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17 marzo 2018Emmanuel Raffaele Maraziti
Firmata da A. G., ecco un’altra testimonianza per la rubrica #generazioneprecaria, dopo quella proposta in merito alle nuove “assunzioni” in Poste Italiane.
“Premiata Esselunga: è tra le migliori società in Italia dove lavorare“. La notizia è apparsa sui quotidiani poco più di un mese fa. Secondo quanto comunicato alla stampa, l’azienda fondata da Bernardo Caprotti ha ottenuto infatti la certificazione “Top Employer Italia 2018” per le “eccellenti condizioni di lavoro garantite ai propri dipendenti, identificazione e sviluppo dei migliori talenti a tutti i livelli aziendali, costante ricerca di miglioramento dei propri processi organizzativi”. Ente certificatore olandese, che ha valutato i dati relativi ad un totale di novanta società italiane, si occupa solo di realtà dotate di strutture di risorse umane particolarmente avanzate. E, soprattutto, opera le sue scelte attraverso un questionario destinato unicamente alle aziende e che non prevede domande dirette ai dipendenti. Insomma, un “premio”, o meglio una certificazione, da prendere con le molle, nonostante i titoloni: a fornire gli elementi necessari, infatti, è l’azienda stessa.
In ogni caso, stando ai bilanci, la catena milanese di supermercati storicamente rivale delle coop e presente quasi esclusivamente nel nord Italia , ha chiuso il 2017 con un fatturato di 7,75 miliardi, in aumento del 3,1% sul 2016. I clienti, giunti ad un totale di 5,6 milioni, sono anch’essi cresciuti del 5%, anche grazie all’apertura dello store di Roma Prenestino (+100.000); e con le nuove aperture, che hanno portato a 157 il numero complessivo dei supermercati Esselunga, sono aumentati ovviamente anche i dipendenti (+353 unità, arrivando ad un totale di 23.094). Il primo bilancio chiuso senza la governance del suo fondatore ha confermato dunque la stabilità dell’azienda e segnato peraltro il trionfo delle vendite online: il sito dell’azienda, infatti, vanta un fatturato pari a quello di tre grandi supermercati.
Tutto molto bello ma sono davvero solo rose e fiori? Io ci ho lavorato e posso raccontarvi la mia (breve) esperienza.
Vivo a Milano da circa quattro anni e in tutto questo tempo ho constatato una ricerca pressoché continua di personale da parte di Esselunga, soprattutto per ruoli di responsabilità. Una risposta alla continua esigenza di nuove risorse mi è stata data in sede di colloquio da parte dell’azienda stessa, incluso l’addetto alle risorse umane con il quale ho sostenuto il colloquio finale: tanti, tantissimi responsabili e direttori si dimettono a causa dei ritmi e delle “condizioni” di lavoro insostenibili. Una strana ammissione per un’azienda che poi si vanta di essere uno dei “top employer” del Belpaese.
Ho sostenuto il colloquio rispondendo ad un annuncio relativo alla ricerca di laureati da destinare alla carriera direttiva: sarei stato un allievo e avrei avuto una formazione mirata unicamente alla crescita interna. Ho sempre lavorato duro, l’idea di un lavoro pesante non mi spaventava, ma chiaramente cercavo qualcosa di meglio: la stabilità di un lavoro con delle garanzie e uno stipendio promettente con un ruolo migliore in futuro. Effettivamente, una volta entrato, se stai buono e sei ubbidiente, difficilmente vai a casa e lo stipendio non è niente male: straordinari rigorosamente pagati e salario che arriva puntuale. L’alta produttività ed il successo dell’azienda garantiscono questi “vantaggi”, che altro non sarebbero se non diritti se non fosse che troppo spesso anche i diritti basilari non sono garantiti.
Sta di fatto che, parlando con dipendenti lì da molti anni, mi sono reso conto che, effettivamente, proprio la garanzia di un “posto praticamente fisso”, di uno stipendio sicuro e decente, a fronte della necessità di pagare mutui e mantenere una famiglia, è una prospettiva abbastanza convincente per far si di passar sopra alle conseguenze di un rapporto azienda/dipendente accentuatamente “unilaterale”, per usare un eufemismo. Per spiegare senza eufemismi, d’altra parte, basta riassumere le frasi usate in sede di “presentazione aziendale” e poi, al mio primo giorno di lavoro, dal mio direttore: “sarà molto dura, non avrai più una vita tua, dovrai essere sempre a disposizione dell’azienda”. “Se hai una fidanzata o una famiglia, avrai dei problemi”, è un’altra delle frasi a quanto pare ricorrenti, ripetute come un mantra per obbligarti psicologicamente ad accettare l’annientamento delle tue esigenze e dei tuoi diritti. Incredulo, nella prima fase, avevo così pensato ad una sorta di tecnica pre-selettiva; il primo giorno con le premesse del direttore mi sono convinto che non lo era; in seguito ne avrei avuto la certezza. L’approccio Esselunga è un approccio da caserma, incluso check barba e capelli – rigorosamente rasata e corti – sul “modulo” d’arrivo. Il lavoratore non conta nulla, l’azienda è tutto. C’è a chi può piacere, per carità. E c’è chi è costretto a farselo piacere.
E’ il maggio 2015. Mi era stato detto che la sede sarebbe cambiata dopo qualche mese ma che, all’inizio, sarei stato mandato nella sede più vicino possibile al mio domicilio. Dopo la conferma dell’assunzione, mi comunicano la mia prima destinazione: Milano Porta Vittoria. Non essendo auto-munito ed abitando a Milano in zona Ticinese, è un’ottima soluzione. A due giorni dall’inizio, però, mi comunicano una “leggera” variazione: avrei lavorato a San Giuliano Milanese. Arrivarci è un po’ più complicato ma non impossibile e, comunque, ho bisogno di lavorare, così confermo la mia disponibilità e, quando l’orario di lavoro non mi permette di prendere i mezzi (la metropolitana chiusa fino alle 5.30 circa), vado a lavoro in bicicletta. Dopo tutto, tra andata e ritorno, sono “solo” meno di trenta chilometri. Sempre e comunque puntuale, vado avanti così per un mese, con turni di mattina che, fortunatamente, iniziano “solo” intorno alle sei. Ma il fatto che non sia auto-munito – così come avevo riferito fin dall’inizio – non è molto gradito. Vengo più volte contattato e ripreso proprio in merito a questo. Il fatto è che gli spostamenti di sede sono più frequenti del previsto e, soprattutto, gli orari sono decisamente flessibili. Devi essere sempre a disposizione, appunto. Il fatto di non avere l’auto è per l’azienda la premessa di problemi futuri. Problemi che loro assolutamente non vogliono avere, né pensano di risolvere con un metodo più conciliante rispetto alle esigenze dei dipendenti.
Il primo giorno provo a informarmi sui miei turni della settimana. Scopro che non avrei avuto dei turni, degli orari, delle indicazioni in merito. Scopro che non è ben visto voler sapere il proprio orario di lavoro. In realtà, quando entro in negozio, non so neanche a che ora andrò via. Arrivo, faccio quello che mi dicono, poi, quando è il momento, quando non servo più, mi dicono che posso andare. E solo prima di andare di solito mi dicono a che ora venire il giorno successivo (mattina o pomeriggio, chissà). A volte me lo comunicano anche dopo. A volte mi chiamano e l’orario appena comunicato viene variato, anticipato, posticipato o cancellato. Anche il giorno libero, tutt’altro che scontato quando c’è troppo da fare, non hai diritto di saperlo prima. Così come gli orari di lavoro, puoi saperlo al massimo il giorno prima, quando stai per andar via. Se tutto va bene. Se tutto va male, ti dicono che hai il giorno libero e poi, all’ultimo minuto, ti richiamano per dirti che no, che l’indomani dovrai essere a lavoro. Chiaramente, anche per le eventuali ferie il discorso cambia poco. Chiaramente, per la tua vita cambia molto. Non hai modo di fare e organizzare molto altro a parte lavorare.
Sta di fatto che, dopo un mese, avanti e indietro in bici, mai una lamentela o una richiesta, una mattina – il giorno dopo l’incontro con un responsabile che continuava a fare pressioni per la questione automobile – arrivo alle sette, procedo col mio lavoro come tutti i giorni ma, alle nove, inspiegabilmente, il caporeparto mi dice: “ok, per oggi puoi andare”. Trenta chilometri per farmi lavorare due ore e poi mandarmi a casa, nella piena consapevolezza di un’azione in tutta evidenza dimostrativa e insensata. Un abuso bello e buono. Ecco perché il giorno dopo ho dato le dimissioni. Questioni di principio a parte, non avevo una famiglia da mantenere e un altro lavoro lo avrei potuto trovare, come ho sempre fatto. Non tutti avrebbero potuto agire con la stessa leggerezza. Tanto più che i lavoratori sono tenuti buoni con i vantaggi e le garanzie di un’azienda solida. Ma il rispetto e i diritti sono un’altra cosa. Soltanto quando produttività e diritti si incontrano dovrebbe esser lecito considerare un’azienda un “top employer”.

E’ difficile definire così un’azienda che accogliendoti ti dice: la tua vita, il tuo tempo, da oggi non ti appartengono. Perché lì non metti a disposizione dell’azienda delle ore, per dedicare le altre alla tua vita. No, la tua vita è quello che riesci a recuperare tra un turno e una reperibilità. L’organizzazione del lavoro non è finalizzata a conciliare interessi dell’azienda e interessi del lavoratore. Contano solo gli interessi dell’azienda. E crescendo di ruolo va sempre peggio. Gli orari diventano notturni e ancora più flessibili. Sei reperibile 24h, per qualsiasi evenienza. Della tua vita rimangono i ritagli di tempo e un ottimo stipendio. I part-time lavorano, in molti casi, più di un full time. Assumerli, infatti, è un vantaggio per l’azienda, che deve garantire soltanto metà delle ore di un tempo pieno ma sa che il lavoratore difficilmente rifiuterà le ore in più e, in ogni caso, la certezza che quel lavoratore farà il bravo se tiene a portarsi a casa qualche soldo in più. La mia esperienza è stata breve, ma quello che ho sperimentato non è un caso isolato ma frutto di un sistema aziendale preciso e di cui tutti sono a conoscenza. Del resto, se parli con i dipendenti, sono stressati e stanchi ma non osano certo lamentarsi.
Pochi giorni prima della certificazione resa nota da Esselunga, del resto, sui giornali appariva paradossalmente un’altra notizia: un impiegato trasferito a sessanta chilometri di distanza dopo essersi iscritto alla Cisl. Trentuno anni, A.B. lavorava in Esselunga da cinque anni come impiegato di terzo livello. Ad un certo punto qualcosa non va: al lavoratore vengono rifiutati permessi, spostate ferie, viene ripreso. Al momento di iscriversi alla Cisl, viene convocato e gli viene detto: “se uno è iscritto al sindacato, non condivide i valori dell’azienda. Le conviene riconsegnare la tessera”. Dopo pochi giorni il trasferimento, del tutto ingiustificato secondo Stefania Zullo, funzionaria della Fisascat Cisl, che spiega: “A livello nazionale mettono al centro l’attenzione del lavoratore ma a Torino e in Piemonte c’è una brutta situazione. Peggio che nel resto d’Italia: c’è un abuso del potere datoriale, e i lavoratori si sentono sotto scacco“. Ora, a parte la prima frase di circostanza, smentita credo anche dalla mia testimonianza, viene comunque fuori un’affermazione forte: in una intera regione Esselunga abusa del suo “potere datoriale” e mette “sotto scacco” i lavoratori. Una ricostruzione verosimile con quanto ho vissuto in prima persona e quanto ho ascoltato dalle testimonianze di colleghi, vecchi e nuovi.
Ma se il tuo silenzio, la tua testa piegata e la tua vita fossero una merce di scambio ben pagata, tu cosa faresti e cosa potresti fare? Accettare o rifiutare, quasi mai è una libera scelta.