Dove va la Francia?

Dal blog https://www.sinistrainrete.info

In particolare, Christian Jacob, leader dei repubblicani, ha immediatamente fatto sapere

di esser del tutto indisponibile ad un accordo di coalizione. Sindacalista agricolo,

conservatore del tutto alieno dal modernismo liberale, ha ereditato lo storico partito che

assieme ai socialisti ha dominato la scena politica francese pre-macronista. I socialisti

sono scomparsi assorbiti dal fenomeno Macron, i repubblicani hanno retto botta nel 2017,

oggi molto meno. T

uttavia, il risultato elettorale dona ora loro una posizione decisiva, una

concreta possibilità di pesare politicamente al di là del peso elettorale in quanto tale. Ma

ci sono parecchie ragioni per spingere Jacob a farla dif

ficile. La prima è la scarsa

compatibilità tra ideologia conservatrice e ideologia progressista-liberale. La seconda è

un insieme di profonde dif

ferenze pratiche tra cui i temi “civili” ma anche la politica estera.

Jacob, in passato, chiese di togliere le sanzioni UE alla Russia per l’af

faire Crimea e

storicamente i gollisti-chiracchiani, sono assai poco atlantisti e, nei fatti, molto propensi a

bilanciarsi geopoliticamente ed economicamente coi russi. La terza ragione è che per

logica della dinamica politica, anche se il risultato di ieri è stato negativo, in prospettiva,

l’emorragia del partito di Macron, almeno una sua parte, potrebbe rifluire più facilmente

proprio verso i repubblicani e senza dubbio, la posizione di centro-destra è a questo

punto la migliore opzione centrista per rispondere all’impetuosa crescita tanto della

sinistra che della destra. Di contro, far da stampella a Macron, sarebbe un suicidio di

posizionamento politico, anche per via della sproporzione di forze (245 deputati a 61).

Infine, tra un sindacalista agricolo di provincia ed un banchiere parigino, non si vedono

molte compatibilità cultural-caratteriali.

Tuttavia, essendo la politica l’arte del possibile, una gestione articolata del compromesso,

potrebbe risolvere il problema di un eventuale accordo tra liberali e conservatori nel nome

del bene superiore o almeno della resistenza contro la doppia onda da sinistra e destra.

Qui però gioca a sfavore la natura politica di Macron. Macron è un egotista-populista. Al

di là del contenuto delle varie forme di populismo, questa forma altro non è che una

relazione privilegiata tra una certa, maggioritaria o quasi (il significato di “maggioranza”

nei sistemi uninominali, a doppio turno, ciechi all’astensionismo è molto relativo), fetta di

popolo inteso in maniera indistinta ed un leader che a quel popolo risponde senza

intermediari. Una semplificazione della tradizione politica occidentale, tratta da sistemi

geostorici e politici di tutt’altra tradizione, cooptata nell’ideologia neoliberale come

appunto semplificazione del pluralismo politico ritenuto poco decisionista e troppo

“democratico”. Per motivi a me incomprensibili, è stata anche coccolata da certe aree

critiche non conformiste probabilmente digiune delle minime comprensioni di teoria

politica. La forma è stata poi variamente aggettivata e criticata o esaltata secondo

convenienza ideologica ma di per sé è un ordine tanti-Uno che è stato applicato tanto

nella c.d. autocrazie che in alcune c.d. democrazie liberali. L

’attitudine “verticale” al

potere di Macron, come da più analisti politici definito, rinforza tale assetto e quando il

leader è costretto a venire a patti, recuperare l’arte del compromesso, del dare-avere, del

condividere ed assorbire le contraddizioni ideologiche che scaturiscono dal dover fare

cose assieme con chi non è simile, fallisce. T

ant’è che nei primi pronunciamenti seguiti il

voto, l’area Macron ha fatto sapere di puntare ad un governo di minoranza che cercherà

voti volta per volta. Un marasma ingestibile date le premesse. Macron potrebbe anche

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esser tentato a gestire la cosa facendola apparire talmente negativa da poi richiamare

alle urne il Paese per ottenere un mandato più forte, ma è una strada molto impervia e di

più rischiosa.

E veniamo così al terzo problema generato dal voto francese, il rapporto col contesto. Il

contesto è altamente negativo. Nella recente indagine di opinione commissionata dal

ECFR che verteva sulla guerra in Ucraina qui postata giorni fa, nel caso francese

(italiano, spagnolo e tedesco) la maggioranza dei rispondenti pensava che il proprio

governo fosse troppo sbilanciato in attenzione verso il conflitto a scapito dei tanti problemi

di gestione sociale ed economica interna. La ricerca era di inizio maggio. Quel risultato

oggi sarebbe anche più pronunciato e non ci vuole un paragnosta per prevedere che

viepiù lo sarà nei mesi prossimi. Le cose, qui in Europa, tenderanno a farsi viepiù dif

ficili,

complicate, contradditorie e livelli che non abbiamo mai provato almeno negli ultimi

settanta anni.

Acque molto agitate quindi, posizioni fino ad oggi espresse con estrema leggerezza

idealista molto poco bilanciata da sano realismo consapevole, eterodirezioni

dall’anglosfera a cui le élite europee hanno reagito poco, male e tardi. Un leader incline al

culto di sé stesso con scarsa attitudine al “sangue e merda” dell’arte politica viepiù

sanguinosa e puzzolente in tempi molto dif

ficili. Competitori eccitati dal suo apparente e

per ora parziale declino. Una Europa già frazionata come storicamente è sempre stata,

oggi di più ed ancora di più domani dove ognuno dovrà badare alle proprie contraddizioni

interne.

Tra cui l’Italia in cui cova una ulteriore rottura di simmetria politica per un Paese a

crescente inflazione, riduzione economica, debito pesante, energia mancante, inflazione

migratoria, saggezza politica latitante, mesi e mesi di insulso vociare in libera uscita su

problemi internazionali gravi e di estrema complessità in cui si è sistematicamente deciso

di fare l’esatto contrario di quella che risultava l’opinione maggioritaria.

Meno male che a giorni daremo alla mirabile democrazia ucraina l’opportunità di unirsi al

gruppo europeo, non subito, dopo una quindicina di anni di riforme per farlo diventare uno

“stato di diritto”. Come si possa esser una democrazia senza essere uno stato di diritto

sfugge, ma di questi tempi, si sarà capito, le cose che sfuggono sono parecchie.

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