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Ben Wray 9 Febbraio 2023
Solo una manciata di paesi può produrre i microchip più avanzati. E il controllo sulla loro fornitura sta diventando un campo di battaglia chiave nel duello commerciale tra Usa e Cina
Se le risorse energetiche sono il cuore del capitalismo globale, pompando carburante nel suo corpo per mantenerlo in accumulo, il suo cervello è costituito da trilioni di semiconduttori. Automobili, bombe, telefoni, frigoriferi, persino sistemi energetici: oggi si affidano tutti alla potenza di elaborazione dei chip dei computer. Senza i semiconduttori nell’era dell’informazione, il capitalismo sarebbe cerebralmente morto.
È più critico per il capitale e i suoi vari stati-nazione garantire un approvvigionamento sufficiente di risorse energetiche o di semiconduttori? Nel suo nuovo libro Chip War: The Fight for the World’s Most Critical Technology (Scribner, New York, 2022), Chris Miller cita un esempio convincente:
A differenza del petrolio, che può essere acquistato da molti paesi, la nostra produzione di potenza di calcolo dipende fondamentalmente da una serie di punti di strozzatura: strumenti, prodotti chimici e software che sono spesso prodotti da una manciata di aziende, talvolta solo da una. Nessun altro aspetto dell’economia è così dipendente da così poche aziende.
I chip, quindi, sono essenziali e difficili da produrre. Questa combinazione li rende centrali nel pensiero strategico di tutti gli stati-nazione, e soprattutto in quello degli Stati uniti. Washington può sostenere il suo potere imperiale solo dominando la produzione globale di semiconduttori e la complessa catena di approvvigionamento da cui tale produzione dipende.
Chip War è una storia dell’industria dei semiconduttori dalle origini ai giorni nostri. È un libro sulla tecnologia che contribuisce alla nostra comprensione delle dinamiche dell’imperialismo e dell’economia politica globale, anche se lo stesso Miller non la penserebbe in questi termini.
L’ascesa dei chip
L’ascesa del semiconduttore è stata tutta una questione di miniaturizzazione. Mettendo sempre più transistor su un pezzo di silicio delle stesse dimensioni, la potenza di elaborazione del computer si espande continuamente.
Tra le prime aziende a produrre chip commerciali c’era la Fairchild Semiconductor, diffusamente considerata tra i fondatori della Silicon Valley. Il primo chip venduto da Fairchild nel 1960 aveva quattro transistor. Oggi, un chip nell’iPhone 14 di Apple conta quindici miliardi di transistor.
I continui incrementi di produttività nei semiconduttori vengono identificati con la legge di Moore, da Gordon Moore, uno dei fondatori di Fairchild. Moore scrisse un saggio nel 1965 prevedendo che il numero di componenti che potevano stare su un chip sarebbe raddoppiato ogni anno per i successivi dieci anni (lo ha rivisto nel 1975 raddoppiandolo ogni due anni). Sebbene la fine della legge di Moore sia stata a lungo prevista, è ancora in gran parte efficace.
La situazione degli Stati uniti è stata fondamentale per il decollo dell’industria dei chip. Nella prima metà del decennio di commercializzazione dei chip, circa il 95% di quelli di Fairchild furono acquistati dalla Nasa o dall’esercito Usa. Il mercato civile avrebbe presto fatto impallidire il settore pubblico come acquirente di chip, ma il capitale statunitense dei semiconduttori e lo stato sono rimasti strettamente collegati fino ai giorni nostri.
La relazione è definita da fattori push-and-pull che dipendono dall’equilibrio delle forze in un dato momento. Negli anni Ottanta, gli amministratori delegati dei semiconduttori trascorrevano metà del loro tempo a Washington mentre cercavano l’aiuto dello stato per contrastare il crescente dominio del Giappone nel settore. Negli anni Novanta e 2000, quando la minaccia di aziende come Sony e Nikon si era placata e gli Stati uniti erano tornati leader, i manager del settore dei chip hanno cercato di tenere il naso di Washington fuori dal «libero mercato».
L’ascesa dell’industria dei semiconduttori è stata la chiave dell’egemonia statunitense sia direttamente che indirettamente. Alla fine degli anni Settanta, c’era un autentico timore nel Dipartimento della difesa che gli Stati uniti stessero rimanendo militarmente indietro rispetto all’Unione sovietica. Sotto la guida di William Perry, il Dipartimento della difesa passò a una strategia militare fortemente dipendente dai semiconduttori, nota come Strategia Offset.
Perry voleva che le bombe degli Stati uniti fossero le più accurate, piuttosto che le più grandi per dimensioni o quantità. Su quel terreno, l’Unione sovietica – che non si è mai avvicinata a raggiungere gli Stati uniti in termini di potenza di calcolo – non poteva competere. La Prima guerra del Golfo nel 1991 ha poi permesso agli Stati uniti di dimostrare l’efficacia della Strategia Offset in combattimento: missili guidati da semiconduttori hanno colpito i loro obiettivi a Baghdad con infallibile precisione, dimostrando al mondo la superiorità militare di Washington.
Altrettanto importante per l’imperialismo Usa è stata la decisione delle sue emergenti aziende di semiconduttori di produrre all’estero. Texas Instruments, uno dei pionieri dei semiconduttori insieme a Fairchild, fondò uno stabilimento a Taiwan già nel 1969. Negli anni Ottanta, come scrive Miller, «una mappa delle strutture americane di assemblaggio di semiconduttori assomigliava molto a una mappa delle basi militari americane in tutta l’Asia». Gli Stati uniti avrebbero potuto perdere la guerra in Vietnam, ma l’offshoring della produzione elettronica, in particolare dei semiconduttori, ha assicurato che il capitalismo americano vincesse la pace.
Globalizzazione o monopolizzazione?
Mentre l’offshoring si è rivelato una strategia di gestione del lavoro di grande successo per il capitale americano dei semiconduttori, ha anche gettato le basi dell’ascesa economica dell’Asia. A metà degli anni Ottanta, temendo il crescente potere della Cina, il governo taiwanese si rese conto di poter garantire la sua continua importanza per gli Stati uniti rendendosi essenziale per le catene di fornitura globali di semiconduttori.
Riuscì a indurre Morris Chang, che era stato sottovalutato come amministratore delegato di Texas Instruments, a fondare una società a Taiwan che avrebbe avuto il pieno sostegno dello stato. Era in teoria un affare privato, ma in pratica un’impresa pubblica.
La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc) di Chang si basava su un nuovo modello di business. Piuttosto che progettare e produrre chip, Tsmc si offriva di costruire i chip delle aziende di semiconduttori in tutto il mondo. La fabbricazione di chip in outsourcing era sempre più allettante a causa degli enormi costi di capitale coinvolti nella produzione di chip, per non parlare del livello di abilità richiesto.
Il modello di sola fabbricazione di Tsmc si è rivelato più efficace di quanto il governo di Taiwan avrebbe mai potuto sognare. Tsmc è ora responsabile di circa il 55% di tutti i chip prodotti in tutto il mondo e di oltre il 90% dei chip più avanzati. I suoi clienti includono Apple e il Dipartimento della difesa americano. Tsmc è riuscita nell’ambizione del governo di rendere lo stato insulare indispensabile per le catene di fornitura di chip.
Samsung ha un modello di business diverso, ma ha goduto di un sostegno simile da parte dello stato sudcoreano per passare da un sito di manodopera a basso costo per la produzione di chip americana a un produttore di chip essenziale a pieno titolo. Poiché il costo di produzione dei chip ha continuato a salire vertiginosamente, la concentrazione e la centralizzazione della produzione di chip ha raggiunto un punto in cui solo tre aziende in tutto il mondo – Tsmc, Samsung e Intel con sede nella Silicon Valley (un successore di Fairchild) – possono produrre i chip «logici» più avanzati. E comunque, ci sono crescenti dubbi sul fatto che Intel stia tenendo il passo con i suoi due rivali dell’Asia orientale.
Se i chip logici sembrano muoversi verso un duopolio, la produzione di macchine per la litografia ultravioletta estrema (Euv) ha già raggiunto lo stato di pieno monopolio. La litografia Euv disegna le forme sul silicio che consentono di scolpire miliardi di transistor in ciascun chip. Con il progredire della legge di Moore, la produzione di linee sempre più minuscole (attualmente fino a cinque nanometri) è diventata incredibilmente complessa. La litografia Euv è così costosa ed elaborata che solo un’azienda può farlo: Advanced Semiconductor Materials Lithography (Asml) nei Paesi bassi.
Le macchine di Asml costano decine di miliardi per la produzione e vengono vendute a più di 100 milioni di dollari ciascuna. Si affidano a centinaia di migliaia di componenti di centinaia di aziende in tutto il mondo. In un certo senso, la litografia Euv è una meraviglia della globalizzazione. Come dice Miller: «Uno strumento con centinaia di migliaia di parti ha molti padri».
Tuttavia, tutti questi componenti remoti precipitano su una sola azienda: un’ovvia vulnerabilità nella produzione globale di chip. Come scrive anche Miller: «La produzione di Euv non è stata globalizzata, è stata monopolizzata».
«Interdipendenza armata»
Man mano che il potere economico dell’Asia cresceva sulla scia della produzione elettronica offshore, un paese in particolare è emerso come attore dominante del continente. Come la Corea del Sud e Taiwan, la Cina è nata come fonte di manodopera a basso costo per la grande tecnologia occidentale e da lì si è evoluta in una potenza tecnologica, abbastanza grande da rappresentare una grave minaccia per l’egemonia statunitense.
Tuttavia, a differenza dei suoi vicini dell’Asia orientale, la Cina non è riuscita a costruire un’industria dei semiconduttori che l’avvicini all’autosufficienza. I semiconduttori sono un potenziale tallone d’Achille per lo stato cinese. Il presidente Xi Jinping è intenzionato a risolverlo, ma gli Stati uniti sono ugualmente determinati a ostacolare il potere dei chip della Cina. Nella guerra commerciale Usa-Cina, i semiconduttori sono un campo di battaglia vitale.
Gli Stati uniti hanno il sopravvento in quasi tutte le sfere della guerra dei chip. Sebbene gran parte della catena di fornitura dei semiconduttori si trovi ora al di fuori degli Stati uniti, si possono trovare in paesi – Taiwan, Paesi Bassi, Corea del Sud e Giappone – che sono alleati di Washington. Gli stessi Stati uniti detengono ancora il monopolio di alcuni strumenti software e di produzione essenziali. La Cina produce il 15% dei chip globali e quel numero sta aumentando rapidamente man mano che lo stato investe, ma sono quasi tutti chip a bassa tecnologia.
La Cina ha leve che può tirare nella guerra dei chip. La maggior parte delle più grandi aziende tecnologiche statunitensi ha importanti catene di approvvigionamento in Cina. Ma si trovano principalmente all’estremità inferiore della catena del valore, e se servisse queste aziende potrebbero spostare la produzione in paesi come il Vietnam, l’Indonesia e la Malesia, dove la manodopera in alcuni casi è anche più economica.
La vera leva che la Cina possiede deriva dal suo enorme mercato di consumo, su cui la grande tecnologia americana fa affidamento per i suoi ricavi. In effetti, il mercato cinese è così allettante che due aziende Usa di semiconduttori (Ibm e Amd) sono state disposte persino a scambiare tecnologia in cambio dell’accesso al mercato.
Tuttavia, quegli accordi sono stati conclusi prima che gli Stati uniti iniziassero davvero a provocare la Cina. Nel maggio 2020, gli Stati uniti hanno vietato a qualsiasi azienda che utilizzasse prodotti statunitensi per la produzione di chip (praticamente ogni produttore di chip) di fare affari con Huawei, il gioiello della tecnologia cinese.
Miller, che scrive dal punto di vista della difesa dell’«interesse nazionale» statunitense, è abbastanza onesto da accettare che l’offensiva contro Huawei abbia poco a che fare con la sicurezza informatica, come sostiene il governo degli Stati uniti. Si tratta di impedire alla Cina di dominare le principali tecnologie emergenti, come il 5G.
In questo sforzo, gli Stati uniti hanno avuto un enorme successo nel limitare una delle aziende tecnologiche più importanti del mondo, con metodi che includono il costringere gli alleati a seguire i suoi diktat. L’impatto di questa offensiva è chiaro: Huawei ha dovuto cedere parte della sua attività di smartphone e server, mentre il lancio del 5G è stato ritardato a causa della carenza di chip.
Oltre al divieto dei chip Huawei – con gli Stati uniti che hanno recentemente stretto la vite – Washington è riuscita a convincere Asml, una società con ampi legami americani, a non vendere le sue ultime macchine Euv alla Cina. Diverse altre aziende tecnologiche cinesi sono state inserite nella lista nera. Nell’ottobre 2022, l’amministrazione Biden ha imposto nuovi controlli stringenti sulle esportazioni che impediscono a qualsiasi «persona statunitense» – individui o imprese – di fornire supporto diretto o indiretto alla produzione di chip cinese.
La risposta della Cina a tutto questo è stata quasi inesistente, al di là di dichiarazioni e appelli all’Organizzazione mondiale del commercio. Miller, scrivendo prima degli ultimi controlli sulle esportazioni di Biden, sostiene che lo squilibrio tra l’azione degli Stati uniti e la reazione cinese mostra che lo zio Sam ha un «predominio dell’escalation» nella guerra dei chip.
Emerge un quadro di «interdipendenza armata», come afferma Miller, citando il titolo di un libro del 2021 degli scienziati politici Henry Farrell e Abraham Newman. L’interdipendenza armata significa che più i paesi sono legati tra loro, più possibilità di conflitto ci sono. Questo è l’esatto contrario di ciò che gli intellettuali sostenitori della globalizzazione ci hanno detto che sarebbe accaduto per decenni. Senza soffermarsi a esplorare il fallimento della loro previsione, molti di quegli stessi intellettuali si sono ora convertiti senza problemi a celebrare le sanzioni cinesi di Biden.
Aspettando il terremoto
Non ci vuole molto perché l’interdipendenza armata si trasformi in guerra. In qualsiasi scenario di guerra, il controllo di Taiwan e il mantenimento dell’operatività di Tsmc sarebbero un obiettivo chiave per entrambe le parti. Nel capitolo finale, Miller elabora vari scenari, tutti con conclusioni molto incerte. Ma una cosa è chiara: se la produzione di chip a Taiwan venisse interrotta per un certo periodo di tempo, l’impatto economico sarebbe paragonabile ai lockdown della pandemia globale. Tale è la centralità dei chip di Tsmc per l’economia mondiale.
Potrebbe non essere nemmeno necessaria una guerra per eliminare Tsmc. Le sue fabbriche di Hsinchu Science Park si trovano in cima a una faglia che ha prodotto un terremoto di magnitudo 7,3 della scala Richter fino al 1999. Il crollo del capitalismo globale è vicino quanto un grande terremoto taiwanese, o un grande errore di calcolo geopolitico.
Chip War ha una forte propensione per gli Stati uniti. Tuttavia, fornisce molti elementi per dimostrare che mentre gli Stati uniti potrebbero non godere ancora della supremazia tecnologica che avevano nel momento unipolare, rimangono l’attore dominante, controllando direttamente o indirettamente nodi chiave nella produzione globale di semiconduttori. La capacità tecnologica della Cina potrebbe crescere in modo incredibilmente rapido, ma gli Stati uniti hanno già dimostrato di poter implementare efficacemente sanzioni per indebolire il potere tecnologico cinese.
C’è ancora spazio per un’escalation in quei giochi di potere se Washington percepisce che la sua egemonia sta scivolando via. Quelli di noi che credono che l’imperialismo statunitense rimanga la forza più pericolosa del pianeta dovrebbero opporsi ai tentativi di consegnare 1,4 miliardi di cinesi a un’inferiorità tecnologica permanente. Dovremmo anche sostenere che i semiconduttori sono un bene pubblico universale, piuttosto che uno strumento per i profitti dei monopolisti e le manovre geopolitiche di stati potenti.
*Ben Wray ha scritto con Neil Davidson e James Foley Scotland After Britain: The Two Souls of Scottish Independence (Verso Books, 2022). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.