Le ambiguità della transizione

Dal blog https://comune-info.net/

Gianluca Solera 21 Febbraio 2023

Non è mica un caso che sui giornali, ma quasi sempre anche nel linguaggio dei movimenti ambientalisti si utilizzi come sinonimo la transizione energetica e quella ecologica. Gianluca Solera porta l’esempio delle auto elettriche. Chi ha deciso che la soluzione in materia di de-carbonizzazione dei trasporti sia l’auto elettrica? Perché non si parla più di trasporti collettivi, di sistemi integrati di trasporto pubblico che riduca la necessità di usare un mezzo privato individuale? La risposta è semplice: l’industria deve creare un bisogno nuovo, che permette di produrre un bene di consumo nuovo, potenzialmente acquistabile in quantità infinite. Senza nulla togliere alla necessità immediata di farla finita con l’onnipotenza degli interessi del fossile, la discussione sulla transizione ecologica non può certo limitarsi all’utilizzo dei combustibili e nemmeno alle sole questioni energetiche. Andrebbe ripresa con ben altro respiro, quello di una sfida culturale e antropologica che investa il concetto di limite per l’Homo oeconomicus, perché l’economia capitalistica induce a nuovi consumi per espandere il mercato delle merci. La transizione ecologica è cura del territorio ma significa anche, per esempio, studiare e lavorare in modo profondamente diverso perché è il nostro modo di vivere che deve cambiare davvero, a cominciare da una nuova cultura politica nella relazione tra umanità e natura

Foto tratta dal Flcker di Roberto Ferrari

E mentre il Senato si occupava dei balneari, ovvero delle concessioni demaniali marittime ai privati, prorogandole senza applicare il principio comunitario della concorrenza, io attraversavo la pianura Padana da sud a nord, sulla A22.

Siamo a metà febbraio. A parte il fatto che i lidi in Italia godono di privilegi, e la concorrenza quando si tratta di gestire un bene demaniale dovrebbe essere d’obbligo, era un’altra la cosa che trovavo comica e tragica allo stesso tempo. La politica si occupa dell’estate, ed ecco che l’estate è già qui. In pianura Padana, a metà febbraio i canali erano quasi secchi, portavano poca acqua, e il Po era molto basso, al punto da esporre già vasti banchi sabbia a ghiaia.

E allora pensavo che una soluzione sarebbe potuta essere di dare le concessioni ai balneari sul Po; questi manterrebbero i loro privilegi, ma si libererebbero le coste che sono di demanio pubblico.

Direte: che proposta demenziale, che cretinata, vi sono cose più serie a cui pensare che lanciare delle provocazioni. Sarei propenso a darvi ragione, ma vorrei mantenere il diritto al dubbio. Noi ci troviamo infatti in un Paese, in cui la Natura è sempre stata considerata come bene di consumo privatistico o al massimo bellezza paesaggistica; non ha mai avuto un ruolo più importante di questo.

Le innovazioni in materia di conservazione della natura, di ambiente, di riduzione dell’inquinamento o dell’uso dei combustibili fossili si sono ottenute o  in seguito a delle battaglie o delle mobilitazioni popolari sul territorio, oppure per recepimento della legislazione dell’Unione europea. L’Italia non ha una cultura politica che ponga le relazioni tra Uomo e Natura al centro della riflessione e della pratica.

Il cambiamento climatico fa notizia sui giornali quando c’è un incendio boschivo o un’alluvione, ma non si studia nei gabinetti ministeriali; non parliamo del Parlamento, in cui il numero di eletti che possiedono consapevolezza scientifica e preoccupazione legislativa rispetto alle sfide che dobbiamo affrontare è ridotto quanto gli unicorni. Vi do un esempio.

Nel dicembre dell’anno scorso, sotto l’egida delle Nazioni Unite, si è tenuta a Montreal la Conferenza delle Parti sulla biodiversità (COP 15), che è altrettanto importante quanto quella sul clima. Meno nota della Conferenza delle Parti sul clima, la COP15 si concentra sul mondo vivente attraverso la Convenzione sulla diversità biologica.

Di fronte al rischio di un’estinzione di massa di piante ed animali che potrebbe prodursi nel giro di pochi anni, i rappresentanti di 190 Paesi presenti a questo evento hanno negoziato durante due settimane l’adozione di un trattato comune sulla conservazione della natura e l’uso sostenibile della diversità biologica.

L’entità della perdita di specie animali e vegetali degli ultimi decenni è la più grande dall’inizio della civiltà umana, avvicinandosi pericolosamente alla portata delle grandi estinzioni della fine dell’era glaciale. Un milione di specie sono oggi minacciate di estinzione, e alcuni scienziati parlano di prossima sesta estinzione di massa.

Ebbene, in Italia il dibattito su questo è stato inesistente, non solo nei consessi istituzionali, ma anche al di fuori. Siamo un Paese che crede di stare in una navetta spaziale, isolata dalla piattaforma continentale in cui si trova.

Si parla di territorio negli stessi termini con cui ci si esprimeva negli anni ’80. Vi do un altro esempio. Sul lago di Garda, gli amministratori locali del Veronese e del Trentino hanno appena rispolverato il progetto di un megatunnel stradale che porterebbe i turisti dalla Valdadige alla Riviera degli Olivi veronese, scavando sotto il Monte Baldo.

Sarebbe come prolungare l’autostrada che scende dal Brennero per vomitare migliaia di auto proprio sulle spiaggie del lago, perché – per chi conosce la zona – la montagna finisce nel lago. Vi risparmio le declamazioni sul progresso e lo sviluppo. Per chi conosce la zona, dicevo, il progetto è per stupidità e anacronismo pari all’idea del ponte sullo stretto di Messina. Allora, vi sfido sulla storiella dei balneari a dimostrarmi che la mia proposta di aprire dei lidi sul Po, ormai senz’acqua anche in pieno inverno, sia più demenziale degli investimenti infrastrutturali che molti politici agitano in pubblico.

Questa disconnessione della classe dirigente dalla grande questione della relazione tra Uomo e Natura è doppiamente deleteria perché inconsapevole dell’impatto sulla vita umana e le società di estinzione biologica e alterazione climatica: l’esistenza dell’umanità dipende dall’aria pulita, dal cibo e da un clima abitabile, tutti elementi regolati dal mondo naturale. Un pianeta sano è dunque un prerequisito per la resilienza delle nostre economie e la generazione di prodotto interno lordo.

Noi dipendiamo dal mondo naturale così profondamente che neppure gli scienziati riescono a misurare tutti gli impatti che possono derivare da estinzione biologica e alterazione climatica. In Francia, ad esempio, le ricerche sulla scomparsa massiccia delle farfalle, che sono insetti impollinatori, hanno fatto suonare il campanello d’allarme: dove non ci sono più insetti impollinatori, molte piante non si riproducono, e tutta la catena alimentare ne viene colpita.

Esiste una parola-chiave che prende sul serio la magnitudine degli sviluppi a cui assistiamo attorno a noi, ed è «transizione ecologica».  Molto spesso, tuttavia, si limita questa nozione alle questioni relative alla transizione energetica, ovvero alla sostituzione dei combustili fossili con altre forme di produzione di energia.

La transizione ecologica va vista innanzitutto come una sfida culturale, anzi antropologica, dove la comunità umana deve apprendere a ristabilire i meccanismi ecologici che garantiscono la continuità della vita biologica sul pianeta. Dico «antropologica» perché si tratta di acquisire la consapevolezza che noi umani siamo parte integrante del mondo naturale, ed i limiti fisici del pianeta sono i confini delle nostre ambizioni di consumo di materia ed energia. È difficile accettare il concetto di limite per l’Homo oeconomicus, perché l’economia capitalistica induce a nuovi consumi per espandere il mercato delle merci.

Pensiamo al dibattito sulle auto elettriche. Chi ha deciso che la soluzione in materia di de-carbonizzazione dei trasporti sia l’auto elettrica? Perché non si parla più di trasporti collettivi, di sistemi integrati di trasporto pubblico che riduca la necessità di usare un mezzo privato individuale ? La risposta è: l’industria deve creare un bisogno nuovo, che permette di produrre un bene di consumo nuovo, potenzialmente acquistabile in quantità infinite.

Questa logica di mercificazione dei bisogni sotto forma di consumi individuali non credo che porterà alla transizione ecologica, e neppure energetica, perché dovremo produrre energia per mantenere un parco macchine enorme. «Transizione ecologica» è dunque risocializzazione dei consumi, e la mobilità è il primo settore in cui sperimentarlo.

«Transizione ecologica», tuttavia, non è solo questo, è anche cura del territorio. Siamo molto lontani da questo, nessuno di noi si occupa della propria città, ad esempio, mentre dovremo fare proprio questo: «adottare » i nostri quartieri e trasformarli da cima a fondo, aprendo cantieri di sostenibilità attraverso il nostro impegno di abitanti attivi e consapevoli.

Dovremo piantare alberi e arbusti ovunque, anche sui tetti, installare pannelli solari in modo sistematico, organizzare forme di orticoltura urbana, creare le condizioni perché tornino i ricci e le api, recuperare manufatti edilizi dismessi attraverso progetti socialmente partecipati, rinaturalizzare suoli consumati e degradati, mettere a disposizione abitazioni chiuse o sottoutilizzate, aprire centri di scambio di servizi e beni tra cittadini, o recuperare saperi artigianali che abbiamo abbandonato durante la nostra corsa all’usa-e-getta.

È un cantiere immenso, un cantiere del corpo e della mente, quello in cui ci dovremo cimentare. E ancora, anche in questo, siamo lontani: basta analizzare i nostri propri stili di vita e consumo, e il volume di imballaggi che gettiamo in un cassonetto ogni settimana.

 «Transizione ecologica» significherà anche studiare e lavorare in modo diverso, integrando lo studio del pianeta e del mondo vivente nei curricula scolastici (nei licei italiani non si studia la geografia!), tenendo lezioni in ambienti aperti per imparare a riflettere osservando la Natura.

Significherà anche inventare nuovi lavori e nuove professioni che rispondano alla sfida del limite: fare le cose consumando meno energia e meno materie prime; sperimentare nuove tecnologie che si ispirino al funzionamento del mondo delle piante e degli animali; creare spazi di produzione di beni e servizi che stimolino la socialità e lo scambio. Significherà, in altre parole, non fare più come prima.

Ed infine, saremo chiamati a rivedere i codici in base ai quali selezioniamo le nostri classi dirigenti e il corpo degli amministratori. La «Transizione ecologica» dovrà divenire discriminante ed essere convertita in buona pratica innanzitutto proprio da questi ultimi, perché l’amministrazione pubblica dovrà dare l’esempio ai privati cittadini, a partire dalla riconversione dei propri immobili, uffici e servizi. E scuole di formazione su ecologia e società dovranno fare parte dell’armamentario di ogni partito politico. Insomma, non sarà più possibile parlare tanto di ecologia in pubblico e continuare a vivere, lavorare o legiferare come si è sempre fatto.

Ora capite perché abbiamo una grande responsabilità, che rappresenta tuttavia anche una grande opportunità di fare qualcosa di utile e necessario. E di cambiare noi stessi. Se così faremo, ci libereremo anche dei dinosauri che ancora sopravvivono tra dirigenti e politici in questo nostro Paese.

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