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Vincenzo Scalia 17 Maggio 2021
La form(ul)a delle mafie
Vincenzo Scalia 17 Maggio 2021 FacebookTwitterPinterestCondividi
La «mafia» non è un fenomeno monolitico né esiste una regia occulta centralizzata che ha indirizzato la storia della Repubblica. I rapporti tra mafie, politica e imprenditoria sono fluidi, con convergenze e conflittualità
Georg Simmel metteva in luce il contrasto tra la vita e la forma. Laddove la prima concerne i fenomeni sociali nella loro pienezza, fluidità e dinamica, la seconda si riferisce alla codificazione degli stessi, che può talvolta generare una loro cristallizazione. È il caso della scienza: nata per lo stupore dell’umanità verso i fenomeni naturali e in seguito trasformata in un sistema logico e in un corpus di conoscenze codificate. Conoscenze che possono cristalizzarsi in assenza di un criterio interpretativo in grado di coglierne gli aspetti dinamici.
Nel caso delle organizzazioni criminali, può valere lo stesso schema interpretativo proposto da Simmel. Dopo anni di confusione, o addirittura di incertezza in merito all’esistenza delle stesse, si è affermato prepotentemente il paradigma della scelta razionale proposto dallo studioso piemontese, attivo nel Regno Unito, Diego Gambetta, autore de La Mafia siciliana. Un’industria della protezione privata (Einaudi 1992). Il paradigma gambettiano ha come corollario l’applicazione della legalità ー ovvero legge e ordine ー per sconfiggere le organizzazioni criminali.
In altre parole, il suo paradigma interpretativo delle mafie si basa sull’assunto che esistano delle organizzazioni criminali, esterne alle forme condivise del vivere associato, che si formano attorno alla carenza normativa, relazionale e materiale di specifici contesti, come l’Italia Meridionale e la Sicilia. Una volta acquisite sufficienti risorse materiali e relazionali, le mafie si trasferiscono nelle aree immuni dal fenomeno mafioso minacciando di contagiare tali contesti. Per raggiungere il loro scopo, si alleano con centri occulti, nazionali o internazionali, di potere economico e politico. Di conseguenza vengono implementate norme speciali, come l’ergastolo ostativo e il 41 bis, per prevenire e reprimere il pericolo di contagio.
Oggi la modalità interpretativa proposta da Gambetta per la mafia siciliana viene applicata per analizzare la ‘ndrangheta calabrese e la camorra napoletana che hanno soppiantato Cosa Nostra nel dibattito pubblico. I media sono attori cruciali nella costruzione e rappresentazione dei fenomeni di criminalità organizzata. In questi anni abbiamo assistito a un’opinione pubblica sempre più attenta e preoccupata dalla criminalità organizzata campana e calabrese e pronta a riproporre i mantra del contagio, della legge e dell’ordine per farvi fronte, trovando sponda in un fronte composito di «imprenditori della legalità»: magistrati, esponenti della politica, giornalisti, attivisti, volontari, che fanno dell’esistenza delle mafie e del loro contrasto la loro ragione d’essere.
Ma che ne è stato di Cosa Nostra siciliana? Le mafie sono tutte uguali? In che relazione si pongono con la politica e l’imprenditoria? Michele Santoro, nel suo libro Nient’altro che la verità(Marsilio 2021), scritto con la collaborazione di Guido Ruotolo, scuote le forme consolidate di conoscenza e rappresentazione dei fenomeni mafiosi, in particolare di Cosa Nostra siciliana.
Per quanto il libro non accampi pretese scientifiche e denoti degli aspetti da approfondire, la sua uscita fornisce lo spunto per riprendere alcune riflessioni. Per rispondere alla domanda relativa alla situazione attuale di Cosa Nostra siciliana è necessario intendersi in merito alla sua configurazione, così da evitare generalizzazioni semplificatorie. Ogni organizzazione criminale sorge a partire da specifici contesti storico-sociali: le camorre campane si formano attorno alle attività illegali dei bassifondi napoletani o alla mediazione agricola; la ‘ndrnagheta calabrese sorge come forma di autodifesa territoriale mentre Cosa Nostra ha la peculiarità di formarsi all’interno del governo del latifondo.
La nobiltà assente affitta e subaffitta i feudi, avvalendosi legalmente della gabella ー informalmente la vigilanza del territorio e del governo della manodopera esercitato da milizie private, formate da ex-soldati, ex-poliziotti, ex-banditi. Insomma, Cosa Nostra si forma a cavallo tra legalità e illegalità, una posizione che, oltre al controllo del territorio, le garantisce da sempre canali privilegiati col mondo politico e imprenditoriale. Non è casuale che Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, nella loro inchiesta sulla Sicilia, definissero i mafiosi come «i facinorosi della classe media».
Quindi, contrariamente a quanto si potrebbe essere portati a pensare dal paradigma gambettiano, le origini di Cosa Nostra non affondano nella carenza bensì nell’abbondanza. La mafia siciliana si connota come struttura di governo della modernizzazione capitalista dell’Isola, contenendo i costi del lavoro e gestendo la commercializzazione e la produzione dei prodotti, a mezzo di intimidazione e con il consenso della classe dirigente locale. È proprio la loro presenza nella stanza dei bottoni della società siciliana a consentirgli di aiutare gli Alleati nello sbarco, acquisendo rendite di posizione che, fino alla fine degli anni Ottanta, la renderanno una delle principali organizzazioni nella produzione e nel traffico di stupefacenti su scala internazionale offrendo in cambio il contenimento dei movimenti sociali e il controllo dei flussi elettorali in Sicilia.
La caduta del muro di Berlino ridimensiona l’importanza politica di Cosa Nostra in senso anti-comunista e l’apertura delle frontiere orientali favorisce altre organizzazioni nei traffici illegali. Negli stessi anni Cosa Nostra sconta il pentitismo, i movimenti sociali antimafia e la repressione statuale. Ma com’è possibile che un’organizzazione che dispone di un tale patrimonio materiale e relazionale sia ridotta ai margini, soggetta a costanti blitz e pentimenti?
Anche in questo caso il libro di Santoro potrebbe fornire degli spunti di riflessione validi. È riscontrabile, per esempio, una differenza organizzativa cruciale tra la mafia palermitana e quella catanese, questi ultimi più proclivi ad arruolare tra le loro schiere membri della delinquenza comune. Un’altra differenza da esplorare potrebbe essere quella legata al fatto che la mafia palermitana, nel contado suburbano della ex-Conca d’Oro, disponesse di maggiori effettivi in seguito alla prevalenza del latifondo nella Sicilia occidentale.
Oppure, un’altra ancora legata al fatto che Palermo, in quanto terminale politico di tutta l’Isola, disponesse di gruppi mafiosi più attenti al reclutamento di effettivi preposti a obiettivi maggiormente qualificati di quelli dell’economia illegale. In ogni caso, quando si parla di «mafia» non si parla di un fenomeno monolitico, né ci troviamo in presenza di una sorta di Spectre locale, alla quale, dal ladro di strada al sovversivo, tutti afferirebbero, come avrebbe voluto il prefetto umbro Filippo Gualterio, al quale dobbiamo l’uso odierno del termine «mafia».
Le differenze spaziali interne alla mafia siciliana potrebbero fungere da discrimine per il posizionamento politico di Cosa Nostra, coi Corleonesi orientati verso lo stragismo e i Santapaola e soci più inclini all’accomodamento. Ma non sono soltanto le peculiarità spaziali a interessare, quanto le differenze di interessi e di obiettivi tra i diversi gruppi, da cui conseguono anche diversi tipi di risposte da parte degli organismi statali. Ad esempio, durante il Maxiprocesso del 1986, Luciano Liggio racconta di aver salvato l’Italia dal golpe Borghese del 1970 malgrado Buscetta, insieme a Salvatore Greco, avessero spinto, per conto degli Usa, affinché Cosa Nostra partecipasse.
Una vicenda confermata dallo stesso Buscetta e poco approfondita, malgrado sollevasse spunti diversi. Per esempio, il primo Maxiprocesso contro la mafia siciliana si svolge proprio a ridosso della guerra di mafia che vede spodestati i gruppi con maggiori rapporti col mondo della politica e dell’imprenditoria, mentre il rapporto tra i Corleonesi e gli esponenti politici è sempre stato sofferto. Non a caso Totò Riina, nel 1987, diede ordine di votare per il Psi, non per alleanze organiche, costruite e coltivate, ma perché i Corleonesi vedevano favorevolmente la posizione dei socialisti rispetto alla magistratura.
Ne viene fuori una diversa configurazione dei rapporti tra mafia e politica: laddove non esiste un rapporto organico né una direzione centralizzata all’interno degli stessi schieramenti mafiosi, esistono piuttosto coesistenze e convergenze che possono talvolta degenerare in conflitto qualora una parte sconfina nel campo dell’altra. Di conseguenza, lo zelo con cui i governi nazionali dagli anni Ottanta in poi perseguono la mafia siciliana ー della cui esistenza nutrivano dubbi fino a pochi anni prima ー può essere legata a una serie di ragioni. Una fra tutte, la necessità di un’«emergenza» di cui i governi italiani, storicamente, si alimentano per legittimare il loro operato; in quel momento, con l’omicidio Dalla Chiesa, la criminalità organizzata si era proposta come nuova emergenza, in seguito alla chiara sconfitta del terrorismo dopo il caso Dozier. Un’altra ragione potrebbe essere la necessità di fornire una risposta al panico morale che i cosiddetti delitti eccellenti avevano suscitato allo scopo di scongiurare la perdita di legittimazione nei confronti della classe politica.
Non a caso è proprio il ministro socialista Claudio Martelli a chiamare Giovanni Falcone a Roma alla Direzione degli Affari Penali, sotto il governo di Giulio Andreotti. Se entrambi gli esponenti politici fossero stati organici a Cosa Nostra un’operazione del genere sarebbe stata difficile, se non impossibile. Come non sarebbe stato possibile approvare, alcuni anni prima, la legge Rognoni-La Torre sui beni dei mafiosi o l’articolo 416 bis che introduce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
La fluidità delle relazioni intra-mafiose e tra mafia, politica e imprenditoria rende possibile un’altra ipotesi che merita di essere verificata. Per esempio, è noto che Buscetta sia stato espulso dagli Usa nel 1963 e si sia stabilito, previo accordo con l’Fbi, in Brasile. In seguito Buscetta è diventato collaboratore di giustizia in Italia e negli Usa, fino a ottenere la cittadinanza americana. Alla luce dell’appartenenza del «boss dei due mondi» allo schieramento perdente della collocazione di Cosa Nostra nel fronte anti-comunista durante la guerra fredda, dei rapporti ondivaghi tra i Corleonesi e il mondo politico che alternavano al contatto con Vito Ciancimino (Dc) l’appoggio ai socialisti del 1987, ci sarebbero alcune riflessioni da fare.
Ad esempio, bisognerebbe riflettere sull’eventualità che il Maxiprocesso e il pentimento di Buscetta mirassero a ristabilire alcuni equilibri di potere nazionali e internazionali che i Corleonesi, nel loro tentativo di dominare le altre famiglie mafiose, potrebbero avere toccato. Una riflessione che sicuramente meriterebbe indagini più accurate, ma che potrebbe condurre a riesaminare altri aspetti della storia italiana recente, come «la trattativa». Se è vero che Cosa Nostra controlla il territorio, è possibile che l’eliminazione di Falcone e Borsellino sia stata decisa, come asserisce Avola nel libro di Santoro, con lo scopo di eliminare i due magistrati perché ne intralciavano i piani.
Inoltre, rispetto alla cosiddetta «trattativa», su cui da anni fiorisce una pubblicistica di genere, bisognerebbe ridimensionare la portata complottistica: a tentare il negoziato sono alcuni funzionari statali, e non è detto che Cosa Nostra sia stata favorevole. Se è vero che le relazioni tra i diversi attori politici ed economici del mondo legale e illegale sono fluide e intercambiabili, la deduzione implicita portata avanti dai fautori della rilevanza della trattativa, ovvero che si sia conclusa con l’ingresso di Berlusconi in politica, finirebbe per dimostrare tutta la sua fallacità. D’altronde, come dicono i mafiosi, ‘u paisi è d’u paisanu, ovvero vale il principio della territorialità.
Per cui Berlusconi a Catania subì un attentato alle sue attività e fu costretto a pagare il pizzo. Qui ci viene in aiuto ancora una volta Avola, quando dice che è Cosa Nostra a scivolare verso Forza Italia, vedendo una convergenza di interessi col neonato partito. Convergenza che pochi anni dopo si dimostrerà infondata, dato il rifiuto dei governi di centrodestra di abolire il 41 bis, provocando, nel 2003, l’esposizione di uno striscione in merito allo stadio di Palermo.
In altri termini, non esiste una regia occulta centralizzata che governa l’Italia e si rende responsabile degli episodi peggiori della storia italiana contemporanea. Non esiste nemmeno una distinzione così netta tra sfere legali e illegali, col pericolo del contagio da scongiurare a mezzo di legge e ordine. Esistono, piuttosto, individui e gruppi di potere strutturati, dotati di risorse materiali e relazionali cospicue, che operano nello stesso contesto e di volta in volta marciano accanto o entrano in rotta di collisione secondo le convenienze del momento.
In merito alla situazione attuale di Cosa Nostra, le notizie che giungono riguardano continui blitz delle forze dell’ordine nei confronti di esponenti che controllano le attività illegali. Non può non suscitare qualche perplessità il fatto che un’organizzazione dotata di un ragguardevole capitale materiale e simbolico si sia ridotta a perseguire attività criminali di strada e a esporsi alla continua repressione. Non dimentichiamo che le attività illegali hanno sempre costituito una parte delle attività di Cosa Nostra, che per esempio prese parte al Sacco di Palermo tramite il piano regolatore che venne redatto a misura dei suoi interessi.
Non dimentichiamo che la Sicilia riveste tuttora un’importanza geostrategica nel Mediterraneo con il cosiddetto Palermo Hub che smista il monitoraggio delle comunicazioni nel Medio Oriente da parte della Nato e con il Muos di Niscemi che rappresenta per la stessa alleanza uno snodo cruciale delle comunicazioni satellitari. Se è vero che le organizzazioni criminali fanno del controllo del territorio un loro punto di forza potrebbe essere che Cosa Nostra sia impegnata in attività politico-militari di altro tipo che rendono secondari altri traffici. Bisognerebbe forse studiare in questa direzione.
*Vincenzo Scalia è Reader in Criminology presso la University of Winchester (UK). Si occupa di carceri, polizia, criminalità organizzata, minori. Ha insegnato in Italia, UK, America Latina. Suoi lavori sono tradotti in 4 lingue.