – «Pederàst, finocchi». Ma in fondo è l’ironia
delle parole, che una volta svuotate del concetto possono voler dire qualunque cosa. Così le
insegne bolsceviche – che nel 1917 simboleggiavano l’unione della classe operaia mondiale
contro la guerra – oggi vengono fatte sventolare da giovani coscritti che ammazzano altri
giovani coscritti in nome della patria e dei sacri confini. Nel 1956, quando i carri russi
entrarono a Budapest, Ignazio Silone si indignò contro chi parlava dell’intervento delle
«truppe sovietiche contro gli insorti ungheresi»: «Il rispetto della verità – scrisse –
esigerebbe che si dicesse “le truppe imperialiste russe contro i soviet dell’Ungheria”». Ora
è più o meno la stessa cosa, con l’unica differenza che non ci sono soviet né da una parte
né dall’altra.
Cosa nascondessero quelle belle bandiere rosse l’ho poi scoperto viaggiando nel Donbass.
Nella cittadina di Torez – così battezzata in onore di Maurice Thorez, già leader del Partito
comunista francese – migliaia di minatori sono rimasti disoccupati in seguito alla guerra.
Oggi molti di loro lavorano nelle Kopankas, vere e proprie miniere clandestine scavate a
costo zero e nelle quali si è costretti a strisciare pancia a terra, mentre il martello
pneumatico satura l’aria di polvere nera. Nel 2015 il salario era di settecento grivne a
settimana, pari a poco più di trenta euro. Si lavorava sei giorni su sette, in condizioni di
sfruttamento assoluto, e spesso si era pagati direttamente in sacchi di carbone. Il materiale
così faticosamente estratto veniva poi venduto ai “nemici” di Kiev, e chi controllava il
traffico – e ci guadagnava – erano il più delle volte gli stessi leader separatisti. È grazie a
business come questi che si è formata la nuova borghesia locale, la quale sfrutta e si
ingrassa esattamente come quella filo-ucraina che l’ha preceduta – ma semplicemente lo fa
sventolando un’altra bandiera.
QUANTO AI NEONAZIST
I veri – quelli che si definiscono tali – ne ho conosciuti su entrambi
i lati della barricata, e ricordo l’imbarazzo di due gruppuscoli di ultra-droitier francesi che un
giorno avevano scoperto di combattere gli uni contro gli altri e si erano telefonati per
cercare di capire il perché. Che c’azzecca l’antifascismo in tutto questo? Nulla,
evidentemente. È soltanto una parola, così come la statua di Lenin è soltanto una statua –
che se potesse riprendere vita si vergognerebbe di stare dove sta.
Andrea Sceresini è coautore, insieme a Lorenzo Giroffi, di «Ucraina, la guerra che non
c’era», appena uscito per Baldini e Castoldi.
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